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Istat. Un paese più povero e impaurito

Un quadro che demolisce tutte le retoriche del governo e dei partiti che lo sostengono. Non c’è zona sociale che non stia in condizione assai peggiori di qualche anno fa.

Un dato per tutti: complessivamente, dall’inizio della crisi, cioè dal 2008, le famiglie hanno visto crescere del 2,1% il reddito disponibile in valori correnti, cui è corrisposta però una riduzione del potere d’acquisto di circa il 5%. Se si considera la dinamica crescente della popolazione residente, nel 2011, il potere d’acquisto delle famiglie per abitante è del 4% inferiore a quello del 1992. Persino meno, molto meno, di quanto non venga “percepito” dalla popolazione.

Tra il 1993 e il 2011 le retribuzioni contrattuali in Italia in termini reali sono rimaste ferme. Ma i prezzi, le tasse e le tariffe ovviamente no. E quindi il reddito disponibile delle famiglie italiane in termini reali «è diminuito nel 2011 (-0,6) per il quarto anno consecutivo, tornando sui livelli di dieci anni fa». Il reddito procapite è inferiore del 4% a livello del 1992 e del 7% a quello del 2007. In 4 anni, ha aggiunto, la perdita in termini reali è stata pari 1300 euro a testa e la propensione al risparmio delle famiglie è scesa dal 12,6% all’8,8%.

 La sintesi del Rapporto:

In alcune aree del paese, però, va peggio che altrove. Gli occupati sono aumentati – tra il 1995 e il 2011 – di 1,66 milioni di unità (+7,8%), ma la crescita si è concentrata nel Centro Nord mentre il Sud ha fatto un passo indietro (da 6,4 a 6,2 milioni di lavoratori). Nello stesso periodo l’occupazione nei paesi Ue15 è aumentata di 24,7 milioni di unità (+16,6%). Tra il 1993 e il 2011 gli occupati maschi sono scesi di 40.000 unità mentre le donne occupate sono passate da 7,6 a 9,3 milioni (1,5 mln in più nel Centro Nord, 196.000 al Sud).

Ciò comunque non significa che la condizione delle donne rispetto al lavoro sia effettivamente migliorata. Nel 2012, a due anni dalla nascita del figlio, quasi una madre su quattro (il 22,7%) che prima lavorava ha perso o abbandonato il lavoro. Solo il 77,3% delle neo mamme mantiene quindi il posto, un dato in calo rispetto all’81,6% del 2006. Rispetto al 2002 le percentuali di licenziamento per maternità – tra le cause di interruzioni del rapporto di lavoro – passano dal 6,9% al 23,8%.

La conferma avviene incrociando un altro dato. L’Italia è in fondo alla classifica europea per il contributo ‘rosa’ ai redditi della coppia: il 33,7% delle donne tra i 25 e i 54 anni non percepisce redditi, contro il 19,8% nella media Ue27. A superare – in negativo – l’Italia è solo Malta, dove tale percentuale sale al 51,9%. Subito dopo il Belpaese c’è la Grecia (31,4%). Al contrario, nei paesi scandinavi le coppie in cui la donna non guadagna sono meno del 4%; in Francia il 10,9% e in Spagna il 22,8%.

 

Del resto questo è un paese che anche prima dell’esplosione della crisi non “cresceva” più, impantanato tra un sistema di imprese che pretende di “competere” solo grazie alla precarizzazione del lavoro e un “sommerso” (o criminale) che ha assunto un peso decisivo nella “produzione di nuovo valore”. Il Pil italiano in volume ha segnato nel 2011 una crescita davvero misera, dello 0,4%. «L’attività economica non ha ancora recuperato il livello precedente alla crisi del 2008-2009». Nei settori più importanti, come la meccanica, è sotto quei livelli addirittura del 20%. «Il sistema delle imprese italiane, che non aveva ancora recuperato le perdite subite con la crisi del 2008-2009, ha sperimentato nel 2011 una nuova fase di difficoltà derivante dal sovrapporsi di una contrazione della domanda interna e di un indebolimento di quella estera», spiega l’Istat.

«Il recupero ciclico dell’attività produttiva dai minimi del 2009 è proseguito fino alla prima metà del 2011, per poi segnare una netta inversione di tendenza nella seconda parte dell’anno». Nel periodo 2000-2011 con una crescita media annua pari allo 0,4%, l’Italia risulta ultima tra i 27 stati membri dell’Unione europea, con un consistente distacco rispetto sia ai paesi dell’eurozona, sia dell’Unione nel suo complesso (circa un punto percentuale in meno all’anno).

Guardando indietro, la performance dell’Italia è stata migliore nel periodo 1992-2000 (+1,8% in media annua), ma il Paese si è comunque collocato al penultimo posto della graduatoria dei maggiori Paesi europei, davanti alla Germania (+1,7%).

Il sommerso vale invece fra 255 e 275 miliardi, cioè fra il 16,3% e il 17% del Pil, con riferimento al 2008. Con la crisi, l’area dell’economia sommersa si è «verosimilmente allargata», aggiunge l’Istat.

 

Ma tra estensione del sommerso e benessere sociale non c’è alcun rapporto positivo. Anzi. Al Sud sono povere 23 famiglie su 100, al Nord solo 4,9 (dati 2010). Il 67% delle famiglie e il 68,2% delle persone povere risiedono nel Mezzogiorno; sono i dati della povertà relativa, che riguarda la spesa media effettuata dalle famiglie.

Nel Mezzogiorno ad una più ampia diffusione del fenomeno si accompagna una maggiore gravità del disagio: l’intensità della povertà raggiunge, infatti, il 21,5%, contro il 18,4% osservato nel Nord. Particolarmente grave risulta la condizione della famiglie residenti in Basilicata, Sicilia e Calabria. Peggio ancora per le famiglie più numerose: in condizione di povertà relativa vive il 29,9% delle famiglie con cinque o più componenti (+7% rispetto al 1997). Nelle famiglie con almeno un minore l’incidenza della povertà è del 15,9% e complessivamente vivono in condizioni di povertà relativa 1 milione e 876 mila minori. Diminuisce invece, dal 1997 al 2010, la povertà nelle famiglie con a capo un anziano: l’incidenza di povertà scende dal 16-17% al 12,2%.

I separati e i divorziati, osserva l’istituto di statistica, sono più esposti al rischio povertà (20,1%), rispetto ai coniugati (15,6%). Le ex mogli sono più esposte (24%) rispetto agli ex mariti (15,3%).

 

E si è bloccata quasi completamente la mobilità sociale. Le opportunità di miglioramento rispetto ai padri «si sono ridotte e i rischi di peggiorare sono aumentati». Solo l’8,5% di chi ha un padre operaio riesce ad accedere a professioni apicali. «La classe sociale dei genitori condiziona fortemente il destino dei figli».

L’ascensore sociale appare bloccato anche nei percorsi formativi: tra i nati negli anni ’80 si è iscritto all’ università il 61,9% dei figli delle classi agiate e solo il 20,3% di figli di operai. La percentuale di chi raggiunge la laurea è molto diversa tra le classi: «si va dal 43% dei figli della borghesia nella generazione dei nati nel periodo 1970-1979 al solo 10% di quelli della classe operaia».

La famiglia di origine pesa anche nel raggiungimento del diploma. Infatti, mentre le differenze nei tassi di iscrizione sono ormai minime, il tasso di abbandono è molto più alto per gli studenti delle classi meno agiate: il 30% dei figli di operai nati negli anni ’80, contro il 6,7% dei figli di dirigenti, imprenditori e professionisti. Le differenze sono più esasperate nel confronto tra il Sud e il resto del Paese. Nel Mezzogiorno le difficoltà a salire i gradini della scala sociale sono maggiori. È più difficile ottenere una posizione lavorativa stabile negli anni successivi all’inizio di un lavoro atipico. A distanza di dieci anni, solo il 47,6% ha trovato un’occupazione stabile, al Nord, questa percentuale è superiore al 70%.

 

E sono ovviamente i giovani a pagare il prezzo maggiore. Aumenta il numero di quelli che restano in casa: il 41,9% dei giovani tra 25 e 34 anni vive ancora in famiglia, contro il 33,2% del 1993-1994. Il 45% dichiara di restare in famiglia perchè non ha un lavoro e non può mantenersi autonomamente. Il prolungamento della permanenza in casa con i genitori si estende anche a giovani adulti:il 7% fra 35-44 anni vive ancora in famiglia, dato raddoppiato. Si dimezza in 20 anni la quota di giovani che esce di casa per sposarsi.

Nel 2011 in Italia c’erano 2,1 milioni di giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiavano nè lavoravano. La quota italiana di Neet (not in education, employment or training) è del 22,1%, a fronte di una media europea del 15,3%. La quota è ancora una volta sensibilmente più alta al Sud (31,9% con punte superiori al 35% in Sicilia e Campania). In Germania i Neet sono appena il 10,7%.

 

In questa situazione, dove l’età della riproduzione si identifica con le maggiori difficoltà economiche, si fanno sempre meno figli. È in forte diminuzione il numero delle coppie sposate che hanno figli: appena il 33,7% nel 2010-2011 contro il 45,2% del 1993-94. La famiglia tradizionale «soffre» persino nel Mezzogiorno, dove rappresenta poco più del 40% contro il 52,8% di quasi vent’anni prima. Raddoppiano le nuove forme familiari (single non vedovi, monogenitori non vedovi, libere unioni e famiglie ricostituite coniugate) che hanno raggiunto gli oltre 7 milioni di nuclei su 24 totali, il 20%.

I matrimoni sono in continua diminuzione (poco più di 217 mila nel 2010, nel 1992 erano circa 100 mila in più). Le “libere unioni” sono al contrario quadruplicate in meno di 20 anni, nel 2010-2011 sono 972 mila. Le “convivenze more uxorio” tra partner celibi e nubili, in tutto 578 mila, hanno fatto registrare gli incrementi più sostenuti: 8,6 volte in più di quelle del 1993-1994. In aumento anche le separazioni: ogni 10 matrimoni quasi tre finiscono in separazione, una proporzione raddoppiata in 15 anni.

Sono più di 4 milioni infine le persone “incapienti” che non riescono ad usufruire per intero delle detrazioni spettanti perchè – o con un reddito troppo basso o con troppi familiari a carico – la loro somma è maggiore dell’imposta lorda dovuta e quindi le detrazioni in eccesso vengono perse. Tali contribuenti perdono così 594 euro pro capite, per un totale di circa 2,6 miliardi di euro.

 

Ma dal peggioramento delle condizioni di vita non emerge “spontaneamente” una consapevolezza magggiore del proprio stato, né tantomeno delle responsabilità per questa situazione. Per esempio, criminalità e insicurezza rimangono una delle principali preoccupazioni degli italiani, anche se in realtà negli ultimi 20 anni si è avuta – dati rilevati dal ministero dell’Interno – una significativa riduzione dei reati più gravi come gli omicidi (da 2,6 a 0,9 ogni 100 mila abitanti), degli scippi (da 100,2 a 23,5 ogni 100 mila abitanti) e dei furti in abitazione (da 341,2 a 279,7).

Sono invece in controtendenza le truffe, più che raddoppiate, passando da 62 reati per 100 mila abitanti nel 1992 a 159 nel 2010. A cambiare sono state soprattutto le modalità di esecuzione. I truffatori hanno metabolizzato le innovazioni tecnologiche e le modifiche nel sistema di circolazione del denaro e ora le sfruttano appieno: dalla clonazione di carte di credito e bancomat, alle truffe telefoniche; e il ‘phishing’ attraverso cui accedere ai servizi di ‘home banking’.

 

Infine, una nota che rende totalmente implausibile la batteria di argomentazioni avanzate dal governo – nelle persone di Monti e Fornero, soprattutto – in difesa della loro proposta di “riforma” del mercato del lavoro. Per grado di flessibilità nei rapporti di lavoro, infatti, tra il 1995 ed il 2008, l’Italia è «profondamente cambiata» è «scesa di tredici posizioni» nella classifica per rigidità basata sull’indice Ocse. Il nuovo Rapporto annuale dell’Istat rileva che nel 2011 in Italia sono aumentati i contratti a tempo determinato e di collaborazione (+5,3% pari a 136 mila unità), concentrati prevalentemente nelle posizioni alle dipendenze. E, come già nel 2010, è aumentato soprattutto il numero di contratti di breve durata: quelli fino a sei mesi sono cresciuti dell’8,8% (+83 mila unità), mentre è diminuito quello dei contratti con durata superiore all’anno (-32 mila unità).

Aumenta la precarietà, dunque, insieme alla povertà e alla caduta del Pil. Il nesso ci sembra evidente. E quale cura propongono? Aumentare ancora di più la precarietà, permettendo anche i licenziamenti individuali “per motivi economici”.

 

E invece la caduta del Pil e dei redditi dipende da tutt’altro fattore, che chiama in causa la “prudenza” delle imprese e la protervia della banche.

Nel 2011 gli investimenti fissi lordi sono diminuiti dell’1,9%, sottraendo alla crescita 0,4 punti percentuali. Una modesta attività d’investimento che è stata accompagnata da crescenti difficoltà di accesso al credito bancario. «L’indagine sulla fiducia delle imprese manifatturiere segnala come, nella seconda metà del 2011, la percezione delle imprese sulle condizioni di credito sia peggiorata bruscamente: la percentuale di imprese che avverte un inasprimento delle condizioni di finanziamento, in crescita pressochè continua dalla metà del 2010, sul finire del 2011 si è attestata in tutti i settori su livelli compresi tra il 35% e il 45%, valori molto elevati e paragonabili a quelli osservati nelle fasi più severe della crisi dell’autunno 2008». Inoltre, si legge sempre nel Rapporto, «al deterioramento delle condizioni creditizie si è associato, con qualche ritardo, un aumento della quota di imprese che si ritiene effettivamente razionata, soprattutto di quelle che si sono viste rifiutare dalla banca il finanziamento richiesto».

 

 

 

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