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La “stanchezza” di un Pontefice

“Mai più un Papa straniero” era questa la battuta sussurrata nei corridoi vaticani dalla metà del pontificato del papa polacco Giovanni Paolo II. Eppure la Curia “romana” aveva dovuto incassare una seconda sconfitta nel 2005 con l’elezione di Papa Ratzinger. Non è un mistero che sin dall’inizio del suo pontificato ci sia stato scontro dentro il Vaticano. Uno scontro non certo nuovo ma che si trascina sin dal Concilio Vaticano II dell’ottobre 1962, con il quale la cupola della Chiesa Cattolica cercò di evitare che la modernizzazione che aveva investito la società del dopoguerra relegasse al palo e al passato la “verità rivelata” della cristianità. Dallo scontro in sede conciliare nacque negli anni successivi la scissione dei seguaci di Mons.Lefebvre e la loro successiva scomunica. Secondo i lefvbreviani, terrorizzati dalla crescente influenza sulla società dei maestri del dubbio (Hegel etc.) e del marxismo, “La Chiesa non produce sufficienti anticorpi per superare questa crisi, di cui il modernismo, sotto papa san Pio X, è stato un segnale di avviso”. Gli scissionisti daranno vita alla “Fraternità San Pio X” con la quale l’attuale pontefice Benedetto VI (Ratzinger) ha cercato in tutti i modi di ricucire. Lo farà con un atto unilaterale (il Motu Proprio) del 14 luglio 2007 che ha reintrodotto la possibilità di celebrare la messa in latino e poi il Decreto del 21 gennaio2009 nel quale si afferma che i seguaci della Fraternità San Pio X non sono scismatici né scomunicati. Da allora è stata stabilita una sorta di commissione bilaterale tra Vaticano e lefevbriani che sta portando avanti colloqui che si svolgono regolarmente, colloqui nei quali i tradizionalisti non intendono in alcun modo rinunciare ad affrontare il “grande tabù ecclesiastico contemporaneo, la questione scottante per eccellenza” ossia i guasti prodotti – a loro avviso – dal Concilio Vaticano II del 1962.

Il Motu Proprio è l’atto, e il relativo documento, con cui un capo di stato procede a determinate concessioni senza che gliene sia giunta esplicita richiesta. Papa Ratzinger è ricorso spesso alla formula del Motu Proprio, un atto che in qualche modo certifica i poteri assoluti di un capo dello Stato, in questo caso dello Stato del Vaticano. L’ultima volta è stato il 25 gennaio 2013, poco meno di due settimane fa, quando con due “Motu Proprio” il Papa ha confermato nuove competenze per le Congregazioni, in particolare quello che affida alla Congregazione per il Clero di occuparsi di “tutto ciò che riguarda la formazione dei futuri preti: dalla pastorale vocazionale e la selezione dei candidati ai sacri ordini, “inclusa la loro formazione umana, spirituale, dottrinale e pastorale”, fino alla loro “formazione permanente, incluse le condizioni di vita e le modalità di esercizio del ministero e la loro previdenza e assistenza sociale”. Il secondo Motu Proprio – “Fides per doctrinam” – trasferisce la competenza sulla catechesi dalla Congregazione per il Clero al Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, in pratica la gestione della catechesi e dunque della catechizzazione. Nel Motu Proprio si sottolinea che, in passato, non sono mancati in campo catechetico “errori anche gravi nel metodo e nei contenuti, che hanno spinto ad una approfondita riflessione e condotto così all’elaborazione di alcuni Documenti postconciliari che rappresentano la nuova ricchezza nel campo della Catechesi”.

Due provvedimenti che indicano un segnale evidente di difficoltà nell’evangelizzazione e nelle vocazioni per la Chiesa Cattolica.

Papa Ratzinger è stato pienamente consapevole della crisi della Chiesa Cattolica e si è avventurato in ripetuti tentativi di porvi rimedio. A marzo del 2005, ancora come cardinale, dichiarava che “la Chiesa ci sembra una barca che stia per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti”. Nove mesi dopo, il 22 dicembre 2005, ormai pontefice, riconosceva che “Nessuno può negare che, in ampie parti della Chiesa, la ricezione del Concilio sia avvenuta in modo piuttosto difficile”.

Ma la crisi del Vaticano e della sua pretesa di essere “verità rivelata” e dunque dogma indiscutibile nelle sue scelte, come abbiamo visto è pre-esistente al pontificato di Benedetto XVI. Dopo l’elezione di Papa Woytila, nella curia romana si era diffuso un sentimento profondo “Mai più un papa che non sia della Chiesa di Roma” ossia un pontefice italiano. La rivincita della Curia, alla morte di Woytila, sembrava a portata di mano, ma gli squilibri-equilibri interni tra i cardinali portarono invece ad un nuovo papa straniero: il “tedesco” Ratzinger, teologo, intellettuale ex responsabile della Congregazione della Dottrina della Fede, dunque commissario ideologico del Vaticano. Una nuova sconfitta dunque che la Curia non ha mai digerito scatenando una guerra di logoramento dentro e contro il pontificato di Benedetto XVI, una guerra che i tentativi di ricomposizione con gli scismatici della Fraternità San Pio X ha accentuato notevolmente.

In una prima fase da una parte si erano schierati il segretario di stato Bertone (uomo della Curia) e probabilmente il card. Bagnasco (il futuro e attuale presidente della potentissima Cei, la Conferenza dei vescovi italiani) dall’altra Papa Ratzinger e molti cardinali stranieri. Una guerra prima sotterranea ma poi emersa, senza esclusione di colpi. Soprattutto quando i due alleati – Bertone e Bagnasco – hanno iniziato una lotta senza esclusione di colpi, accentuata notevolmente, ma non scatenata dalle vicende legate allo IOR.

Il 25 marzo 2007 e poi il 17 agosto del 2009, il Segretario di Stato Bertone inviava una lettera al presidente della Cei, Bagnasco, nella quale faceva intendere chiaramente la propria collaborazione ma chiarendo che “i rapporti con le istituzioni politiche” avrebbero avuto “la rispettosa guida della Santa Sede nonché mia personale”. I contrasti tra i cardinali Bertone (che rappresenta lo Stato del Vaticano) e Bagnasco (conferenza dei vescovi) sono proseguiti sistematicamente in tutti questi mesi e in qualche modo devono aver “lambito” anche l’ipotesi dell’uscita di scena di Papa Ratzinger.
In occasione del Concistoro del gennaio 2012, tali contrasti sono emersi con forza. E’ il notista politico del Corriere della Sera a scrivere il 12 gennaio 2012: “Fra Vaticano e Cei, uno dei pochi giudizi unanimi riguarda la realtà di un episcopato dell’ Italia diviso, senza un leader; e incapace di imporre un proprio candidato se il problema della successione a Benedetto XVI dovesse aprirsi in tempi brevi”. In questo passaggio ci sono due parole chiave: il candidato dei vescovi italiani e la successione di Benedetto XVI in tempi brevi.
E si che il Concistoro dell’Epifania aveva visto vincere questa volta la Curia romana con la nomina pontificia di sette cardinali “italiani” che sono così saliti a 30 su 120. Un riequilibrio di forze che irrobustisce la fazione che ebbe a dichiarare sottovoce “mai più un papa che non sia italiano”. In qualche modo lo scontro sullo IOR ha accentuato lo scontro e il Papa è dovuto entrare a gamba tesa su un terreno decisamente rognoso.

Negli ultimi due anni, Benedetto XVI ha cambiato tutti gli uomini del potere finanziario vaticano posizionando i suoi uomini di fiducia in tutti e cinque gli organismi che hanno competenze economiche nella Santa Sede: l’Amministrazione del patrimonio della sede apostolica (Apsa), il Governatorato dello Stato Città del Vaticano, la prefettura degli Affari economici, la Congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli e infine lo IOR.

Per sbloccare la rognosa vicenda delle indagini sugli affari dello IOR, il Papa ha emanato, il 30 dicembre 2010, la Lettera Apostolica e la legge n. CXXVII istituendo l’Autorità di Informazione Finanziaria (AIF) per il contrasto del riciclaggio . Sulla base di questi due documenti ufficiali del Vaticano, è iniziata una collaborazione da parte dell’AIF con la Banca d’Italia e con la Magistratura romana . Uno dei risultati sarà il dissequestro ordinato dalla la Procura di Roma di 23 milioni di euro dello IOR. Dopo il dissequestro lo IOR ha trasferito alla banca americana Jp Morgan di Francoforte il denaro dissequestrato.

Nella sua opera “Caritas in Veritate”, Benedetto XVI aveva cercato in qualche di imbrigliare e far convivere la fede con gli spiriti animali del capitalismo scrivendo che: “Anche se le impostazioni etiche che guidano oggi il dibattito sulla responsabilità sociale dell’impresa non sono tutte accettabili secondo la prospettiva della dottrina sociale della Chiesa, è un fatto che si va sempre più diffondendo il convincimento in base al quale la gestione dell’impresa non può tenere conto degli interessi dei soli proprietari della stessa, ma deve anche farsi carico di tutte le altre categorie di soggetti che contribuiscono alla vita dell’impresa: i lavoratori, i clienti, i fornitori dei vari fattori di produzione, la comunità di riferimento. Negli ultimi anni si è notata la crescita di una classe cosmopolita di manager, che spesso rispondono solo alle indicazioni degli azionisti di riferimento costituiti in genere da fondi anonimi che stabiliscono di fatto i loro compensi. Anche oggi tuttavia vi sono molti manager che con analisi lungimirante si rendono sempre più conto dei profondi legami che la loro impresa ha con il territorio, o con i territori, in cui opera”. In un altro passaggio della “Caritas in veritate” Bendetto XVI scriveva che “Tutto questo – va ribadito – è valido anche oggi, nonostante che il mercato dei capitali sia stato fortemente liberalizzato e le moderne mentalità tecnologiche possano indurre a pensare che investire sia solo un fatto tecnico e non anche umano ed etico. Non c’è motivo per negare che un certo capitale possa fare del bene, se investito all’estero piuttosto che in patria. Devono però essere fatti salvi i vincoli di giustizia, tenendo anche conto di come quel capitale si è formato e dei danni alle persone che comporterà il suo mancato impiego nei luoghi in cui esso è stato generato. Bisogna evitare che il motivo per l’impiego delle risorse finanziarie sia speculativo e ceda alla tentazione di ricercare solo il profitto di breve termine, e non anche la sostenibilità dell’impresa a lungo termine, il suo puntuale servizio all’economia reale e l’attenzione alla promozione, in modo adeguato ed opportuno, di iniziative economiche anche nei Paesi bisognosi di sviluppo. Non c’è nemmeno motivo di negare che le delocalizzazione, quando comporta investimenti e formazione, possa fare del bene alle popolazioni del Paese che la ospita. Il lavoro e la conoscenza tecnica sono un bisogno universale. Non è però lecito delocalizzare solo per godere di particolari condizioni di favore, o peggio per sfruttamento, senza apportare alla società locale un vero contributo per la nascita di un robusto sistema produttivo e sociale, fattore imprescindibile di sviluppo stabile”.

Le dimissioni di Benedetto XVI, un fatto storico e clamoroso, confermano una delle partite più dure che si siano mai combattute in Vaticano nell’epoca contemporanea (quella moderna ci ha consegnato episodi ben più clamorosi e sanguinosi). Il Papa che si definisce stanco “nel corpo e nell’animo” tanto da non poter “governare la barca di San Pietro” e dunque si dimette, lo riconsegna ad una dimensione umana che lo sottrae alla sfera del “divino”. Per i fedeli è un trascinamento – loro malgrado – nella modernità. Per gli atei, gli agnostici, i laici è la conferma che nella società il “dio denaro” rivela ancora una maggiore capacità di persuasione sulle anime degli umani rispetto alla fede religiosa. Il punto è proprio questo: è una crisi complessiva della civiltà capitalista in occidente e dei suoi modelli dominanti.

 

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