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Produttività e orario, un tavolo a perdere

Ovvero il livello di contrattazione che storicamente serve a difendere – fissando i minimi contrattuali e la normativa di riferimento – soprattutto i lavoratori di piccole e medie imprese, che quasi sempre non hanno (per motivi dimensionali e di presenza sindacale) una contrattazione aziendale. Per il governo – come già prescritto nella “lettera della Bce” dell’agosto 2011 – si tratta di spostare la discussione dei contratti quasi integralmente al livello aziendale. Dove i ricatti sono più facili, la presenza sindacale solo eventuale (al punto da rendere possibili i “sindacati di comodo”, inventati direttamente dal padrone e senza necessità di “riconoscimento nazionale”).
Ma c’è di più: si vuole aumentare l’orario minimo di lavoro, abolire alcune festività (quelle laiche e civili, come il 25 aprile e il 1 maggio), “liberalizzare” i turni abolendo o riducendo al minimo il riposo di legge tra l’uno e l’altro.
E i sindacati “complici” (Cgil, Cisl e Uil) erano già pronti a firmare. Soltanto la differenza di interesse tra aziende di diversa natura e dimensione – al tavolo c’erano Confindustria, Abi, Ania, Aleanza delle cooperative e Rete Imprese – ha costretto a rinviare la sigla finale di un “accordo storico” in senso negativo. La momentanea rottura è avvenuta su un punto addirittura ritenuto da molti quasi secondario: l’abolizione dell’indicizzazione Ipca, l’inflazione prevista al netto della componente energetica importata. Un pallido surrogato del “punto di inflazione” che non a caso non ha affatto frenato la perdita di potere d’azquisto dei salari. Ma una parte delle imprese (addirittura contro il parere di Confindustria!) vuole evitare di pagare persino questo obolo annuale.
Monti se l’è presa a male perché non ha potuto portare al Consiglio Ue l’ennesimo cadavere. Si farà sentire pesantemente al rientro. Già ieri, non a caso, Fornero ha minacciato di non concedere più i fondi per defiscalizzare i “contratti di produttività (aziendali) se il testo finale non sarà “buono” dal suo punto di vista, esludendo “gli automatismi salariali” (ovvero con l’abolizione anche dell’indice Ipca).
L’unico punto interessante, messo sul tavolo dalla Cgil riguarda invece la modifica delle regole nella formazione della rappresentanza Rsu: l’abolizione del “33%” riservato di diritto a Cgil, Cisl e Uil e l’adozione del proporzionale puro. Ovvio che si tratta di una ritorsione contro Cisl e Uil (oltre a Fismic e Ugl), che in molte situazioni non esistono (o non esisterebbero, senza questa “riserva”). Ma che il governo non intende accettare. L’attuale sistema, infatti, si è rivelato un autentico carcere per la rappresentanza sindacale. Ben difficilmente, infatti, un sindacato conflittuale e alternativo può farsi strada con questo “sbarramento” storico. E anche per la Fiom-Cgil, non a caso, è ormai a rischio l’agibilità nelle fabbriche che adottano il “modello Marchionne”.
Per quanto riguarda ancora la Cgil, è risaputo che il delegato al tavolo – Fabrizio Solari, segretario confederale – aveva raggiunto un accordo completo con i “colleghi” Pirani (Uil) e Santini (Cisl). La “frenata” alla penna sul foglio è stata motivata anche dalla manifestazione di domani a piazza S. Giovanni. Difficile presentarsi davanti agli operai delle aziende che stanno chiudendo – dall’Alcoa alla Vynils, dall’Ilva a Agile-Eutelia – dopo aver firmato un accordo che allunga l’orario di lavoro (e quindi riduce ancora di più sia l’occupazione che l’offerta di posti di lavoro) e diminuisce i salari.
Alcuni articoli per entrare più nei dettagli.

Produttività e orario, un tavolo a perdere

Francesco Piccioni

L’America è dietro l’angolo. Non quella delle ricchezze esagerate, ma la più modesta del lavoro precario, con gli scatoloni pronti da riempire in caso di licenziamento improvviso.
La «trattativa sulla produttività» tra imprese governo e sindacati (Cgil, Cisl e Uil) sembra sul punto di essere conclusa già nella nottata di ieri. Da più parti si affermava, con una certa concordia di parole, che «si stava facendo di tutto per chiudere». In modo da far partire Mario Monti per Bruxelles, ieri mattina, con in tasca un nuovo scalpo da mostrare ai colleghi del Consiglio della Ue.
I sindacati, in particolare, sembravano aver raggiunto un accordo tra loro. Sono state invece le imprese a dividersi, con Confindustria su «posizioni differenti» rispetto ad Abi (le banche), Alleanza delle cooperative, Ania (assicurazioni) e Rete Imprese (commercianti e artigiani). Nulla di grave, a stare alle dichiarazioni del presidente delle cooperative, Luigi Marino («differenziazioni parziali legate alle diverse tipologie d’impresa»). Ma in mattinata una nota della segreteria confederale della Cgil poneva come condizione necessaria di un accordo che il testo finale contenesse «la difesa del potere di acquisto dei salari nel contratto collettivo nazionale, legando aumenti di produttività alla contrattazione di secondo livello; la misurazione proporzionale della rappresentanza nelle Rsu; la rapida conclusione dei rinnovi contrattuali, luogo deputato non solo a definire le materie demandate alla contrattazione di secondo livello ma anche ad affrontare gli eventuali temi legati al recupero di efficienza e produttività». E, soprattutto, accusava il governo di voler «delegittimare il sistema di rappresentanza delle parti sociali e la loro autonomia».
Schermaglie sui dettagli a parte,spiega Gianni Rinaldini, coordinatore dell’area «La Cgil che vogliamo», il nocciolo della questione è che «questi hanno in testa lo smantellamento finale del contratto nazionale». Quello che fissa il livelli salariali e la normativa di riferimento anche per la «contrattazione di secondo livello». Il tentativo di spostare tutto sulla contrattazione aziendale – come in America, appunto – «era chiaro fin dall’inizio». Il governo, «fissando un capitolo di spesa – 1,6 miliardi l’anno prossimo, 1,2 nel 2014 – per finanziare la detassazione dei contratti di produttività, ha disegnato un recinto invalicabile e inaccettabile, entro cui le parti discutono o provano a farlo». Del resto, questo era uno dei quattro punti della lettera della Bce dell’agosto 2011».
Con la consueta leggerezza, il ministro Elsa Fornero ha ribadito ieri che solo se «il tavolo produce un esito buono per il paese, ci saranno le risorse». Altrimenti nisba, tanto «non ci mancano le occasioni per impiegarle». Cosa vuol dire? Che l’accordo dovrà contenere il rafforzamento del contratto aziendale, l’aumento dell’orario di lavoro, compresi i turni e le festività; ed anche il demansionamento. In ogni caso, promette Fornero, su questo ci potrebbe anche essere un intervento legislativo.
«È quanto è stato imposto in alcuni contratti nazionali – ricorda Rinaldini – come i chimici e i ferrovieri», con l’aumento dell’orario di lavoro a parità di salario e la creazione di «esuberi» strutturali. Un piatto indigeribile che si riversa sulla piazza che domani attenderà con attenzione le parole del segretario generale della Cgil, Susanna Camusso; anche per capire se questa manifestazione apre o no «una fase di ulteriori iniziative» per contrastare «la distruzione completa del sistema di relazioni sociali».
Non è difficile vedere che l’identico «modello americano» traspare dalle «riforme strutturali» imposte con la forza del ricatto a Grecia, Spagna, Portogallo. Scatenando, va ricordato, livelli di risposta popolare decisamente meno accondiscendenti di quanto non sia avvenuto fin qui in Italia. Può darsi che la vicinanza del 20 abbia consigliato a molti di rinviare la definizione di un accordo pesantissimo – per i lavoratori – alla prossima settimana. Quando Monti, rientrato da Bruxelles, vorrà «chiudere» d’autorità la partita della «produttività. Magari prima che – il 25 – riparta la trattativa separata (con le sole Cisl e Uil) sul contratto dei metalmeccanici.

da “il manifesto”

Produttività e salari, l’intesa non c’è

Roberto Bagnoli

Niente accordo sulla produttività. Almeno per ora. Con disappunto del premier Mario Monti che contava di presentarlo al Consiglio europeo. Non è bastato un mese di trattative: le differenze di interessi e vedute nelle associazioni imprenditoriali sono esplose nell’ultimo vertice di ieri mattina. Ma non tutto sembra perduto. Lo hanno detto sia il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi che il ministro dello Svi- luppo Corrado Passera arrivando a Bolzano per partecipare alla seconda edizione di una bilaterale economica italo-tedesca.

«L’accordo non è saltato – ha commentato Squinzi – si tratta di una questione molto com plessa e ci stiamo lavorando nell’interesse delle imprese e del Paese». Ottimista anche Passera: «Nessuna impasse sulla produttività, si continua a lavorare, quando ci sarà un accordo ce lo porteranno». Nessuno parla di tempi ma non saranno brevissimi. Prima di tutto dovrà passare la manifestazione Cgil di sabato e poi comincerà a pesare – sempre in casa Cgil – la partita delle primarie. Il sindacato di Susanna Camusso ieri ha addossato al governo la responsabilità del fallimento del- la trattativa. In una nota la Cgil si è detta disponibile «a proseguire il confronto» ma resta convinta che «l’intervento del governo, teso a delegittimare il sistema di rappresentanza delle parti sociali e la loro autonomia, ha impedito che il negoziato potesse entrare nella fase conclusiva». Una giustificazione che Passera, sempre da Bolzano, ha definito «priva di senso». «Il fatto che il governo abbia messo a disposizione 1,6 miliardi per far crescere la produttività – ha aggiunto – documenta la volontà di favorire l’accordo». Non di boicottarlo.

Al capezzale del patto mancato sono arrivati altri ministri. Il responsabile del Tesoro Vittorio Grilli si è detto pronto a erogare le risorse promesse di 1,6 miliardi non appena arriva l’intesa. Il ministro del Lavoro Elsa Fornero, parlando a un convegno degli agricoltori (Cia), ha puntato il dito sul punto che ha impedito la chiusura del negoziato: «Il tavolo sulla produttività deve tendere a ridurre gli automatismi nella variazione delle retribuzioni». È infatti sull’ abolizione dell’indicizzazione Ipca (tra l’altro una delle richieste della troika), l’inflazione prevista al netto della componente energetica importata, che si è consumato lo strappo nel mondo delle imprese.
Da una parte le banche (Abi), le  compagnie di assicurazioni (Anie), le cooperative e i “piccoli” di Rete imprese Italia (artigiani e commercianti) che tendono sostanzialmente per lo smantellamento del contratto nazionale a favore di accordi territoriali. Una soluzione simile al modello tedesco. Dall’altra Confindustria che, insieme al sindacato, preferisce una produttività di sistema. E mirano alla detassazione del secondo livello (quello aziendale) con parametri più possibili legati alla produttività. E’ su questo snodo che il negoziato è saltato.

Nel pomeriggio, infatti, Confindustria ha disertato un ennesimo incontro tecnico tra sindacati e imprese. «È ormai noto che sono emerse posizioni articolate tra le imprese – ha spiegato Luigi Marino, presidente di Alleanza Cooperative – sono differenziazioni parziali e legate alle diverse tipologie d’azienda e alla volontà di dare un contributo effettivo all’impegno per la produttività».

da Corriere della sera

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1 Commento


  • Arnaldo Fogli

    Fnalmente qualcuno che ha capito qualcosa! Da parecchi anni funziona così, io vi posso citare la realtà lavorativa di Ravenna, dove esiste il più grande polo europeo di costruzioni metalmeccaniche offshore, onshore e oil&gas: migliaia di operai che lavorano in queste condizioni, appalti,subappalti e sub-sub appalti hanno spezzettato la realtà industriale in tante piccole dittarelle che forniscono manodopera a basso costo e assolutamente desindacalizzati, se interessa a qualcuno sono disposto a metterci la faccia per un’inchiesta seria everitiera.

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