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Borghesia italiana, una palla al piede

Come i nostri lettori hanno ormai capito, ci sembra molti utile – diciamo: indispensabile – decodificare la comunicazione che arriva dai punti alti del sistema mediatico mainstream. Perché l’esigenza che cogliamo, fortissima, è quella di convincere “la plebe” (tutti noi) che tutto sta andando per il meglio, visto che siamo in mano a uomini “tecnicamente preparati”, al contrario di quei maneggioni di politici, intenti solo a riempirsi le tasche.
Gli scandali, quando vengono sventolati da questo tipo di giornali, servono a preparare un cambiamento radicale nella “costituzione materiale”. È accaduto lo stesso con Tangentopoli, che ci ha regalato 20 anni di Cavaliere e una cultura (il “berlusconismo”) che ha infettato tutto il paese, anche a sinistra (vogliamo parlare di Bertinotti?).

In questi giorni la disponibilità di Monti ad “accettare” il bis, se intensamente pregato dalla classe dirigente italiana, ha evidenziato quanto con cura era stato nascosto sotto il tappeto: siamo governati dalla “troika” (Fmi, Bce, Ue), ovvero dallo staff “tecnico” della borghesia multnazionale europea. Il povero ministro Passera era corso in tv dal fedele Fabio Fazio – un giorno bisognerà pure dire qualcosa su questo chierichetto del perbenismo finto-progressista – a giurare che solo grazie all’avvento di questo governo “l’Italia ha mantenuto la sovranità”. È palesemente l’opposto, come questo editoriale di Angelo Panebianco, sul Corrierone, si incarica di confermare.

Come al solito, la nostra decodifica è in corsivo, tra un paragrafo e l’altro. Buona lettura.

Il labirinto delle vanità

Angelo Panebianco

La discussione, che sarebbe stata altrimenti surreale, su un eventuale Monti bis dopo le prossime elezioni è il frutto della sfiducia degli altri governi e degli investitori internazionali nella capacità futura dell’Italia di perseverare nell’opera di risanamento. Dato il marasma in cui versa il fu-centrodestra non è il ritorno al potere di Berlusconi che si teme (una eventualità nella quale non crede nessuno, nemmeno Berlusconi). Piuttosto, come ha argomentato Antonio Polito ( Corriere , 29 settembre), sono le scelte che farà il probabile vincitore delle elezioni, il Pd, a preoccupare. Per le alleanze politiche (Vendola) e sociali (Cgil) di Bersani, e per la volontà conclamata degli uomini di Bersani di mandare in cavalleria, su punti decisivi, le riforme Monti, dalle pensioni al lavoro.

Red. Stabiliamo le gerarchie e sottolineiamo i concetti per fare chiarezza. Chi vuole il Monti-bis? Gli “investitori internazionali” e gli “altri governi” europei. Quando noi parliamo di “borghesia multinazionale europea” ci riferiamo esattamente a questa élite, non a oscure camere di celebrazione di riti massonici. Perché lo vogliono? Perché la nostra “classe politica” è ai loro occhi inaffidabile. Interessante la notazione sull’impossibilità di un “ritorno di Berlusconi”, che dovrebbe logicamente tagliare la lingua a tutti quegli imbecilli che ancora invitano al “voto utile” per sbarrargli la strada (ma sappiamo che non smetteranno, visto che non sanno far altro). Più risibile è la tesi che il Pd e Vendola starebbero subdolamente pensando a smantellare le “decisive” riforme montiane. Ma, pur risibile, è rivelatrice di un giudizio: la cosiddetta “sinistra di governo” appare agli occhi dell’Europa che conta ancora troppo permeabile alle istanze “della base”. Persino la morbidissima Cgil camussiana, in questo schema, è portatrice sana di “rigidità strutturali” intollerabili al fine di rilanciare l’economia e rieducare il paese. È una preoccupazione eccessiva, dal nostro punto di vista. Non lo è dal loro, che premono per sommovimenti interni a quell’area in grado di far emergere il “rottamatore” di turno. Peccato che proprio l’eccessivo anticipo con cui Monti si è “ri-offerto” rischi di bruciare il giovane affabulatore fiorentino.

Ma c’è dell’altro. Del futuro dell’Italia dovrebbero infatti preoccupare, più che i suoi prossimi equilibri politici, i suoi prossimi squilibri. L’esito, di volta in volta, può essere più o meno drammatico, ma sembra che l’Italia pubblica non possa fare a meno, periodicamente, di essere investita da devastanti crisi di legittimità: malversazioni e scandali superano il livello di guardia, la sfiducia dei cittadini nelle classi dirigenti diventa totale o quasi, le istituzioni rappresentative perdono ogni residuo alone di rispettabilità. È accaduto nella fase terminale della democrazia giolittiana e ciò aprì le porte al fascismo. È accaduto, di nuovo, con le inchieste sulla corruzione dei primi anni Novanta che spazzarono via i vecchi partiti (la cosiddetta Prima Repubblica). Sta accadendo, ancora una volta, oggi.

Red. La verginità che Panebianco pretende di rappresentare appare decisamente eccessiva. Davvero gli editorialisti del Corsera non avevano idea del tipo di classe dirigente avessero sdoganato sostenendo, senza troppi imbarazzi, sia l’ascesa berlusconiana che l’arruolamento dei missini in ruooi di governo? Davvero non avevano mai buttato un occhio sui comportamenti delle giunte a loro più vicine? Davvero risulta una sorpresa che la Regione Lombardia – per dire un luogo che Panebianco conosce certamente bene – stia in piedi solo per la pervicace faccia di teflon di un Formigoni ridotto a imitazione di se stesso in “Scherzi a parte”? Strani giornalisti, questi editorialisti del Corsera. I fatti avvengono a loro insaputa…

C’è un elemento di somiglianza fra la crisi attuale e quella dei primi anni Novanta. Anche allora il passaggio fu scandito dalla presenza di governi detti tecnici (i governi Amato e Ciampi). Ma a colpire sono le differenze. Due in particolare. La prima è che negli anni Novanta il mondo viveva una fase di espansione economica. Oggi la crisi politico-istituzionale italiana è aggravata dalla contestuale recessione internazionale. Il che rende le prospettive della crisi piuttosto cupe.

La seconda differenza è che nei primi anni Novanta c’era, per lo meno, una idea, una visione, un progetto (chiamatelo come volete) su come uscire dalla crisi. I referendum Segni sul sistema elettorale non erano semplicemente espressione della volontà di cambiare le regole del voto. Contenevano una implicita proposta di ristrutturazione radicale del sistema politico. Se la Prima Repubblica era stata partitocratica (dominata dai partiti) e ciò l’aveva alla fine condotta al fallimento, la Seconda avrebbe dovuto spostare il baricentro dai partiti alle istituzioni rappresentative. Se la Prima Repubblica aveva avuto il suo fulcro nel Parlamento (luogo privilegiato della mediazione partitica), la Seconda avrebbe dovuto rafforzare il ruolo del governo. Se la Prima Repubblica era stata segnata da endemica instabilità governativa, la Seconda avrebbe dovuto avere, come regola, governi di legislatura. Se la Prima Repubblica aveva dilatato l’area della rendita politica (da lì l’esplosione del debito pubblico), la Seconda avrebbe dovuto ridurre quell’area restituendo al mercato e alla società ciò di cui la politica si era impadronita. Si aggiunga che la contestuale emergenza della Lega Nord aveva creato anche una pressione per una ridistribuzione dei poteri, in linea di principio non sbagliata, dal centro alla periferia.

Red. Un quadretto edificante che descrive con nostalgia le attese della classe dirigente su quel che sarebbe dovuto avvenire; ed anche un rivendicazione delle “linee guida” imposte dai “poteri forti” (l’espressione conserva un minimo di attendibilità sul piano nazionale, negli anni ’90) al sistema politico improvvisamente lasciato orfano dal crollo del Muro.

È andato quasi tutto storto. Abbiamo avuto il bipolarismo, un governo di legislatura (il secondo governo Berlusconi), una legislatura interamente guidata dal centrosinistra (’96-2001) e abbiamo spostato alcuni poteri dal centro alla periferia. Ma l’area della rendita politica non si è ridotta, anzi si è dilatata ulteriormente. Inoltre, le riforme istituzionali che avrebbero dovuto stabilizzare il nuovo assetto o non si sono fatte (fallimento della Bicamerale) o sono state insufficienti (elezione diretta dei sindaci e presidenti di Regione). E anche il decentramento dei poteri è stato realizzato senza imporre al ceto politico locale l’onere della responsabilità, di fronte agli elettori, dell’uso del denaro pubblico. Il peso dell’intermediazione politica è cresciuto anziché diminuire.

Red. Si dice che il peggio che possa accadere è vedere i propri desideri realizzati. In genere il sogno si rivela un incubo. Tutto il “programma di ristrutturazione” immaginato dalla borghesia italiana all’inizio degli anni ’90 è stato realizzato, persino nei dettagli e con le correzioni suggerite in corso d’opera dai Panebianco di ogni quotidiano confindustriale. Si potrebbe chiedere ad Alesina e Giavazzi conferma. Quando questo accade – in qualsiasi impresa umana – si guarda alla struttura del progetto iniziale per vedere se c’erano “bachi” non visti per tempo. Poi si fa uno screening del comportamento della “squadra” scelta per la realizzazione. Se nulla è andato come previsto, in genere, si prende atto di aver obbedito a un progetto demente, dagli effetti pratici suicidi, affidato – nello specifico italiano – a una mandria di scapocchioni (e ladri) messi lì dal progettista. Per i Panebianco sarebbe il momento dell’autocritica. Ma visto che scrivono “a progetto”, su commissione diretta dell’editore via direttore, non ne fanno mai una.

Possiamo attribuire alla inadeguatezza dei protagonisti, da Berlusconi, con il peso dei suoi interessi, al vasto popolo degli ex (ex democristiani, ex comunisti, ex fascisti) oberati da culture politiche condizionate dal passato, il fallimento di quel progetto. O possiamo (ma, guarda caso, sono quasi sempre i suddetti ex ad abbracciare questa tesi) attribuire il fallimento alla intrinseca debolezza del progetto, alla sua estraneità rispetto alla tradizione italiana. Ma, quale che sia la ragione del fallimento, resta una circostanza. Negli anni Novanta c’era almeno una idea, l’ipotesi di un percorso, per superare la crisi istituzionale. Oggi, a fronte di una nuova crisi istituzionale, non c’è nulla di nulla, non c’è uno straccio di visione, di ipotesi su come uscirne. C’è smarrimento e inerzia. E qualche tentativo, neppure convinto (come mostrano i propositi di riforma elettorale), di ritornare a vecchie formule e abitudini, già esperite e già fallite. La Prima Repubblica era dominata dalla Dc e dal Pci. Forse, non è propriamente un caso se all’attuale, pauroso, vuoto di idee corrisponde il fatto che, governo Monti a parte, diversi capi partito, o i loro uomini di punta, che si affannano intorno alla crisi istituzionale, provengano da quelle esperienze.

Red. Il vero tratto culturale dominate, nella borghesia italiana, è l’autocritica degli altri. Ora, che quasi tutti i “politici di professione” ancora in giro provengano dalla Dc e dal Pci è certamente vero. Del resto, soltanto quelle due famiglie (oltre al Psi, fino all’avvento del Craxi osannato dal Corriere perché rompeva col “sinistrismo” di Nenni e Lombardi) hanno prodotto formazione politica, “educazione” di dirigenti, selezione pluriennale di un personale politico non sempre brillantissimo ma in genere adeguato ai compiti.
Domanda: di chi è la colpa dell’inesistenza di una “vera classe politica liberale e liberista” in questo paese? Se da quella casa non è venuto fuori nulla, e per trovare un premier in prestito siete dovuti andare a prenderlo alla Trilateral, non sarà che siete proprio voi – la borghesia nazionale da sempre in sella – la vera palla al piede di questo certamente disgraziato paese?

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