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Welfare italiano. Il meno costoso, il peggiore

E’ quasi divertente che “la scoperta” sia stata fatta dal Cergas, il centro ricerche della Bocconi, che evidentemente ha lavorato “all’insaputa” del suo ex rettore, Mario Monti, fra i principali sostenitori del luogo comune falsificatorio secondo cui «non ci possiamo più permettere» uno stato sociale così “generoso”.
Non è infatti vero nulla dal lato della spesa, inferiore – a volta di gran lunga – rispetto alla media europea. Naturalmente questo non significa affatto che andrebbe bene così com’è, magari aumentando un po’ la spesa. Perché il sistema scelto dall’Italia non è proprio il migliore possibile, in primo luogo. Anche perché dietro molte “inefficienze” si nasconde spesso la malapianta del clientelismo e della corruzione (prestazioni erogate agli “amici”,  mentre si lesinano per chi ne ha davvero bisogno e quindi diritto). Una specialità non solo italiana, ma che solo da noi ha queste inquietanti dimensioni.
Per l’analisi lasciamo volentieri la parola a un giornale insospettabile come IlSole24Ore. Per la prognosi, naturalmente, le soluzioni che a noi sembrano migliori sono profondamente diverse.

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Spesa per il welfare: ultimi della classe anche nella «qualità»

Gianni Trovati

Tra i fattori che hanno messo i nostri conti pubblici sul banco degli imputati, portandosi dietro il carico di un indebitamento record nel mondo, c’è uno stato sociale troppo generoso, cresciuto in tempi di finanza allegra, che oggi «non ci possiamo più permettere».
Questo luogo comune è un classico nelle analisi sulla spesa pubblica italiana, ha una circolazione sempre più diffusa in questi tempi del rigore, ma non regge alla prova dei numeri. A metterli in fila è il Cergas, il centro ricerche della Bocconi sulla gestione dell’assistenza sanitaria e sociale, che ha messo a confronto la carta d’identità del welfare italiano con i sistemi di Gran Bretagna, Francia e Germania: mostrando che chi cercasse le cause della nostra sofferenza nel peso eccessivo delle prestazioni sociali sul bilancio pubblico sarebbe decisamente fuori strada.
Nell’analisi si può partire dalle conclusioni. Rispetto al welfare dei grandi Paesi europei, lo stato sociale italiano si rivela più leggero, ma non è solo la quantità assoluta della spesa a minarne l’efficacia. All’interno delle disponibilità, infatti, il sistema italiano spesso mostra una decisa preferenza per gli automatismi che permettono di “non scegliere” chi beneficiare, con il risultato che le risorse finiscono per essere spalmate su una platea più ampia di soggetti: la strada, insomma, è quella del «poco a tanti», che non permette però di misurare gli interventi sulla base del livello di bisogno dei singoli.
Le conclusioni a cui arrivano gli studiosi della Bocconi si basano naturalmente sui numeri, che nel confronto parlano da soli.
Tra i quattro grandi Paesi, l’Italia è l’unico che non destina al welfare la maggioranza della propria spesa pubblica: ogni 100 euro che escono dal bilancio di Stato ed enti territoriali, sono 45 quelli indirizzati alle prestazioni sociali, meno dei 50,6 della “liberista” Gran Bretagna, e lontanissimi dai 58,5 euro della Francia e dai 63,3 della Germania. Una parte di questa differenza è dettata naturalmente dal peso del servizio al debito, che da noi assorbe il 9,5% della spesa pubblica (i dati sono del 2011), contro il 4,7% della Francia e il 5,7% della Germania. Il nostro maxi-debito spiega però solo in parte il problema, anche perché sono le «altre funzioni», dalla scuola ai consumi, ad assorbire il 45,5% della spesa contro il 36,8% della Francia e il 31,1% della Germania. Tradotto in cifre, ogni italiano “riceve” in media dal welfare 5.917 euro all’anno, il 59% dei 10.011 euro indirizzati a ogni francese, e lontano anche dai 9.008 euro riservati ai tedeschi e dei 7.303 euro dei cittadini del Regno Unito.
Certo, tedeschi e francesi possono pescare da un Pil che vale rispettivamente il 122% e il 118% del nostro, ma anche in rapporto alla ricchezza totale la spesa che l’Italia dedica al sistema sociale è inferiore a quella dei “concorrenti”.
Insomma, la dote è inferiore, e anche nella sua distribuzione mostra più di una particolarità che la distingue dagli altri modelli europei. A parte il caso limite delle politiche di sostegno all’abitazione, che da noi sono praticamente assenti (6 euro all’anno a cittadino, contro i 262 euro della Francia), in tutti i confronti gli interventi italiani appaiono più leggeri.
«Il dato – sottolinea Giovanni Fosti, responsabile servizi sociali e socio-sanitari del Cergas – si riscontra anche guardando ai soli beneficiari. Nella non autosufficienza, per esempio, la maggior parte degli interventi si traduce in indennità di accompagnamento, configurando un sistema che non concentra le risorse su chi ha le esigenze maggiori ma tende a spalmarle su una platea estesa. In questo quadro si smentisce anche il mito secondo cui diamo troppi servizi erodendo la libertà degli utenti, perché siamo il Paese che più degli altri predilige la strada dell’intervento finanziario anziché di quello in servizi».
A concludere la serie dei miti in frantumi c’è poi quello del progressivo trasferimento sul territorio dell’impegno nel sociale: per l’assistenza a lungo termine, per esempio, nel nostro federalismo “teorico” solo 56 euro a cittadino sono a carico degli enti territoriali, cioè il 10% della dote complessiva: meno anche della centralista Francia (18%), per non parlare dei Paesi veramente federalisti come la Germania (30%).

da IlSole24Ore

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