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Diaz, attesa la sentenza della Cassazione

La condanna, come scrive la sentenza d’appello, o l’assoluzione della maggior parte degli imputati, come recita il primo verdetto del 2008, accolto con urla – «Vergogna! Vergogna!» – da decine di persone che attesero fino a notte fonda la lettura del dispositivo.

Molti anni dopo, a undici anni dai fatti, la Corte di Cassazione scioglierà oggi il dilemma con una sentenza prevista dopo le 16 e che dovrebbe mettere la parola fine alla vicenda del massacro di 92 cittadini europei inermi e incolpevoli dentro una scuola genovese dove trovarono rifugio alcuni manifestanti sfollati dalle tende dopo il nubifragio di due notti prima. Circa 70 i feriti, tre in condizioni gravissime, di cui uno in coma. 75 di loro, vengono portati alla caserma di Bolzaneto per un supplemento di orrore. Pochissimi riuscirono a fuggire.

La scuola Diaz era un dormitorio di fronte al media center del Genoa social forum, la vastissima coalizione che promosse tre giorni di dibattiti e manifestazioni contro il G8 del 2001. A prenderla d’assalto, l’ultimo di quei tre giorni, 400 poliziotti, con decine di carabinieri defilati per via dell’omicidio di Carlo Giuliani 29 ore prima da parte di uno di loro.

Il blue block fece irruzione in entrambe le strutture che era già notte. Nel dormitorio pestò a più non posso e solo per miracolo non ci scappò un altro morto, nel media center fu disturbato da una parlamentare di Rifondazione e l’opera risultò monca ma l’irruzione fruttò un discreto bottino di computer distrutti e trafugati. Quanto sia difficile il processo lo spiegarono i due pm all’inizio della lunghissima requisitoria nel luglio di quattro anni fa: processare qualcuno in divisa è più difficile di processare uno stupratore (perché si tende a colpevolizzare le vittime) e difficilissimo come un processo per mafia (perché scatta il meccanismo dell’omertà). Ecco perché di quei quattrocento “eroi” sono finiti alla sbarra solo in 25: i più alti in grado di quella notte e i capisquadra della celere, sorta di braccio violento della polizia.

Si tratta di uomini vicinissimi al capo della polizia di allora e oggi sottosegretario, come Francesco Gratteri (oggi capo della Direzione Centrale Anticrimine), dirigenti di primo piano come il capo degli analisti della polizia di prevenzione, Giovanni Luperi (coordinatore della task force europea che indaga sugli “anarcoinsurrezionalisti”), investigatori come Gilberto Calderozzi (oggi Direttore del Servizio Centrale Operativo – SCO), Filippo Ferri (allora capo della squadra mobile di La Spezia, poi promosso capo di quella di Firenze) e Fabio Ciccimarra (imputato anche a Napoli per le violenze sugli arrestati nella Caserma Raniero a maggio del 2001). Insieme agli altri firmatari dei verbali, Spartaco Mortola, oggi vice Questore di Torino, il vicequestore Massimiliano Di Bernardini (nucleo antirapine, Squadra Mobile di Roma), il vicequestore Pietro Troiani e l’agente Alberto Burgio devono rispondere di abuso di ufficio per la gestione dell’intera operazione nonché dei reati di falso e calunnia in relazione al falso ritrovamento delle due bottiglie molotov, il caso più eclatante di fabbricazione di prove false a carico degli arrestati. Per il pestaggio all’interno della Diaz sono imputati di lesioni personali in concorso Vincenzo Canterini (successivamente promosso Questore, Michelangelo Fournier, unico a non essere stato promosso, e gli otto capisquadra Fabrizio Basili, Ciro Tucci, Carlo Lucaroni, Emiliano Zaccaria, Angelo Cenni, Fabrizio Ledoti, Pietro Stranieri e Vincenzo Compagnone. L’operazione era stata stabilita dal Viminale, tanto che il portavoce di De Gennaro atterrò a Genova per sbarrare la strada ai legali delle vittime e ai parlamentari e spiegò che altro non era che una normale perquisizione e che tutto quel sangue era di ferite pregresse, maturate negli scontri di strada del pomeriggio. Il giorno appresso, ancora lui, orchestrò la conferenza stampa senza domande di giornalisti in cui furono mostrate le false prove: attrezzi rubati da un cantiere dai poliziotti, le due molotov fornite dalla questura, i coltellini svizzeri per aprire le scatolette di tonno, sequestrati alle vitime. I massacrati erano accusati di associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio, in due parole: black bloc. L’operazione doveva fruttare una maxiretata dopo tre giorni segnati dalle scorribande di tutti i corpi armati dello stato ripresi in ogni foggia mentre si accanivano su persone inermi anche con armi improprie mentre pochi incappucciati – rispetto ai 300mila manifestanti – si iludevano che solo i loro cocci di vetri fossero il segno della rivolta e non il copione lugubre scritto da chi li pilotava.

Il procuratore generale, all’inzio di quest’ultimo processo, ha parlato per otto ore in difesa della sentenza di secondo grado che spiega perché quei reati non siano prescrivibili ossia non sono semplici lesioni e che l’impianto accusatorio è senza difetti. I difensori hanno ripetuto le versioni secondo le quali chi firma un verbale non sarebbe responsabile della veridicità di quanto riportato. L’Avvocatura dello Stato ha chiesto l’annullamento con il rinvio degli atti, in pratica chiedendo di rifare tutto. Ma il vero scontro, dal momento che in Cassazione il processo è «cartolare», non sui fatti, è tra le due sentenze, la prima – più velenosa – la seconda che inchioda i massimi vertici della polizia di stato, la linea di successione scelta da De Gennaro con un processo discrezionale di selezione, più i capi della celere di quella notte, i maghi del tonfa. Per questo il Viminale è in fibrillazione e, dopo l’annullamento recente della condanna di de Gennaro per un fatto collegato a questo (avrebbe indotto a mentire il questore di allora per sfumare il suo ruolo nell’irruzione alla Diaz) sono in fibrillazione anche le vittime di quella notte cilena e ciò che resta, in Italia, del più grande movimento sociale planetario.

* Globalist 5 luglio 2012

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