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La sfida dei contenuti: partiti divisi davanti alla Fiom

È bastato porre la discussione con “la politica” sui contenuti, anziché sulle alleanze e gli schieramenti, per evidenziare come le chiacchiere stiano a zero. Persino il servizio d’ordine, che aveva fin lì contenuto gli scatti d’ira nell’ambito del brusio di sottofondo, è esploso in improperi quando ha provato a dire che “sull’art. 18 abbiamo fatto argine”.

Gli unici applausi di cortesia il segretario del Pd li ha strappati criticando Finmeccanica che ha deciso di liberarsi delle produzioni civili per tenersi solo le militari; e quando, pur tra contorcimenti lessicali ai limiti del fantozziano, ha riconosciuto che in effetti potrebbe servire “una legge di appoggio ai meccanismi della rappresentanza”. Insomma “un chiarimento sull’art. 19, perché i diritti sindacali non possono dipendere dal fatto che un sindacato abbia firmato un contratto o no”.

 

Ma “la foto del Parco dei Principi” restituisce uno scenario politico slabbrato a fronte di un “programma minimo d’emergenza” assolutamente condivisibile (semmai migliorabile e integrabile). Il Pd, come detto, ha risposto picche, rivendicando l’appoggio al governo Monti in nome della responsabilità nazionale. Vendola ha menato il can per l’aia stretto dall’ansia di non distanziarsi troppo da Bersani e di compiacere comunque la platea dei delegati; compito ingrato e impossibile, frutto di una scelta solo tattica (imporre le primarie di coalizione al Pd; cosa che sembrava furba un anno fa, ma adesso…). Di Pietro e Ferrero hanno potuto dire “la vostra agenda è la mia agenda”, in modo chiaramente strumentale il primo, molto sincero il secondo (che è stato un metalmeccanico alla Fiat, tra i 23.000 licenziati del 1980), con l’appena accennata idea di mettere in cantiere una sorta di Syriza all’italiana da qui alle elezioni. Diliberto è riuscito a dire che questo andava bene e andava fatto, ma per cercare subito dopo l’alleanza elettorale… col Pd.

 

Nel complesso, questa classe politica si dimostra ancora inconsapevole (con l’eccezione parziale di Ferrero) del “terremoto di magnitudo 10” (parole di Mario Tronti) intervenuto dopo i primi anni di crisi sistemica.

Da parte nostra, possiamo dire che con il “modello Pomigliano” Marchionne ha fissato un “prima di Cristo” e un dopo Cristo sul terreno delle relazioni industriali, tra capitale e lavoro. Mentre la “lettera della Bce” dell’estate scorsa, che ha poi imposto il governo Monti a un Parlamento incapace persino di capire quanto stava accadendo in Europa, ha fatto lo stesso nelle relazioni gerarchiche tra Stati nazionali e Unione europea. Non è detto che il processo di integrazione non esploda in corso d’opera, ma il tentativo in atto è chiaramente rivolto ad accelerare i tempi del trasferimento di poteri dal livelo nazionale a quello “comunitario”.

 

Queste due cesure svuotano i parlamenti nazionali e i governi di molte prerogative che sono il cuore di ogni progettualità: politica di bilancio e fiscale in primo luogo. Significa che le chiavi delle casseforti statali passano in altre mani e si riduce al minimo vitale la possibilità nazionale di intervenire nell’economia, sulle banche, sulla redistribuzione del reddito.

Che cosa significa, dunque, in questo quadro, “entrare in Parlamento”? Cosa può fare un partito di sinistra che non abbia dimensioni tali da farne il baricentro del conflitto politico-parlamentare, cioè il centro motore del rapporto con l’Europa in costruzione?

Fatto salvo il “diritto di tribuna” (quell’opportunità di far vedere e sapere alla classe che esiste qualcuno che la pensa in modo diverso dal potere; la ragione che Lenin stesso addusse per la partecipazione alle elezioni del febbraio 1917), praticamente a nulla. Qualche legge sui diritti civili (aborto, matrimoni, mobbing, ecc), un po’ di chiarezza in campo legale, niente altro.

È credibile “promettere” grandi riforme in questo scenario? No, chiaramente. Certo, uno schieramento radicale che – come Syriza nei sondaggi attuali – avesse la possibilità di diventare il primo partito, potrebbe giocare un ruolo molto più efficace nel contrattare con l’Europa, Ma a questo stadio della crisi non potrebbe mettere seriamente all’ordine del giorno né un’uscita dall’Unione europea, né una modifica radicale dei criteri fondanti questa Europa.

La crisi non finirà domattina. È teoricamente possibile che il suo procedere faccia sorgere o crescere smisuratamente movimenti in diversi paesi, facilitando il comito di intercinnettere le idee e le energie per un’”altra Europa”. Il malcontento popolare potrebbe però anche prendere derive reazionarie, e a quel punto diventerebbe difficile persino per i “poteri forti” controllare il convoglio.

La mossa della Fiom di chiamare i partiti dell’ex “Unione” a dire sì o no a contenuti concreti da mettere all’ordine del giorno del prossimo parlamento post-elettorale è servita se non altro a far chiarezza. Solo la mobiltazione di massa – incisiva, pressante, determinata, orientata sugli obiettivi centrali in questa fase – può determinare cambiamenti nei rapporti di forza tra lavoratori e imprese. Quindi anche creare un’”altra politica”, fuori da questo circo ormai fuori epoca e incapace di ripensarsi.

 

Alcuni articoli che aiutano a sapere di cosa s’è parlato e degli umori veri della platea.

Il programma di sinistra

È il tempo delle scelte. I metalmeccanici invitano le forze politiche a battersi contro «un’ingiustizia sempre più profonda». Dall’articolo 8 alla scuola: le tute blu hanno un piano. In mancanza della Cgil

Francesco Piccioni
La concretezza delle tute blu non sopporta giri di parole fumose. E la politica italiana, anche a sinistra, è abituata da troppo tempo al tatticismo, agli «schieramenti elettorali» che prescindono dal «che fare?» una volta in Parlamento; senza più attenzione agli interessi materiali e politici dei «rappresentati». Specie per quanto riguarda i lavoratori.
La Fiom ha rovesciato l’ottica. «Non aspetteremo che i politici, in piena campagna elettorale, vengano a prometterci il possibile e l’impossibile». Li «chiamiamo noi» per dire con chiarezza cosa vogliamo e «chiedere risposte». Perché «non consentiremo che i lavoratori vadano a votare senza sapere come si potrà recuperare la profonda ingiustizia che anche in queste ore si sta legiferando».
Nella grande sala del Parco dei Principi, il segretario generale Maurizio Landini espone un vero e proprio programma di governo per una sinistra «necessaria», più che possibile. Fatto di punti concretissimi, che ribaltano come un guanto le politiche del lavoro e industriali applicate finora. È stato sciocco chi ha provato a descrivere l’appuntamento come la trasformazione di questo sindacato in una nuova forza politica. «Noi siamo un sindacato autonomo e indipendente, ma non indifferente», che «può parlare alla pari con tutti: imprese, partiti, governi». Un sindacato che da oltre un secolo è parte integrante della sinistra, ma non ha più un partito di riferimento. «Vogliamo discutere di un programma alternativo a quello del governo Berlusconi, ma anche del governo Monti». Perché «la crisi è molto profonda e non se ne vede la fine; quindi «va avviata una fase costituente in cui tutti si rimettono in gioco».
Di conseguenza, mette giù una griglia di argomenti che devono selezionare gli interlocutori, testarne la serietà. Sarebbe stato logico che l’avesse fatto tutta la Cgil, ma ieri era presente e solidale solo uno dei segretari confederali, Nicola Nicolosi.
Legge sulla rappresentanza sindacale. L’unità sindacale sarebbe una buona cosa, ma quando non c’è – come oggi – i lavoratori debbono avere il diritto di scegliersi il sindacato e soprattutto di votare accordi e contratti che poi loro saranno chiamati a rispettare. Il rischio, altrimenti, è che le aziende si scelgano o si facciano il loro sindacato finto.
Cancellazione dell’art. 8. La «manovra d’agosto» di Berlusconi-Sacconi ha inserito una bomba a tempo nelle relazioni industriali, con questo articolo che consente agli accordi aziendali – firmati magari da sindacati di comodo – di andare «in deroga ai contratti e alle leggi». Anti-costituzionale, ma conservata da Monti.
No a questa riforma del mercato del lavoro. L’art. 18 è stato svuotato completamente, togliendo la possibilità reale del reintegro (al contrario di quanto sostengono sia il Pd che Susanna Camusso, ndr). Va ripristinato nella sua forma originaria ed esteso, perché da questo dipende il diritto del singolo lavoratore di poter aprire bocca e di fare il delegato senza timori. Va ridotto drasticamente il lavoro precario; introdurre il principio che a parità di lavoro e mansione ci deve essere parità di salrio e diritti.
Ammortizzatori sociali. Vanno estesi, non ridotti (come sta facendo il Parlamento); le risorse vanno trovate facendo pagare il contributo anche a quelle categorie economiche che oggi non hanno la cig, ecc. Reddito di cittadinanza. Un principio europeo che il nostro paese non ha mai reso attivo, che può garantire il diritto allo studio e ridurre il ricatto sul salario.
Pensioni. I lavori non sono tutti uguali; stare in fonderia o in corsia non è come fare il prof. universitario. Va riconosciuto il peso che hanno sulle aspettative di vita, altrimenti è una tassa sulla vita. Il «metodo contributivo» non può esser l’unico; già con Prodi si era fissato il criterio (non rispettato) di portare l’assegno pensionistico minimo almeno al 60% del salario di categoria. I soldi dei fondi pensione andrebbero investiti solo per rilanciare l’economia interna.
Fisco. Patrimoniale, progressività delle imposte, tassazione delle rendite finanziarie, combattere la criminalità nell’economia.
Occupazione. Ridurre l’orario di lavoro (come in Germania) per non perdere competenze.
Nuovo modello di sviluppo. Cosa, come, per chi produrre, e in modo ambientalmente sostenibile. Politica industriale. Non se ne parla più. Ma Finmeccanica (pubblica) vuol tenere solo la produzione militare e dar via tutto il civile avanzato (treni, nucleare, ecc). Riforma della scuola. Garantire parità di condizioni di partenza per aumentare la «mobilità sociale».
Europa. Dopo 20 anni, il sistema rischia di esplodere. Servono regole per la finanza, intervento pubblico: No al pareggio di bilancio in Costituzione.
E intanto ci si mobilita ancora. Il 13 e il 15 a livello territoriale (scioperi e presidi); il 14 sotto il Parlamento, a Roma, contro la riforma del mercato del lavoro e lo spacchettamento di Finmeccanica. Un programma da imporre con la lotta, insomma, non una lista di richieste a una politica distratta.
 
 
Fischi per Bersani e scarso entusiasmo, i politici non scaldano
Sara Farolfi
ROMA

Michele Viglione, delegato Selex Elsag fino a pochi mesi fa, scandisce parole e ragionamenti con tono riflessivo e pacato. Non si è alzato un attimo dal suo posto in platea nella sala convegni dell’hotel Parco dei principi, ha ascoltato bene tutti gli interventi, ma quando ha sentito Bersani dire «noi sull’articolo 18 abbiamo fatto da argine» ha alzato le braccia e gridato forte: «Ma venite voi in un’azienda metalmeccanica…». Non l’hanno lasciato finire, l’intervento del segretario del Pd era ancora in corso. «Stava dicendo una cosa non vera – racconta poi – e a me mi si è annebbiata la vista». Alla Selex Elsag, che fa parte del gruppo Finmeccanica, ci saranno presto migliaia di esuberi, «che se passa la legge Fornero diventeranno migliaia di licenziamenti, senza nemmeno ammortizzatori sociali».

Forse non è un caso che l’intervento più applaudito di tutti ieri sia stato quello di Stefano Rodotà. I politici, anche quelli più vicini, non accendono l’entusiasmo di una platea composta soprattutto di delegati e funzionari dei metalmeccanici Cgil. Per Bersani volano fischi. C’è chi discute se sia «coraggio» o «incoscienza» quel che ha portato il segretario del Pd nella tana del lupo, chi urla «l’articolo 18 è mio», chi più pacatamente osserva che il leader del maggiore partito di centrosinistra «non ha risposto in maniera chiara nemmeno a una delle questioni poste da Landini». Per Ferrero sono applausi, ma una platea politicamente navigata sa perfettamente che anche il più sincero degli attestati di vicinanza poco conta se poi concretamente nulla si riesce a cambiare. Applausi, «al netto di una buona dose di propaganda», anche per Di Pietro che incassa a piene mani l’avere recepito le proposte della Fiom in una proposta di legge sulla democrazia e la rappresentanza nei luoghi di lavoro. Vendola invece convince meno lasciando tra il pubblico la sensazione di un difficile esercizio di equilibrismo nel tentativo di salvare capre e cavoli, la sintonia con le richieste avanzate dal mondo del lavoro da una parte e l’alleanza con un partito che esplicitamente ormai guarda al centro dall’altra.
Quanto misura la distanza tra palco e platea? Almeno tanto quanto la distanza tra le parole, ossessivamente immobili e ritualmente autoreferenziali, e le cose, che nel paese reale si avvitano in una spirale ogni giorno più drammatica. Ma sul palco questa volta a fare gli onoroi di casa c’è la Fiom perchè, lo dice Giorgio Airaudo, «non consentiremo che le lavoratrici e i lavoratori votino senza sapere per quali politiche». Non è la Fiom che «scende» in politica, semplicemente perchè la Fiom la politica l’ha sempre fatta. Vuoi perchè, per dirla con il segretario Landini, «la Fiom, il problema del cambiamento della società al di fuori della fabbrica se l’è posto da quando è nata», o perchè «sono i nostri temi a essere politici» per dirla con le parole di Emanuele Di Nicola, una vita alla Fiat di Melfi e ora segretario regionale della Basilicata. Qualcuno ci scherza su. «La Fiom in politica? È una minaccia, perchè a differenza di quel che fanno i politici di professione, noi per statuto possiamo fare una cosa o l’altra», dice Raniero Onori, funzionario ed ex delegato alla Thyssen Krupp di Terni, «ma se l’antipolitica, che parla di queste cose, la danno al 20 percento, allora viene da dire che noi siamo più titolati e allora magari qualcuno esce dalla Fiom e si mette a fare politica». È «una minaccia», che ben misura la distanza tra palco e platea.
La delusione finale si coagula per molti attorno alle parole pronunciate da Landini a proposito degli operai della Fiat di Termoli che prenderanno 300 euro in meno in busta paga rispetto ai loro colleghi solo per essere iscritti alla Fiom. «Se io fossi in Parlamento starei dalla parte di quei lavoratori», dice Landini tra gli applausi. Ma in platea nessuno sente pronunciare le parole, «quando saremo in Parlamento…».
«Almeno è stato l’inizio di una discussione», dice un delegato mentre tutti si stanno alzando. «Un confronto utile, che certo non risolve i problemi del rapporto con la politica ma almeno comincia ad affrontarlo», chiosa un dirigente di lungo corso come Giorgio Molin. La strada della riconciliazione tra mondo del lavoro e rappresentanza politica si annuncia lunga e in salita. E alla fine della giornata c’è chi ci scherza su. «Chi mi ha convinto di più? Landini naturalmente».

 
da “il manifesto”
 
 

 
 

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