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“Rottamiamo la classe dirigente”


In questo momento parlare di crisi dell’industria in Italia è semplicemente riduttivo, visto che in tutto il Paese intere realtà produttive stanno fermando gli impianti e stanno scomparendo migliaia di posti di lavoro. In regioni come la Sardegna poi questa amara realtà si vive appieno e la crisi avanza come un’ombra scura su un terreno desolato. Si sta quindi rischiando la deindustrializzazione del Paese con tutte le conseguenze che ciò comporta. Ne abbiamo parlato con Giorgio Cremaschi, ex presidente del Comitato Centrale della Fiom-Cgil ed esperto del settore.

Cremaschi, qual è il suo punto di vista sull’argomento?
“E’ presto detto, siamo di fronte a una catastrofe sociale ed economica che è allo stesso tempo effetto e causa di questa ulteriore crisi. Stiamo per altro assistendo al fallimento di una classe imprenditoriale, quella delle grandi aziende, e dietro tutto c’è un disegno sbagliato del governo attuale. Non che i governi precedenti siano scevri da responsabilità ma quello Monti ha una responsabilità speciale e diretta. Del resto il premier ha ammesso di essere sempre stato consapevole del fatto che i suoi provvedimenti avrebbero aggravato la crisi”.

Cosa vuol dire, che questo esecutivo è perfettamente cosciente che le sue scelte comportano la chiusura di molte realtà industriali e la perdita di tanti posti di lavoro eppure va avanti per la sua strada?
“Questo governo è l’espressione di un vento generale che soffia sull’Europa con le sue politiche neoliberiste. E’ un governo convinto che solo con i tagli si fa il risanamento. Il problema è che la cura si fa ma il malato muore senza che si veda la luce in fondo al tunnel. Mi pare evidente che siamo di fronte a una crisi strutturale del sistema industriale italiano che non può più competere nonostante quanto pensa Monti, e tutta una classe dirigente “montiana”, riguardo alla produttività. La competitività non si basa per l’Italia sul fatto falso che la gente non lavora o lavora poco e prende molti soldi. La mancanza di produttività italiana è dovuta alla mancanza di investimenti e alla distruzione colpevole delle grandi aziende. Se chiude il Sulcis, per esempio, è ovvio che la produttività calerà, perché non si sostituisce la produttività delle miniere o delle grandi aziende dell’alluminio – strategiche per il Paese – con piccole iniziative a bassa produttività”.

Ma a suo avviso qual è la ricetta per salvare l’apparato industriale italiano?
“Qui subentra la considerazione su una cultura di fondo che riguarda il ruolo dell’intervento pubblico. E’ evidente che mettere il nostro Paese alla mercé di una classe dirigente che non vale molto, o comunque non è capace di lavorare a condizioni europee avanzate (pensiamo all’Ilva), o delle multinazionali che fanno spesso la politica delle cavallette (vengono, consumano e se ne vanno, come nel caso Alcoa) produce un disastro. Senza una radicale revisione della politica industriale, senza un forte intervento pubblico, il problema è irrisolvibile”.

E allora?
“Detto in soldoni, realtà come Alcoa si salvano solo se lo Stato se le prende e le gestisce per tutta la durata della crisi. Altrimenti l’Alcoa non si salva. Mettendola all’asta verso altre multinazionali si avrà, dopo poco tempo, solo un altro massacro sociale senza un minimo di risultato industriale”.

Proprio in questi giorni l’ad della realtà industriale italiana numero uno, la Fiat, ha annunciato che il Piano di investimenti previsto non verrà attuato. Un brutto colpo, soprattutto per quanti avevano assecondato le affermazioni di quell’ad che si chiama Marchionne.
“Sì, buona parte d’Italia, e soprattutto quella classe dirigente che ci ha creduto, è attonita davanti all’affermazione di Marchionne secondo cui il Piano Fabbrica Italia non c’è più. Ora, invero, questo piano non c’è mai stato e chi voleva lo sapeva benissimo. La verità? Questo piano è sempre stato illusorio, uno specchietto per le allodole. E qui si innesta, per essere chiari, un problema enorme che coinvolge tutta la classe politica di centro destra e di centro sinistra. Una classe politica squalificata che appena arriva uno con la valigetta in mano che pronuncia due parole di inglese affermando ‘io sono un grande manager’, si fa portare dove si vuole”.

Quindi non basta, a suo avviso, elaborare un piano industriale?
“Non c’è possibilità di risolvere questa tremenda crisi se non si cambia contemporaneamente politica economica e classe dirigente. C’è una classe dirigente da rottamare, ma non per ragioni gerontologiche come vorrebbe Renzi, uno dei primi che ha bevuto alla fonte delle chiacchiere di Marchionne. Bisogna cambiare una classe dirigente fondamentalmente legata agli affari, al capitalismo liberista e alla finanza. O si fa ciò o la crisi purtroppo si aggraverà”.

Torniamo un attimo su Alcoa: molti sostengono la necessità di chiusura di certe aziende perché non stanno sul mercato, ma Alcoa potrebbe starci benissimo se lo Stato scegliesse di investire in un’azienda così strategica. Basterebbe probabilmente accontentarsi di margini di profittabilità modesti pur di mantenere o accrescere l’occupazione. Mentre la multinazionale Alcoa chiude perché, a quanto si dice, andando in Arabia Saudita guadagnerà molto di più di quanto non farebbe in Sardegna.
“Io ho seguito come segretario Fiom l’altra vertenza conclusa nel 2009 e avevo già allora l’assoluta convinzione che l’accordo per mantenere aperta l’azienda richiedeva una politica successiva ad hoc. Non bastava certo l’effetto immagine che in quel caso il governo di centro destra sventolò dicendo di aver salvato Alcoa”.

Può spiegarci meglio cosa intende?
“Bisognava fare tanti passi successivi: avere un progetto compiuto, mettere in sicurezza l’azienda, tallonare la proprietà e tenerla d’occhio perché le multinazionali ragionano sulla base di indici di profitto e profittabilità che nulla hanno a che vedere con gli interessi dei lavoratori e di un Paese. Tra parentesi nel consiglio di amministrazione di Alcoa è di recente entrato uno dei banchieri che hanno distrutto Merrill Lynch, uno dei responsabili della crisi dei subprime, questo per dire come possano ragionare certe società”.

Insomma, come sempre, le multinazionali cercano di lucrare il più possibile senza curarsi dei problemi socio-economici dei territori su cui si insediano?
“In pratica fanno sempre una politica di rapina in qualsiasi parte del mondo. Era chiaro da tempo che l’Alcoa aveva la valigia pronta. L’avevamo bloccata sulla porta una volta, ma l’idea di andarsene l’aveva sempre, bisognava lavorare quindi a un nuovo progetto. Ma come al solito in Italia non si è fatto niente. Son passati tre anni in chiacchiere senza che si preparasse una soluzione industriale, quando bisognava ragionare sul fatto che lo Stato, senza rimetterci soldi, poteva preparare un’alternativa valida. Poteva anche predisporre delle garanzie rispetto al comportamento di Alcoa. Del resto, in tutti questi anni l’azienda ha guadagnato tanto e poteva essere messa in condizione di restituire parte dei soldi presi per permettere di continuare l’attività produttiva nel caso minacciasse di andarsene. Tutte cose che andavano discusse e progettate, anche perché – sono d’accordo – alla base c’è un’attività industriale che funziona e serve al Paese”.

L’allumino è indispensabile all’apparato industriale italiano?
“L’alluminio, se queste fabbriche dovessero chiudere, dovremo comprarlo all’estero. Quindi il Paese ci rimetterà ancora e saremo ancora più dipendenti dall’esterno. D’altronde si può discutere del carbone, per il quale i lavoratori hanno proposto comunque un progetto di riconversione ad alta tecnologia, ma per l’alluminio non c’è nulla da riconvertire ma semplicemente da produrre il metallo che serve e servirà sempre di più al sistema industriale nazionale. Purtroppo però non è stato ancora fatto niente e il governo fa solo una marea di ridicole chiacchiere. Qui siamo davvero al ‘piange il telefono’, come ha confermato la Fornero a proposito di Fiat dicendo che attende la telefonata di Marchionne. Si nota un certo servilismo verso le multinazionali da parte di questo esecutivo e dei precedenti – salvo rarissime posizioni personali – Del resto negli ultimi 20 anni tutti i governi che si sono succeduti hanno piegato la testa di fronte alle multinazionali e alla grande finanza, e questo governo è la conclusione di quegli altri”.

E quindi, per chiudere la conversazione?
“Ripeto, se vogliamo salvare la produzione industriale italiana e l’occupazione che essa rappresenta, bisogna rottamare la nostra classe politica e manageriale”.

* Da Tiscali news del 17 settembre

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1 Commento


  • Luigi Fusco

    D’accordo con Giorgio un paese senza un piano economico ed industriale è destinato a fallire, e permette a gruppi di finanziatori iene che depredano ogni know how italiano distruggendo l’economia del paese. Purtroppo la nostra classe politica e manageriale pensa solo al piccolo orticello dei consensi senza costruire un futuro

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