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Quel lacrimogeno che rompe lo specchio

L’ansia per lo scoop si gioca sui secondi. In redazione arriva una “prova”, un documento sicuro (testo, video, foto), e in pochi secondi bisogna decidere se pubblicare o no. Subito, perché altrimenti c’è il forte rischio che in quegli stessi secondi qualcun altro, in un’altra redazione, si stia ponendo la stessa domanda con una “prova” simile o uguale. È così da quando esiste il giornalismo, ma nell’epoca della multimedialità diffusa, dei relefonini che sono anche videocamere, il margine temporale in cui bisogna decidere è molto più breve. Secondi, appunto.
Può così avvenire che tutta una “politica di gestione dell’evento” a lungo ponderata da una giornale – dalla direzione e dall’ufficio dei capiredattori, in coordinamento con la proprietà (sulle cose più delicate) – vada a farsi friggere.
Il video che Repubblica ha probabilmente comprato e giustamente pubblicato possiede questa forza devastante. Tanto più che nelle stesse ore uno dei suoi cronisti di nera più “embedded” stava intervistando un ministro “tecnico” di polizia che voleva sembrare caduto giù dal pero. Vediamo però i fatti un passo dietro l’altro, da “bravi giornalisti”.

Tutti i quotidiani italiani, nella “sezione cronaca”, avevano dato esattamente la stessa versione sulle cariche della polizia contro gli studenti di Roma. “Legittime e simpatiche le proteste dei manifestanti, provocazione di alcuni black bloc, giusta risposta delle forze dell’ordine, qualche esagerazione individuale da parte di qualche agente che si è fatto prendere la mano”. Il ministro Cancellieri, intervistato da Carlo Bonini, dava forma istituzionale a questa chiave di lettura, anticipando punizioni (segrete, però; quindi solo sulla sua parola di “tecnico in uscita” dai piani alti del Viminale) per il poliziotto che manganellava in faccia un ragazzo tenuto fermo a terra da altri due agenti, in un altro video che ha orripilato mezzo mondo; ed equiparandolo, sostanzialmente, ai “violenti” nascosti tra i manifestanti. Anzi, individuandoli in quegli ingenui ragazzotti schierati a testuggine libraria, in una tardiva scimmiottatura delle scenografie da “disobbedienti” che tante mazzate hanno fatto prendere da Genova 2001 in poi.
Riassumendo: secondo questa chiave di lettura polizia e studenti starebbero in realtà dalla stessa parte, c’è qualche “professionista della violenza” che cerca di inzigare uno pseudo-conflitto e – “purtroppo” – c’è qualche poliziotto “ingenuo” che ci casca. La sintesi spettava ovviamente al guru del “legalitarismo cieco, senza se e senza ma”, ossia il Roberto Saviano che predica “sogno un corteo di studenti e agenti”.
Rileggetevi gli articoli di ieri (il nostro “campione” si limitava a Zunino su Repubblica, Imarisio sul Corriere, Ruotolo e Malaguti de La Stampa, Lania de “il manifesto”, ma ci è sembrato sufficiente). Parlavano tutti come poi ha fatto il ministro dell’Interno. Telepatia? Coincidenze? Realtà obiettiva? Decine di video e migliaia di foto mostravano il contrario. Era un fatto. E i fatti, dicono gli inglesi, hanno la testa dura… Però, come escludere che qualche ragazzotto (non visto da nessuna delle decine di telecamere) avesse davvero tirato qualcosa contro i poliziotti? Un piccolo margine di dubbio sembrava plausibile. Sulla carta.

Poi ecco il video che mostra un lancio di lacrimogeni sulla folla in fuga lugo via Arenula. Partono dal secondo piano del ministero di Grazia e Giustizia (se non ha cambiato nome cancellando la Grazia). Il ministro Severino, di casa in quel palazzo, il piano appena sotto quello dei lanciatori anonimi, ci tiene a far sapere che “dai primi accertamenti è stato verificato che lacrimogeni a strappo, come quelli che sembrerebbero essere stati lanciati dal ministero non sono in dotazione al reparto di polizia penitenziaria di via Arenula”. Lasciamo perdere i penosi condizionali (“sembrerebbero”) e stiamo ai verbi all’indicativo: al secondo piano del ministero c’erano dei poliziotti e sono stati loro a tirare ordigni peraltro nemmeno in dotazione ai “padroni di casa” (gli “agenti di custodia” della penitenziaria).
Ogni tentativo di “giustificare” quel lancio – ultimo, per ora, il questore di Roma Fulvio Della Rocca, capace di rovesciare le leggi della fisica – peggiora le cose e sgretola la credibilità del governo.
Scene di una commedia da sesto mondo.

Mai, a nostra memoria, era avvenuto che in un paese “a democrazia matura” si sparasse qualcosa dai ministeri sulle manifestazioni di protesta. Davanti alla Casa Bianca si può manifestare; magari ti menano e ti arrestano (quasi sempre), ma nessuno si mette a sparare dal piano sopra o sotto la Camera Ovale del presidente. A piazza Syntagma ci sono manifestazioni e scontri continui, da due anni e mezzo a questa parte, ma nessuno ha dichiarato la piazza sede del Parlamento “zona rossa”; tantomeno sparano sulla folla da dentro il Parlamento. Potremmo andare avanti a lungo.

Questo video rende assolutamente evidenti diversi ordini di problemi relativi al rapporto tra governo, popolo e informazione. Cerchiamo di illustrarli uno per uno.

Sul piano della gestione dell’”ordine pubblico”. La presenza, dentro il ministero, di poliziotti autorizzati a lanciare gli ordigni in dotazione sulla folla dimostra che esisteva un piano preordinato di attacco alla manifestazione, comunque fosse andata (ovvero qualsiasi cosa avessero scelto di fare eventuali “violenti” mescolati tra i ragazzi). In tutte le cronache dal corteo, da piazza Venezia in poi, i corrispondenti di radio e media indipendenti descrivevano un cammino di massa “in un percorso obbligato”, con tanto di truppe schierate a impedire qualsiasi deviazione. Volevano dunque che il corteo arrivasse esattamente là dove è stato lasciato arrivare: a Ponte Sisto. Chi conosce Roma sa che quello è uno dei punti più stretti dei Lungotevere, per circa 300 metri senza sbocchi alternativi (da un lato il fiume, in quel momento al massimo della piena, dall’altro una fila di palazzi). Il primo “sfogatoio” utile era quindi molto alle spalle della “testa”; a sinistra su Ponte Garibaldi e poi Trastevere, a destra via Arenula, passando sotto il ministero della Giustizia.
Mettere degli agenti “lanciatori” là dentro aveva un senso solo come parte essenziale della grande “trappola” contro il corteo. Sono infatti molto lontani (oltre 30 anni) i tempi in cui quel ministero poteva esser oggetto di contestazione diretta a causa del trattamento riservato ai prigionieri politici. Oggi, chi si occupa più di detenuti e dintorni? La vulgata “democratica” e legalitaria pretende che quei luoghi chiamati prigioni non solo possano esistere, ma debbano possibilmente contenere molta più gente di quanta già non ve ne sia (e ognuno ha la sua “casta” da candidare alla cella).
Qualche testimone un po’ più avanti negli anni – genitori normali, non guerrieri di professione – ha definito la disposizione in campo della polizia con un termine terribile: “una tonnara”. Come a via Tolemaide a Genova 2001, un pezzo di corteo è stato preordinatamente preso in mezzo a una “scatola” senza vie di fuga. Identico lo scopo; picchiare più gente possibile, fermarne il più possibile, “avvisare” una generazione intera.
Questa constatazione ha una prima conseguenza immediata.

Sul piano politico. Il governo in carica mente come e peggio di quelli precedenti. “Come”, perché racconta frottole di comodo, studiate alla bisogna, valide per un giorno e smentite il successivo. “Peggio”, perché si ripara dietro una presunta “serietà e onestà”, sbugiardata ad ogni passo concreto ma ribadita mediaticamente da un coro inqualificabile di leccapiedi.
Soprattutto, questa gestione della piazza e della protesta mostra che i “tecnici” – ovvero l’esecutivo installato dalla Troika (Bce, Ue, Fmi) – non possiedono strumenti politici di governo della società. Il taglio della spesa pubblica, notano ormai gruppi sempre più larghi di commentatori, distrugge le possibilità e la praticabilità di una qualsiasi mediazione sociale. I “corpi intermedi” adibiti storicamente a questa funzione mediatoria (partiti, sindacati, associazioni) si trovano infatti nell’impossibilità di tradurre bisogni e istanze in “progetti di legge”, piattaforme rivendicative, “discorsi pubblici” proiettati su un orizzonte non solo quotidiano. La loro “rappresentatività” svanisce di giorno in giorno, moltiplicata da gruppi dirigenti “complici” ormai ridotti a recitare l’imitazione di sé stessi e del Pci che fu, peraltro nel suo periodo peggiore (“contro gli “untorelli” o i “diciannovisti”, scriveva l’Unità del ’77 e quella del 15 novembre 2012).
Restano solo i manganelli e i lacrimogeni. Che possono frenare i movimenti per un attimo, ma alla lunga rischiano di “incattivirli”.

Sul piano dell’informazione.
Che tanti cronisti siano stati colpiti dalla medesima distorsione visiva subita dal ministro dell’interno non è ovviamente una coincidenza. Ma sarebbe semplicistico definirli “gazzettieri pagati dalla questura”. Le cose sono più semplici, in alcuni casi, e quindi peggiori.
I giornalisti dei media mainstream – quelli con contratto regolare e tesserino da “professionisti” – costituiscono una “casta”, sì, ma subordinata. Tra loro ci sono notevoli personalità indipendenti, per qualsiasi testata lavorino (su questo giornale riprendiamo spesso, con grandi apprezzamenti, articoli di Massimo Mucchetti, Alberto Negri, Gianni Dragoni, Barbara Spinelli e tanti altri che non nominiamo per non tediarvi).
Il giornalista “normale”, però, dipende molto dalla sua agenda telefonica. Più è ricca, più si garantisce autonomia. Ogni volta che scrive, infatti, scontenta qualcuno e accontenta qualcun altro (è un fatto oggettivo, una conseguenza involontaria del fare giornalismo; vale anche per noi). Se ha poche “fonti” cui chiedere lumi, dovrà essere per forza di cose più cauto, più attento a non pestare i piedi sbagliati.
Peggio di tutti stanno quelli della “cronaca nera” o della “giudiziaria”. Qui “le fonti” sono pochissime: qualche magistrato, qualche dirigente di polizia o dei carabinieri, qualche frequentatore dei “servizi”. Tutta gente che lavora professionalmente con l’informazione, come e a volte meglio del giornalista medio. Tutta gente che ti può dire qualcosa di utile a scrivere un pezzo, ma limitatamente alla parte di cose che vuole far sapere (“la verifica è incerta”, direbbe Enrico Giusti). Tutta gente che, per puro mestiere, a un certo punto ti chiederà qualcosa in cambio (informazioni, ovvio). Tutta gente contro cui, altrettanto ovvio, non puoi scriver nulla se non vuoi perderli come “fonti”. A meno che non ci sia qualcuno caduto in disgrazia e che i suoi stessi “colleghi” vogliono additare all’opinione pubblica come “la mela marcia” e salvare tutti gli altri.
Eccezioni ce ne sono, naturalmente. Ma non fanno la media della categoria. Molti di quelli che hanno scritto sui “violenti in piazza” appartengono a questo settore. Gente che scrive quel che piace al loro questurino di riferimento per poter continuare a lavorare sotto (un altro) padrone.

Violenza e disinformazione. La gestione della crisi scelta a livello europeo non dispone per ora di strumenti alternativi. È bene capirlo subito. Un potere senza altri mezzi è un potere pericoloso, ma con poche carte in mano. Altre mobilitazioni ci attendono, e molti articoli spiegano (“velinano”) come il Viminale abbia considerato quello del 14 novembre soltanto un test. Allargare la protesta, fare tesoro dell’esperienza e crescere di consapevolezza, aumentare in ricchezza e profondità la controinformazione, spezzare la muraglia dell’informazione servile. Non è impossibile. Lo abbiamo fatto tante volte. Solo chi non ha memoria ha già perso in partenza.

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