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Analisi del voto e vecchi fantasmi

È così anche stavolta, in occasione di un’analisi sociologico del voto di febbraio.

Non riassumiamo l’articolo, perché ve lo proponiamo qui di seguito. Interveniamo direttamente sulla lettura dei dati.

La “scossa” è stata davvero violenta e segnata da un rifiuto della classe politica fin qui dominante, delle sue pratiche, del suo cinismo. Lo sforzo di creare un bipolarismo forzoso – sostenuto acriticamente anche da Repubblica – ha prodotto un ovvio risultato abnorme: l’impossibilità di distinguere davvero, sul piano dei programmi politici, i due schieramenti principali. Nella percezione popolare centrodestra e centrosinistra si differenziavano soltanto per gli scandali berlusconiani, contro cui il Pd cercava di rappresentare la “faccia seria” del far politica di governo. Anche qui Repubblica ha avuto un grande ruolo nella costruzione di un immaginario di centrosinistra svuotato di ogni contenuto concreto e popolato solo di “senso morale”. Frantumato defintivamente con lo scandalo MontePaschi.

Non può dunque stupire che grosse quote di entrambi gli schieramenti, abbindolate per anni con promesse elettorali regolarmente smentite alla prova di governo, abbiano colto esattamente questo (basso) livello di critica del malaffare politico come l’unico problema del paese, quello che “impedisce” uno sviluppo economico e sociale. Del resto, se il sistema economico (il capitalismo) è descritto come esente da pecche strutturali, se le crisi sono sempre descritte come effetto di “devizioni” dalla leggi di mercato e ruberie individuali (delle banche, dei politici, delle mafie, ecc), è una conseguenza necessaria che sei anni di peggioramento costante delle condizioni e delle aspettative di vita debbano trovare una spiegazione semplice quanto deviante: c’è qualcuno che ruba e sono i politici.

Che i politici facciano da sempre un uso disinvolto del denaro pubblico, è certo. Ma la quantificazione di queste ruberie, degli “sprechi”, anche nei calcoli più arcigni e malevoli, difficilmente raggiunge il 2% del prodotto interno lordo (che viaggia, in Italia, intorno ai 1.500 miliardi annui). Un po’ poco per “spiegare” la crisi, anche se decisamente troppo per una classe che non è affatto “dirigente”, priva com’è – da oltre venti anni – di qualsiasi velleità “dirigente” o “dirigista”. E che si è distinta soltanto per la supina acquiescenza alle direttive europee, col brillante risultato di smontare la proprietà pubblica di industrie strategiche e banche, mentre i competitor principali – Germania, Francia e Gran Bretagna – se ne guardavano bene.

Comunque sia, il “rifiuto della politica” ha inevitabilmente preso la scorciatoia classica: “sono tutti uguali”. E a beneficiarne è stato il Movimento 5 Stelle.

Contrariamente a quanto Diamanti scrive, però, il grillismo non ha affatto una “base sociale” o territoriale definita. Anzi, proprio l’indeterminatezza del messaggio “costruttivo” (i 20 punti del programma) e l’ossessiva semplicità di quello “distruttivo” (“mandiamoli tutti a casa”) è stata fin qui la chiave della resistibile ascesa di Beppe Grillo & co. Un dispositivo comunicativo che è pensato per “sciogliere” quallsiasi legame collettivo, lavorativo, territoriale; che si rivolge all’indiciduo “semplice”, prima di qualsaisi altra determinazione concreta, sociale, storica. Si rivolge insomma al “consumatore frustrato”, costretto a fare un acquisto (anche elettorale) ma perseguitato dal sospetto che ci sia una fregatura.

In questo non c’è alcuna somiglianza con l’interclassismo della Democrazia Cristiana, che invece riconosceva le differenze “di classe” ma le “ricomponeva” all’interno di un quadro sistemico ed ideologico in cui ad ognuna veniva riconosciuto un ruolo, una funzione, un’adeguata retribuzione.

Per questo, dunque, l’ideologia grillina ha una grande potenza semplificatrice e quindi nessuna potenzialità “costruttiva”. Il M5S “raccoglie” uno stato d’animo, ma non rappresenta ceti e classi. Ha più punti di contatto con una visione “tecnica” del funzionamento della società (per quanto illusoria) che non con una visione critico-politica.

E risulta quindi paradossale – ancorché “renziano” – il suggerimento di Diamanti al Pd: “cambiare” per diventare più simile a Grillo

Destra e sinistra perdono il proprio popolo.
M5S come la vecchia Dc: interclassista

Mappe. Il voto ha segnato una svolta violenta, che modifica profondamente i confini fra politica, società e territorio. Con Grillo operai e lavoratori autonomi, addio legami di territorio. Il Pdl aveva il consenso delle piccole imprese, Bersani quello delle tutte blu. Entrambi lo hanno smarrito

di ILVO DIAMANTI

NON è una scossa isolata e occasionale. Le recenti elezioni segnano, invece, una svolta violenta. Che modifica profondamente i confini fra politica, società e territorio. Segno del cambiamento è, soprattutto, il voto al M5S. Il quale ha canalizzato gli effetti di due crisi, enfatizzate, a loro volta, dalla crisi economica.

La prima – a cui abbiamo già dedicato attenzione – colpisce il legame con il territorio. È resa evidente dallo “sradicamento” dei partiti principali nello loro zone “tradizionali”. Il Pd: in alcune province storicamente di sinistra. Nelle Marche e in Toscana, soprattutto. La Lega: nel Nordest, nella pedemontana lombarda e piemontese. Nelle province “forza-leghiste”, un tempo “bianche”. Democristiane. Infine, il PdL, che ha perduto, in misura superiore alla media, nelle Isole. Sicilia e Sardegna. Dove è forte, fin dalle origini.

Una geografia politica di lunga durata è mutata bruscamente e in modo profondo. Almeno quanto la struttura sociale ed economica del voto. È qui la seconda “crisi”, esplosa alle recenti elezioni, dopo una lunga incubazione. Centrosinistra e centrodestra hanno perduto la loro base sociale di riferimento. Il centrodestra, in particolare, aveva conquistato il consenso dei ceti produttivi privati. Gli imprenditori, ma anche gli operai delle piccole e medie imprese private. E gli stessi in-occupati. Aveva, inoltre, ereditato, dai partiti di governo della prima Repubblica, il consenso delle aree del Mezzogiorno maggiormente “protette” dallo Stato.

Il Centrosinistra e soprattutto il Pd si erano, invece, caratterizzati per il consenso elettorale garantito dai ceti medi tecnici e impiegatizi. I vent’anni della seconda Repubblica, in fondo, si riassumono in questa frattura sociale e territoriale. Marcata dalla “questione settentrionale” e dai soggetti politici che, più degli altri, l’hanno interpretata. La Lega e Silvio Berlusconi. La Destra popolare opposta alla Sinistra im-popolare. Sostenuta dai professionisti, gli impiegati (soprattutto “pubblici”) e gli intellettuali.

Ebbene, oggi il marchio della Seconda Repubblica appare molto sbiadito. L’identità sociale – per non dire di “classe” – delle principali forze politiche risulta sensibilmente ridimensionata.

Il centrodestra “popolare” ha perduto il suo “popolo” (lo ha rilevato anche Luca Comodo, sul Sole 24 Ore). Il suo peso, tra gli imprenditori e i lavoratori autonomi, rispetto alle elezioni del 2008, è pressoché dimezzato: dal 68 al 35%. Lo stesso tra gli operai: dal 53 al 26%. Mentre, fra i disoccupati, gli elettori di centrodestra sono calati dal 47 al 24% (indagini di Demos-LaPolis, gennaio-febbraio 2013).

Anche il centrosinistra e la sinistra si sono “perduti” alla base. Hanno, infatti, intercettato il voto del 35%, tra le figure “intellettuali”, il personale tecnico e impiegatizio: 12 meno del 2008. Del 32% dei liberi professionisti: 10 meno delle precedenti elezioni.

Centrodestra e centrosinistra, soprattutto, hanno smesso di costituire i poli alternativi per i lavoratori dipendenti e indipendenti, occupati e disoccupati. Perché, in queste elezioni, non hanno, semplicemente, cambiato profilo socioeconomico. Ma sono rimasti senza profilo. Cioè, senza identità. La base perduta da una delle due coalizioni principali della Seconda Repubblica, infatti, non si è rivolta all’altra. Gli operai – e i disoccupati – non si sono spostati a sinistra. Tanto meno – figurarsi – gli imprenditori e i lavoratori autonomi. I professionisti, gli impiegati e i tecnici, a loro volta, non si sono orientati a destra. I lavoratori “in fuga” si sono rivolti altrove. Hanno scelto il M5S. Per insoddisfazione – spesso: rabbia – verso le “alternative” tradizionali. Hanno votato per il soggetto politico guidato da Grillo.

Così, oggi, in Italia si assiste a una competizione politica singolare, rispetto a quel che avviene in Europa. Dove l’alternativa avviene – prevalentemente – fra Liberisti e Laburisti, Popolari e Socialdemocratici. Centrodestra e Centrosinistra. Che rappresentano, storicamente, lavoratori indipendenti e dipendenti. Imprenditori e operai oppure impiegati. Mentre oggi in Italia i due principali partiti, PdL e Pd, prevalgono, in particolare, tra le componenti “esterne” al mercato del lavoro. Il PdL: fra le casalinghe (36%). Il Pd: fra i pensionati (37%). Quelli che guardano la tivù…

Il M5S, invece, ha assunto una struttura sociale interclassista. Da partito di massa all’italiana. Come la Dc e il Pci della Prima Repubblica. Primo fra gli imprenditori e i lavoratori autonomi, fra gli operai (40%), ma anche fra i disoccupati (43%). Fra i “liberi professionisti” (31%) e fra gli studenti (29%) – dunque fra i giovani.
In più, ha un impianto territoriale “nazionale”. Distribuito in tutto il territorio.

Ciò induce a usare prudenza nel considerare il voto delle recenti elezioni come un evento violento, ma transitorio. Che è possibile riassorbire con strategie tradizionali. Attraverso grandi alleanze, tra vecchi e nuovi soggetti. Oppure integrando nell’area di governo gli “ultimi arrivati”. Non è così. Perché il retroterra stesso delle tradizionali forze politiche, dopo una lunga erosione, è franato. Le stesse fratture politiche che hanno improntato la Seconda – ma anche la Prima – Repubblica oggi non riescono più a “dividere” e ad “aggregare” gli elettori. Siamo entrati in un’altra Storia. I partiti “tradizionali”, per affrontare la sfida del M5S, non possono inseguirlo sul suo terreno. Blandirlo. Sperare di integrarlo. Scommettere sulla sua dis-integrazione. Al Pd, per primo. Non basta rinnovarsi, ringiovanire. Il Pd. Deve cambiare.

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1 Commento


  • Francisco

    Mi sento mancare… con tutte queste analisi finirò col diventare ipocondriaco, meno male che c’ho l’esenzione dal ticket, sennò ero già sul lastrico.
    Ma che dovevamo aspettare Diamanti, da sempre in forza PD nella corrente che si occupa della propaganda televisiva? Ospite d’onore di tutti i supporter giornalisti (soprattutto Rai3 e La7) che hanno tirato la volata a Grillo e al m5s, gli hanno fatto propaganda elettorale, senza la quale Grillo starebbe in vacanza oggi, e che si propongono come new entry negli incarichi ministeriali (Santoro, Gabanelli, Fo padre e figlio etc…).
    Le statistiche non sono analisi, il voto è stato chiaro, c’è poco da scoprire, la composizione dell’elettorato m5s è nota da sempre, diciamocelo una volta per tutte, e se vogliamo parlare di errori il più grande l’hanno fatto i “disinformati” snob che credevano che dal web potesse uscire tutto il nuovo che più nuovo e libero non c’è, mentre quei quattro gatti che strombazzavano dai blog avevano supporters in TV che gli facevano COSTANTE campagna e lettorale e propaganda.
    Viviamo una così perenne endemica distrazione ?

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