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Quattro nanetti senza idee in vertice

 

 

Il vertice c’è, le idee no
Francesco Piccioni
Niente di nuovo sul fronte occidentale. Il vertice a quattro di Villa Madama (tra Italia, Germania, Francia e Spagna, i principali paesi dell’eurozona) non ha partorito alcuna nuova idea per uscire dalla crisi o almeno tamponarla.
Sia chiaro: nessuno si aspettava delle decisioni importanti. Quelle sono delegate alla riunione plenaria dei capi di stato e di governo già fissata per il 28 e il 29 giugno. Ma qualche idea, un accenno di uscita dalla narcolessia era lecito attenderlo. Nulla. O questi quattro – Angela Mekel, Mariano Rajoy, Francois Hollande e il padrone di casa Mario Monti – sono bravissimi a non lasciar trapelare nulla o non c’è proprio nulla da far trapelare.
Volendo cercare col lanternino, si può gioire perché fraü Merkel ha ammesso che «le finanze solide sono un presupposto, ma non sono sufficienti se non c’è la crescita». Ma per tutto il tempo della conferenza stampa finale ha battuto su un un’unico tasto: «ci vuole più Europa politica». Ovvero l’unità di bilancio e fiscale sotto la supervisione di Bundesbank. Su questo piano Monti s’è cavato il sassolino che da tempo tutti covavano contro il «rigorismo» astratto dei teutonici: «quasi 10 anni fa ormai, nel 2003, la Germania e la Francia con l’autorizzazione e la complicità della presidenza italiana dell’Ue deragliarono dalle regole dell’euro e abbiamo impiegato quasi dieci anni a ricostruire una credibilità che non venne infranta dai greci o dai portoghesi ma dai principali paesi dell’euro».
Tutti e quattro hanno detto «appoggiamo l’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie», la cosiddetta Tobin Tax. Salvo poi capire che si parla per ora soltanto di una «procedura di cooperazione rafforzata» pensata per aggirare la contrarietà britannica.
Nemmeno «il pacchetto di misure per la crescita», visto da vicino, ha alcunchè di eccitante. C’è un accordo per stanziare una cifra pari all’1% del Pil dell’eurozona (120-130 miliardi), praticamente un ottavo di quanto la Bce abbia versato nelle casse delle banche in appena tre mesi. Mario Monti ha però gelato da par suo ulteriori illusioni: «siamo d’accordo sul rilancio della crescita, degli investimenti e dei posti di lavoro… attraverso riforme per una maggiore competitività a livello nazionale». Chi sta misurando sulla propria pelle gli effetti della «terapia Monti» sull’economia italiana non può trattenere un brivido.
Gli eurobond non sono stati neppure nominati, se non da Hollande, come «strumento utile» che farà la sua comparsa quando il processo di integrazione delle politiche di bilancio sarà arrivato a un punto definitivo. Tra anni, dunque. Il che appare perfino logico, perché la garanzia sul debito «in comune» può essere efficace solo se anche la sua creazione non è più (tutta) nelle disponibilità nazionali.
Quali strumenti sono davvero in campo, allora? Solo l’Efsf e l’Esm, i due «fondi salva-stati» che o funzionano male (il primo) o non funzionano ancora (il secondo). Circolano proposte per consentire al (futuro) Esm di salvare direttamente le banche. Ma le resistenze sono forti. In molti preferiscono che il fondo possa finanziare solo gli Stati – scassandone il debito pubblico – che a loro volta potrebbero «salvare le banche» ma in cambio di un maggiore controllo.
C’è solo da sperare che questa catatonia nasconda qualche vera «svolta», perché il supervertice dll’Eurozona, la prossima settimana, è ormai caricato di attese salvifiche irresistibili. Deluderle significherebbe aprire le porte alla «guerra finanziaria» contro l’Europa. A finire sotto tiro per primi sarebbero i paesi più claudicanti (Spagna, Irlanda, Portogallo), per passare subito dopo all’Italia e quindi alla Francia. A quel punto la Germania regnerebbe tra le rovine…
Una moneta non può resistere a lungo se non è chiaro a tutti chi è il «prestatore di ultima istanza». Nemmeno questo è certo, nell’assurda architettura istituzionale europea. Hollande sembra affidare al nascente Esm questo compito. Ma c’è poco tempo e questo, forse, potrebbe «convincere» Merkel & co. a cambiare atteggiamento.
L’esempio americano, del resto, è quasi da manuale. Lì c’è una Federal Reserve universalmente nota come last lender che esercita il ruolo con grande spregiudicatezza. Nella settimana che si è chiusa, per esempio, pur non decidendo nuove «immissioni di liquidità», ha esteso l’ultima «operazione twist» fino a sei mesi e per un ammontare di 267 miliardi di dollari; oltre ad annunciare che il tasso di interesse resterà praticamente a zero fino a tutto il 2014.
La Bce, invece, è vincolata per statuto a un solo obiettivo: combattere l’inflazione. Ma anche qui la realtà della crisi ha costretto il presidente, Mario Draghi, a inventarsi delle «operazioni non convenzionali». Prima (nel 2011) l’acquisto di titoli di stato italiani e spagnoli per raffreddarne lo spread; poi due operazioni di prestito illimitato alle banche, all’1% di interesse e per 1.000 miliardi. Può farlo ancora, tenendo buoni «i mercati». I quali anzi premono perché tanta manna cada ancora su di loro.
Manca invece la politica comune. L’architettura che impegna tutti ad agire unitariamente. E un «garante» solvibile che accetti il ruolo. Non che questo sarebbe sufficiente a «superare la crisi» sistemica, ma se non altro renderebbe l’Europa un bersaglio meno facile. E redditizio.
da “il manifesto”
 Anche Il Sole 24 Ore non crede che ne venga fuori nulla di sufficiente. Ma deve almeno “provare a crederci”.

Il filo sottile per l’accordo

Carlo Bastasin

La posizione negoziale di Mario Monti in Europa è davvero poco invidiabile: rappresenta un Paese molto più esposto degli altri all’attacco dei mercati, ma al tempo stesso deve essere mediatore tra Francia e Germania pur di garantire un accordo vitale per l’Italia. Come se non bastasse, in casa propria assiste a proposte politiche sconcertanti sull’uscita dall’euro, che indeboliscono la credibilità dell’impegno del Paese. Non può nemmeno contrastare tali proposte sottolineando all’opinione pubblica la drammatica fragilità finanziaria italiana senza rischiare di aggravarla.

Ma non è tutto, un’ulteriore difficoltà è nell’assicurare che i proclami retorici di cui i leader europei saranno generosi anche al prossimo vertice, con gli impegni concreti di cui invece sono avari. Gli analisti americani per esempio descrivono le ambizioni del Consiglio europeo del 28 e 29 giugno con sarcasmo, usando termini della cultura comunista: “la lunga marcia”, il “balzo in avanti”, il “piano quinquennale”. Sanno che dal vertice potrebbe emergere un disegno ambizioso che conduca l’area euro all’unione politica entro un decennio, ma non è la pazienza la prima virtù dei mercati finanziari. E sulla reazione immediata dei mercati, cioè sul livello degli spread spagnolo e italiano, rischia di decidersi già entro una settimana la sopravvivenza dell’eurozona.

Nell’incontro preparatorio di Roma, l’annuncio più esplicito è stato quello di un pacchetto per la crescita da 130 miliardi. Gli italiani avranno alzato uno scettico sopracciglio e pensato: un’altra volta? Fortunatamente l’annuncio ha dietro di sé alcune proposte di attuazione – sono pubbliche quelle di alcuni documenti preparatori – che lo rendono plausibile. Mobilitare l’1% del Pil può avere effetti moltiplicati in una fase di recessione. Dunque la prima decisione è positiva. Tuttavia tra una settimana i mercati vorranno vedere quasi esclusivamente provvedimenti che possano far scendere gli spread di Italia e Spagna.

Quello che chiedono è da subito una forma o un’altra di messa in comune dei debiti pubblici. Saremmo nei guai se questo significasse che o arrivano gli eurobond o il vertice è fallito. Gli eurobond non vengono nemmeno menzionati nel documento pubblicato dal vertice del G-20 di Los Cabos. L’obiezione tedesca è stata troppo forte. Una delle ipotesi meno intrusive di eurobond, il “fondo di riscatto” che dovrebbe mettere in comune solo la quota dei debiti pubblici oltre la soglia del 60% dei Pil, non figura nemmeno nel compromesso parlamentare tra governo e opposizione di Berlino. Ieri il presidente francese, che sembrava aver ridotto la richiesta agli eurobills – titoli di breve durata – ha riconosciuto che essi arriveranno solo tra diversi anni. La proposta più sottile è di emettere eurotitoli dal 2015 e solo sul nuovo fabbisogno degli Stati (non quindi a fronte del rinnovo dei vecchi titoli in scadenza) a patto che il disavanzo fiscale sia verificato e autorizzato dall’Eurogruppo. Sarebbe una parte minima dei debiti pubblici, ma tale da spingere alla convergenza dei rendimenti sui titoli dell’intero debito. In questa opzione, gli eurobond arriverebbero solo dopo aver trasferito sovranità fiscale a Bruxelles, una prospettiva che però ai francesi piace poco. Qui si gioca il contrasto tra Berlino e Parigi in mezzo al quale Monti deve trovare una via d’accordo: Merkel vuole prima l’unione fiscale e politica e poi la messa in comune dei soldi; Hollande vuole il contrario.

Il margine di mediazione italiano sembra quello di ricorrere agli strumenti esistenti per ottenere la stabilità finanziaria e al tempo stesso aprire la strada all’evoluzione disegnata dalla road map. Un’ipotesi è quella di utilizzare le risorse dei fondi salva-stati per dare garanzie alla Banca centrale europea a fronte di una sua ripresa di acquisti dei titoli di Stato. La mutualizzazione dei debiti avverrebbe in forma indiretta, cioè attraverso il bilancio della Bce, con strumenti già sperimentati e con risorse già stanziate. Il programma di acquisti dei titoli italiani da parte della Bce, nell’agosto-ottobre scorso, era fallito perché troppo timido. Anziché contrastare le vendite del mercato aveva offerto ai venditori un’opportunità per affrettarsi a cedere i titoli. Per stabilizzare i mercati, gli acquisti devono essere massicci e per questo servono le garanzie degli Stati sulle perdite eventuali della Bce. Berlino sembra contraria a coinvolgere la Bce, ma è incapace, per limiti politici e giuridici, di offrire una soluzione che non passi dalla Bce o dal Fondo monetario. Questo è l’ostacolo principale da superare.

Aprire formalmente un programma di assistenza sarebbe l’ipotesi peggiore. Anche nell’eventualità che non scatenasse panico e fuga dai depositi bancari, scaricherebbe l’intero aggiustamento su Italia e Spagna anziché sull’eurozona. Sarebbe una sconfitta per il governo italiano, costretto a lasciare in mano alla troika le leve della politica economica, ma una sconfitta da cui paradossalmente nessun altro attore politico nazionale potrebbe ricavare vantaggio. Se questo fosse chiaro, il governo avrebbe la forza per mobilitare il Parlamento italiano su misure di riforma del Paese più coraggiose di quelle finora tentate e tali da assicurare il taglio del debito pubblico italiano fin da adesso.

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