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Il futuro della Ue è negli Usa?

L’editoriale del sottosegretario agli esteri, Marta Dassù, ospitato da La Stampa di Torino, dà una risposta netta e quasi scontata, vista la storica dipendenza italica dai desiderata statunitensi. Una dipendenza quasi “inglese”, possiamo dire, e che non trova riscontri né nella Germania (ancora prima della riunificazione), né tantomeno nella Francia sempre “gollista” nel profondo.

Ma l’argomento esiste e rappresenta un’altra via per risolvere le difficoltà delle economie su entrambe le sponde dell’Atlantico, ormai col fiato corto. Per non parlare della “crescita”…

Però bisogna vedere anche i segnali contrastanti, che non mancano. A cominciare dal “passo indietro” rispetto alla Ue annunciato dal leader conservatore inglese, David Cameron, con tanto di referendum dall’esito al momento scontato. Così come sono rilevanti le parole rivolte a Mosca nei giorni scorsi dal leader del partito liberale tedesco, Guido Westervelle, che è arrivato a dire “Vogliamo rafforzare la nostra sicurezza con la Russia, anche con una stretta cooperazione per l’attuazione di una protezione antimissile”. Si parla di sicurezza militare, ma si pensa anche alle forniture energetiche.

Un secondo tema su cui il sottosegretario si entusiasma molto – decisamente troppo – parlando dell’aumento esponenziale della produzione di idrocarburi negli Stati Uniti con nuove, costose e devastanti tecniche. È dal 1970 che la produzione energetica interna agli Usa diminuisce, per il normale esaurimento delle riserve di petrolio. La sostituzione con il tight oil and shale gas, ottenuto col fracking o tecniche similari, è stata possibile solo quando il prezzo del greggio si è stabilizzato intorno ai 100-110 dollari al barile (per la qualità Brent). Ora stanno recuperando terreno, ma nessuno può davvero credere che gli Stati Uniti diventeranno un esportatore di petrolio. Non lo sono mai stati. L’hanno sempre considerato – in un certo senso “giustamente” – una risorsa “strategica” da non condividere ad alcun prezzo. E le guerre verso l’Iraq, solo per dirne una, hanno dimostrato che questa per “risorsa” sono disposti a qualsiasi follia.

Per il buon motivo che attualmente non c’è nulla – nemmeno all’orizzonte più lungo – che possa sostituirla in quantità significative.

Un “mercato unico” eurostatunitense è tecnicamente complesso, come riconosce il sottosegretario, ma non impossibile. L’iniziativa di Joe Biden, confermato vice-presidente, somiglia un po’ alle offerte fatte dalla Gran Bretagna quando iniziò a veder vacillare la propria supremazia in Europa e nel mondo. L’Inghilterra si rivolse al suo successore – gli Stati Uniti, appunto – cercando inutilmente di “governarne” gli animal spirits. Gli Usa, oggi, guardano all’Europa come a una riserva di potenza economica, per quanto molto sfibrata, con cui mettere insieme un aggregato che possa rinviare di un altro ventennio il “sorpasso” cinese. E il declino dell’ultima risorsa “imperiale” rimasta con sede a Washington: il dollaro.
La possibilità dunque esiste, anche se gli interessi sono piuttosto asimmetrici, se non addirittura divergenti. Ma non sarà l’Italia, neppure quella di Monti (che certo è molto sensibile ai “richiami” Usa), a svolgere un ruolo propositivo. Dove andrà la Ue, infatti, si decide a Berlino e Parigi. Strano che un sottosegretario agli Esteri non l’abbia capito.

Oppure sì e vuole andare da un’altra parte?

Ed ecco l’editoriale de La Stampa

Usa-Europa nuovo patto atlantico

Marta Dassù*

Nel Secolo del Pacifico, l’America rilancia l’Atlantico. Mentre l’Europa si chiede se e in che modo Obama 2 effettuerà il fatidico «pivot to Asia», il vicepresidente Joe Biden, dalla Conferenza di Monaco, chiede agli europei di costruire un’area di libero scambio: un mercato unico fra le due sponde dell’Atlantico, non in nome dei vecchi tempi che furono ma di quelli che verranno.

Va detto subito: non è un’idea nuova. Nuova è la convinzione con cui la sostiene un’amministrazione americana che vede ancora nell’Europa, non nella Cina, il partner economico decisivo. I dati sono lì a dimostrarlo. Europa e Stati Uniti generano insieme un flusso commerciale di 2 miliardi di euro al giorno, un terzo del totale mondiale. Un accordo di libero scambio – progetto sostenuto in questi anni soprattutto da Germania, Gran Bretagna e Italia – avrebbe benefici economici tangibili. Ma l’idea non è mai riuscita ad andare oltre le affermazioni di principio, data la complessità delle tematiche affrontate e la capacità di interdizione delle varie lobby che traggono profitto da mercati protetti. Oggi – fallito il negoziato di Doha sul commercio globale, passate le elezioni americane (fasi in cui qualunque apertura commerciale è un tabù) e constatato, da parte degli europei, che la domanda è «esterna» o non è – sono riunite finalmente le condizioni necessarie, economiche e politiche, per avviare il negoziato. Sulla carta, almeno.

Partiamo allora dalla carta, ossia dal primo rapporto del Gruppo ad Alto livello fra Usa ed Ue che sta lavorando ad abbattere le barriere (un secondo rapporto dovrebbe uscire fra poco). L’obiettivo è un accordo non settoriale ma ampio, che includa i flussi commerciali, i servizi, gli investimenti, gli appalti pubblici, le disposizioni in materia di Pmi, l’accesso alle materie prime e all’energia. Un comprehensive free trade agreement (Fta) che finirebbe per fissare, considerate le dimensioni delle due economie, gli standard internazionali in moltissimi settori dell’attività economica.

I benefici, per l’Europa e per gli Stati Uniti, sono stimati in una crescita del Pil di oltre mezzo punto all’anno, con un aumento degli scambi e soprattutto degli investimenti diretti, la cui importanza è spesso sottovalutata: gli investimenti americani in Europa (da cui dipendono numeri importanti di posti di lavoro) sono il triplo di quelli diretti in Asia; gli investimenti europei negli Usa sono otto volte superiori a quelli in India e Cina messi insieme. Come dire: l’economia atlantica esiste.

Un accordo del genere con l’America è un obiettivo molto rilevante per l’Italia, che ha attualmente con gli Stati Uniti un volume di scambi superiore ai 40 miliardi di dollari l’anno – volume in crescita. Non esiste un «sostituto» credibile per questo mercato; se c’è un punto chiarito da questi anni di crisi dell’eurozona, è che la crescita dei Paesi emergenti, per quanto rapida e importante in prospettiva, non è in grado di tirarci fuori dalle secche, non può ancora sostituirsi al consumatore americano e al suo potere d’acquisto. Tanto più per una economia come la nostra, dove solo la domanda estera compensa la durezza dello slow-down domestico.

C’è un dato ulteriore: l’accordo commerciale consentirebbe all’Europa di agganciarsi alla ripresa economica che, con ogni probabilità, interesserà gli Stati Uniti. Welcome back, America: esistono pochi dubbi, a mio giudizio, che la locomotiva americana, considerata un relitto del passato, stia per ripartire, grazie ad una serie di vantaggi competitivi che gli Stati Uniti hanno ancora. Vediamoli. Prima di tutto, la disponibilità di energia a basso costo: la rivoluzione del tight oil and shale gas consentirà in pochi anni agli Usa di ridurre la dipendenza dall’estero e di diventare anzi un esportatore netto di idrocarburi, con grandi vantaggi per le imprese statunitensi. E’ un dato, meglio averlo chiaro da ora, che tenderà a ridurre l’interesse geopolitico americano per il Mediterraneo, richiamando l’Europa alle proprie responsabilità primarie di politica estera. Secondo vantaggio: il dominio globale delle tecnologie informatiche e dei nuovi media – come ricordava di recente Franco Bernabè al Foro imprenditoriale di Santiago del Cile. E infine il dollaro debole, che probabilmente rimarrà tale nel futuro prevedibile. In quest’ultimo caso, il vantaggio competitivo per l’America si trasforma in problema serio per l’Europa. Aggiungendo al dollaro debole la politica monetaria espansiva del nuovo governo giapponese, il risultato è infatti un euro comparativamente così forte da danneggiare gli interessi commerciali europei. Ma proprio per questo, un accordo di libero scambio aiuterebbe; aiuterebbe a limitare i danni di una guerra delle valute non dichiarata e già in corso.

Conclusione: arrivare a un accordo transatlantico non sarà affatto facile. Il diavolo, come al solito, sta nei dettagli e qui i dettagli – le barriere non tariffarie – sono molto rilevanti. Ma i benefici sono evidenti. Con un vantaggio politico aggiuntivo, interno all’Ue questa volta: aiutarci a tenere Londra in Europa. Nel Secolo almeno in parte Atlantico, perdere la Gran Bretagna, dal punto di vista economico e della sicurezza, non converrebbe né agli Stati Uniti, né all’Ue, né agli inglesi.

*Sottosegretario agli Affari Esteri

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