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Monti si dimette dopo la finanziaria

Ci siamo. Il passaggio più rischioso – quello da un governo diretta espressione della Troika a un altro con l’identica “agenda”, ma più connotato come “politico” – muove i primi passi.

Monti è salito a Quirinale e ha comunicato al Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, che intende rassegnare le dimissioni dopo la legge di stabilità. Dopo l’annuncio ufficiale di uscita del Pdl dalla maggioranza  (con un discorso alla Camera dell’ex facente funzioni di segretario, Angelino Alfano), «il Presidente del Consiglio non ritiene possibile l’ulteriore espletamento del suo mandato e ha di conseguenza manifestato il suo intento di rassegnare le dimissioni». Secondo il Professore, infatti, la dichiarazione del segretario del Pdl «costituisce, nella sostanza, un giudizio di categorica sfiducia nei confronti del Governo e della sua linea di azione».

Quindi non ci sono più i numeri in Parlamento e non è il caso di concedere al Caimano la possibilità di rifarsi una verginità sparando su ogni provvedimento impopolare che questo governo – e il prossimo, chiunque lo guidi – proverà a prendere.
«Il Presidente del Consiglio – spiega il comunicato del Quirinale – accerterà quanto prima se le forze politiche che non intendono assumersi la responsabilità di provocare l’esercizio provvisorio – rendendo ancora più gravi le conseguenze di una crisi di governo, anche a livello europeo – siano pronte a concorrere all’approvazione in tempi brevi delle leggi di stabilità e di bilancio. Subito dopo il Presidente del Consiglio provvederà, sentito il Consiglio dei Ministri, a formalizzare le sue irrevocabili dimissioni nelle mani del Presidente della Repubblica».

La chiamata di correo per il centrodestra è secca: volete far sprofondare il paese nuovamente nel caos finanziario con lo spread in volo verso o oltre i 500 punti? Basta che non approviate la “legge di stabilità” (il nuovo nome assunto dalla abituale “legge finanziaria” di fine anno, dopo gli accordi comunitari che l’hanno resa una variabile dipendente del “semestre europeo”, in cui i bilanci di tutti gli stati dell’eurozona vengono coordinati e strutturati per l’essenziale). Una responsabilità che naturalmente nessuno si vuol prendere. E quindi gli azionisti della “strana maggioranza” che sosteneva l’esecutivo dei tecnici hanno subito fatto sapere che «siamo pronti ad operare per l’approvazione nei tempi più rapidi della legge di stabilità». Anche Alfano ci ha messo la firma: «Siamo prontissimi a votare il disegno di legge di stabilità stringendo i tempi».

Un passaggio che fa parte della “noemalità democratica” inqualsiasi paese dell’occidente capitalistico assume qui da noi i connotati di un “giudizio di dio”, con tanto di scenari sconvolgenti in caso di vittoria del candidato “sbagliato”. Perché?

Perché qui in Italia la “classe dirigente” (non solo la borghesia imprenditoriale e finanziaria, particolarmente ristretta numericamente, ma anche quella serie di “mondi di mezzo” prosperati all’ombra di clientele, appalti pubblici, evasione fiscale, elusione, economia in nero o persino criminale) è un inguacchio di interessi senza una struttura precisa a partire da quello che altrove è sempre dominante: grande impresa e capitale finanziario.

Questa struttura anomala è uno dei problemi che doveva risolvere il trasferimento dei pieni poteri alla Troika (Bce, Ue, Fmi). La prima parte del programma è andata, da quel punto di vista, molto bene: Berlusconi e i suoi malfattori sono stati tirati fuori rapidamente dalle stanze del potere politico, le “riforme strutturali” più antipopolari sono state approvate anche grazie alla sua legione di parlamentari a gettone. Ma abbattere i salari, licenziare i dipendenti pubblici, dissanguare le pensioni e cancellare i diritti non è sufficiente per riportare la spesa pubblica entro i paramaetri di Maastricht.

Il “programma europeo” impone anche – lo abbiamo documentato più volte – la tosatura di buona parte degli interessi di quei “mondi di mezzo” che hanno fatto la fortuna politica del Cavaliere e che rappresentano il grosso della “ricchezza intassabile” di questo paese. Una riserva di grasso che non può passare indenne a questa prova e che ora si ribella affidandosi nuovamente alla sua icona peggiore: l’uomo delle olgettine.

È un passaggio pericoloso anche per l’opposizione di classe che nei mesi scorsi ha fatto più volte capolino nelle piazze e nei luoghi di lavoro.

Il “populismo”, in versione grillina o berlusconiana (che assorbirà quasi per intero anche quello fascista vero e proprio), cerca infatti di raccogliere i consensi nella parte di popolazione che più è stata colpita dalle misure del governo Monti. Mentre, a un anno di distanza, è impallidito in molte coscienze il ricordo di quel che ci hanno combinato, sulle stesse materie, i Sacconi, i Brunetta, i Cazzola.

È dunque urgente – e pensiamo che il movimento “No Debito” possa farsene carico fin dalla prossima assemblea del 15 dicembre – dare un volto e un nome di classe alla protesta, mobilitandosi fin d’ora sui posti di lavoro, sul territorio e nelle piazze perché la rivolta che sale da basso prenda la via del cambiamento radicale, evitando le trappole dei servi del peggior potere.

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