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La campagna di Monti: regali a Benetton e ai costruttori

Dice di non voler fare una campagna elettorale miliardaria l’entourage del premier “tecnico” asceso alla politica. Anche perchè il timido e ingessato personaggio è da mesi in tv a reti unificate, e può contare sul sostegno esplicito o implicito di buona parte dei media di altra natura. E però, quando ancora non si sa neanche se Monti avrà una sua lista, sarà il candidato premier di più liste o semplicemente sponsorizzerà dal di fuori della competizione elettorale i suoi uomini, un lungo elenco di imprenditori e banchieri fa sapere di essere in procinto di spendere qualche milioncino per sostenerlo.
In particolare, sarebbe stato messo a punto un budget che oscilla tra i 10 e i 15 milioni di euro necessari per la campagna di avvicinamento alle urne di febbraio. Se buona parte del capitale potrà essere raccolta dai finanziamenti ai partiti, ai quali hanno accesso l’Unione di centro di Pier Ferdinando Casini e Futuro e libertà per l’Italia di Gianfranco Fini, anche i privati dovrebbero fare la loro parte.
In particolare il ‘prof’ potrà contare sui libretti degli assegni di personaggi già finiti nella rete di Montezemolo e della sua ‘Italia Futura’, ma non solo. Lauti finanziamenti arriveranno dallo stesso Luca Cordero e da altri suoi partner della Ntv come Gianni Punzo, ma anche dalla Merloni (deputata uscente del PD) e da Carlo Pontecorvo, proprietario e presidente di Ferrarelle. E quasi certamente anche da Salvatore Matarrese, costruttore e presidente dell’Ance pugliese, e da Cinzia Palazzetti, anche lei costruttrice e già presidente degli industriali di Pordenone.
Nel frattempo per ringraziare i suoi finanziatori e ingraziarsene di nuovi il ‘salvatore della patria’ sta provvedendo a favorire l’asse costruttori/proprietari di media con un ingente regalo: una bella pioggia di cemento, finanziamenti pubblici e provvedimenti ad hoc.

MONTI, REGALO DI NATALE A BANCHIERI E COSTRUTTORI

Alessandro Ferrucci

Nel silenzio più assoluto, l’ultimo atto del governo “tecnico” ha garantito ai poteri forti che gestiscono lo scalo di Fiumicino più tasse aeroportuali a carico dei passeggeri. Nel piano: il raddoppio delle piste, ma soprattutto una cascata di cemento sul litorale romano. Affare da 12 miliardi che conviene a troppi.
Venerdì sera, Mario Monti è oramai un presidente dimissionario. I membri del governo sono più impegnati a capire cosa faranno da grandi che a pensare alle ultime mosse da ministri. Eppure, in un clima da “tutti a casa”, l’esecutivo trova il tempo per dare il via libera all’aumento delle tariffe aeroportuali di Fiumicino, da 16 euro a passeggero a 26 e 50. Quindi, di conseguenza, dare l’avallo all’opera infrastrutturale più grande nella storia del nostro Paese: parliamo di 12 miliardi di euro (sì, sono dodici) per raddoppiare il Leonardo da Vinci. Tradotto: chi gestisce lo scalo romano e i suoi 36 milioni e oltre di “visitatori”, troverà nelle casse almeno 360 milioni di euro l’anno, con un fine concessione fissato al 2044. Soddisfatto il ministro dello Sviluppo economico e Infrastrutture, Corrado Passera, improvvisamente convinto il collega all’Economia, Vittorio Grilli, pubblicamente dubbioso fino a poche ore prima.
La società che gestisce lo scalo capitolino, l’Adr, presenta nel 2009 all’Enac (Ente nazionale per l’aviazione civile) e al governo un piano di sviluppo per passare da 36 milioni di passeggeri a 70, poi 100. Quindi, a cascata, maggiori posti di lavoro diretti e indiretti, un ruolo centrale come hub del Mediterraneo e la possibilità di confrontarsi alla pari con Londra e Atlanta. Così dicono. Piccolo dettaglio: l’aeroporto londinese di Heathrow ha le stesse dimensioni di quelle attuali di Fiumicino, solo che lì hanno ottimizzato i tempi di atterraggio e decollo, senza spendere cifre del genere. Ma questo, pare, conti poco “anche perché lì non vivono un conflitto di interesse marcato come da noi”, spiegano dal comitato Fuoripista, l’unico che da anni si batte contro la cementificazione del Litorale. Interessi, parola magica. Ben mille dei 1.300 ettari coinvolti nell’operazione sono della Maccarese Spa, la più grande azienda agricola d’Italia, interamente coltivata. La proprietà è della famiglia Benetton, lesta, nel 1998, ad acquistarla dall’Iri (società dello Stato) per 93 miliardi di lire “con l’impegno di mantenere la destinazione agricola e l’unitarietà del fondo”, come recita l’accordo. A meno di un esproprio. Proviamo l’equazione: la “Maccarese Spa” è di Benetton. Gemina possiede il 95 per cento di Adr. In Gemina c’è Benetton. Cai, quindi la nuova Alitalia, sta concentrando sulla Capitale quasi tutto il suo traffico aereo nazionale e internazionale.
I BENETTON, dopo Air France, il gruppo Riva (i patron dell’Ilva di Taranto) e Banca Intesa, sono i quarti azionisti di Cai con l’8 e 85 per cento. Insomma, gli “united colors” rivenderebbero allo Stato, quello che dallo Stato hanno acquistato, per poi ottenere i finanziamenti utili a realizzare un qualcosa da loro gestito. E non parliamo di pochi euro. Secondo le tabelle nazionali, i Benetton dall’esproprio potrebbero incassare almeno 200 milioni di euro (20 euro al metro quadro), ai quali vanno aggiunti i danni riconosciuti in caso di strutture già presenti. Ciò non ha loro impedito, dieci giorni fa, di comprare pagine e pagine di quotidiani per sollecitare il governo ad approvare l’aumento delle tariffe e a fare pressione sull’esecutivo come denuncia al Fatto Esterino Montino. Ma a ridere non è solo il gruppo trevigiano. A Roma il cemento è di casa, e uno dei protagonisti è Silvano Toti. Caso strano, quest’ultimo è anche il secondo azionista di Gemina con il 12,80 (come da tabella). Non solo. Oltre all’aeroporto verranno realizzati palazzi, centri commerciali, varianti stradali. L’editore del Messaggero ha una quota piccola azionaria in Generali, il gruppo assicurativo ne ha una in Mediobanca. Il quotidiano capitolino è stato il giornale maggiormente attento alla vicenda. Un caso? Bene, tutta la storia era vin-colata solo all’aumento delle tariffe, la conditio sine qua non posta dalle banche (in Gemina c’è anche Unicredit) per finanziare il progetto. Questo perché dal “contributo” dei passeggeri arriva il 50 per cento del totale, il resto i capitani del cemento lo otterranno dagli istituti bancari coinvolti.

* Il Fatto Quotidiano del 27/12/2012.

 

Destra, sinistra e cemento: i costruttori controllano stampa e voti

Ferruccio Sansa | Il Fatto Quotidiano 27 dicembre 2012

Su una cosa destra e sinistra sono d’accordo: il cemento. La parola “ambiente” ha uno strapuntino nei programmi, ma poi, alla prova dei fatti, amministrazioni e governi di qualsiasi colore – eccetto Verdi, Cinque Stelle e magari quel che resta dei comunisti – votano “sì”. Costruire. Che siano colossali operazioni immobiliari, porticcioli, autostrade, piste di aeroporti o perfino rifugi di montagna che ricordano basi spaziali. Addio alle bandiere rosse o azzurre, sui megaprogetti sventolano quelle grigie del partito del cemento. Chiarificatrice la definizione del sindaco di Sarzana (Pd), Massimo Caleo, in pista per il Parlamento: “Noi siamo per la conservazione attiva”. Che nel suo caso significa un porticciolo da quasi mille posti più case, negozi, eccetera, proprio alle foci del fiume Magra che ogni anno provoca alluvioni.
Resta la domanda: che cosa spinge chi governa a puntare sull’industria del mattone? Miopia, talvolta. In Veneto ci sono interi paesi di case vuote. In Italia c’è un record di proprietari di abitazioni mentre la popolazione continua a calare (in alcune cittadine delle nostre Alpi il 95% delle case sono vuote) e acquista sempre meno immobili (a causa della crisi e delle tasse). Difficile pensare che si vogliano dare abitazioni ai bisognosi, perché in Italia solo il 4% degli appartamenti nuovi sono destinati all’edilizia convenzionata (nel nord Europa si arriva al 25%). Per costruire quattro case popolari bisogna realizzarne sei volte più che altrove.
Il cemento come motore dell’economia e del lavoro? Falso. Questo settore offre occupazione a breve termine – legata alla realizzazione del progetto – e di solito poco qualificata. Ma il mattone rischia anche di divorare la principale industria del nostro Paese: il turismo che produce il 15% del Pil. Insomma, preservare il paesaggio conviene anche economicamente.
Ma allora perché l’Italia punta sul cemento? Miopia, appunto. O peggio: i grandi costruttori hanno santi in paradiso, anzi in Parlamento. Tra i grandi imprenditori autostradali ecco esponenti del centrodestra. Al Nord tra i costruttori invece dominano le cooperative dette “rosse”. Insomma, sostenere il cemento conviene. Anche politicamente: molti re del mattone hanno le mani nell’editoria, dai giornali locali ai colossi nazionali. Sostenerli potrebbe voler dire garantirsi l’appoggio dell’informazione. Cioè voti. Siamo sempre lì.

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