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La Commissione ordina, Monti esegue

Mentre “la politica” (intesa come gruppo di professionisti al servizio dei poteri che comandano) è completamente in stallo a causa dei risultati elettorali e della propria inconsistenza, “il governo” del paese resta tranquillamente in mano alla Troika.

Monti e la sua squadretta di demolitori del paese hanno parttorito ieri il Def (documento di economia e finanza), primo passo dell’iter che porterà in dicembre alla “legge di stabilità” (prima si chiamava “legge finanziaria”, e consentiva movimenti – a volte persino positivi – che la “stabilità” invece tende a impedire).

Contemporaneamente, la Troika – temendo che lo stallo politico e soprattutto l’ostinato “parlar d’altro” della compagnia di giro Grillo-Napolitano-Bersani-Berlusconi-Renzi, ecc – è tornata a far sentire la sua pressione, in modo da riportare ordine sulle scelte davvero politiche da fare: quelle che riguardano l’assetto del paese, gli orientamenti della spesa pubblica, i rapporti tra imprese e lavoro, il carico fiscale, ecc.

Partiamo da chi comanda davvero.

La Commissione europea ieri ha “riscoperto” che l’Italia presenta molte “debolezze”: perdita di competitività dell’economia, forte indebitamento dello stato, fragilità del settore bancario.

Il tutto è contenuto in un rapporto sugli squilibri macroeconomici nell’Unione, che contiene anche un giudizio negativo sulle possibilità di evoluzione della situazione. Viene visto infatti come “consistente” il rischio di un “potenziale contagio economico e finanziario” che parte dall’Italia e si diffonde a tutta la zona euro. Siamo peraltro in buona e numerosa compagnia. I paesi con “squilibri seri” sono, secondo la Ue, Belgio, Bulgaria, Danimarca, Francia, Malta, Ungheria, Olanda, Finlandia, Svezia, Regno Unito. Altri due, Spagna e Slovenia, ne hanno invece di “eccessivi”. Silenzio assoluto invece sulla Germania, che ha un elevato surplus delle partite correnti; ovvero è il paese che sta guadagnando sull’arretramento altrui (quasi tutti gli altri paesi).

Non basta. “Nonostante siano state adottate nell’ultimo anno misure importanti per risolvere questi squilibri, la loro piena adozione rimane una sfida. Vi è ancora margine per introdurre ulteriori misure in alcuni campi. Nel frattempo, il perdurare della crisi ha indebolito l’abilità del settore bancario italiano di sostenere il necessario aggiustamento economico”. Anzi. Non basta mai. E provabilmente – come anticipato qualche giorno fa dall’a.d. di Unicredit, Ghizzoni, ci sarà necessità di “salvare qualche banca”, anche mettendo mano nei conti correnti, come a Cipro.

Il Pil italiano, del resto, dal 2008 a oggi ha perso oltre il 7%, mentre soltanto la Germania e pochi altri paesi sono tornati ai livelli pre-crisi. Ma naturalmente “una importante fonte di vulnerabilità” viene individuata nel debito pubblico, non nella scarsa capacità del sistema bancario di sostenere le attività produttttive. E quindi una delle raccomandazioni principali resta la riduzione del debito statale, il che – come sanno anche gli asini – contribuisce seriamente alla riduzione del Pil, del benessere generale dei cittadini e quindi va in senso contrario alla “crescita”.

Non è finita ancora. “Siccome l’aumento stagnante della produttività non si è riflesso pienamente nelle dinamiche salariali, la competitività dei costi dell’Italia si è deteriorata, come dimostrato dall’incremento dei costi unitari del lavoro in rapporto ai vicini europei”. In pratica, dice la Commissione Ue, avete una produttività che fa pena (tradotto: avete imprese che fanno pochi investimenti fissi, ma puntano soprattutto sullo sfruttamento intensivo del lavoro vivo), e quindi avreste dovuto per prima cosa tagliare i salari. Ricetta infame sul piano sociale, ma anche idiota su quello economico (basta leggere qui sotto l’articolo che parla di Stiglitz). Perché se chi lavora guadagna ancora meno, spenderà ancora di meno; e la riduzione dei consumi non può che impattare sulle possibilità delle imprese di vendere quel che producono. In una spirale negativa che viene chiamata “deflazione”.

L’unica cosa seria del documento Ue è la constatazione che le imprese italiane sono troppo piccole (poca economia di scala, quindi inefficienza generale del sistema) e sorpattutto specializzate in prodotti “a bassa intensità di capitale” (se non si investe, non si innova), che sono ormai appannaggio dei paesi emergenti.

Le banche italiane, infine, risultano gravate da “uno stock importante di sofferenze creditizie”, ovvero prestiti che fanno “fatica” a essere restituiti. E come compensano questa “sofferenza”? Aumentando i tassi di interesse sui nuovi prestiti, in modo da guadagnare di più su ogni singolo prestito. Ma così facendo restringono l’accesso al credito proprio per le imprese che più ne hanno necessità. Quindi anche le banche in crisi, che reagiscono aumentando il costo del denaro in una situazione recessiva, contribuiscono da parte loro ad aggravare la recessione. Il contrarioi di quel che comunemente ci si aspetta dal sistema bancario.

L’elenco delle indicazioni prescrittive per l’Italia, sommariamente definito dalla Commissione, è un ricettario di “sacrifici” che possono solo ammazzare un ammalato di denutrizione: “rafforzare la concorrenza nei mercati dei prodotti e dei servizi, adottare un sistema fiscale più semplice, riformare la pubblica amministrazione, decentralizzare ulteriormente le contrattazioni salariali, rafforzare il sistema bancario”. Soltanto la semplificazione del sistema fiscale potrebbe figurare tra le misure “intelligenti”; ma se si va a guardare in dettaglio – ed è indispensabile farlo – si scoprirà che si tratta di una rimodulazione della pressione fiscale a totale vantaggio delle imprese e quindi, complessivamente, in un aumento della pressione fiscale sul lavoro (magari mascherata col passaggio dall’imposizione diretta – sul reddito – all’imposizione indiretta – tramite aumento dell’Iva, sulle merci, e quindi sui consumi).

Di tutta questa impostazione Monti è da un anno e mezzo l’esecutore testamentario. E sta limando i testi relativi sia il nuovo “piano di stabilità” che il nuovo “piano nazionale delle riforme”, che vanno entrambi presentati entro la fine del mese.

Il consiglio dei ministri, ieri, ha varato il Documento di economia e finanza 2013. Le previsoni lì contenute sono come sempre abbastanza “ottimistiche”, ma egualmente tragiche: il debito pubblico salirà al 130,4% sul Pil, per “scendere” al 129,0% l’anno successivo e al 125,5% nel 2015. Il deficit scenderà invece al 2,9% quest’anno per arrivare all’1,8% nel 2014 e all’1,5% nel 2015. E’ da sottolineare che per Francia e Germania, invece, la Ue ha chiuso entrambi gli occhi davanti a cifre assai superiori.

Il solo gettito Imu dovrebbe garantire entrate di 23,8 miliardi l’anno, sia per quello in corso che per il prossimo. Nel presentare questi dati, il ministro Grilli ha teso a precisare che «Solo se l’Imu sarà confermata anche dopo il 2014 potrà essere garantito il pareggio di bilancio». Insomma, Berlusconi spara cazzate a raffica e ne è consapevole.

In compenso, il raffreddamento dello spread dovrebbe far risparmiare 7,7 miliardi in spesa per interessi, che comunque rappresenterà il 5,3% del Pil quest’anno, crescendo rapidamente negli anni successivi. La spesa pubblica totale crescerà dunque dello 0,4% (51,1% del Pil), nonostante i tagli abnormi già realizzati e gli altri in cantiere. Sprofonda quindi la spesa per investimenti fissi, mentre la spending review promette circa 30 miliardi di risparmi nel triennio 2012-2015.

Il “Piano nazionale di riforma”, invece, promette lacrime e sangue in misura crescente. Senza contare la “semplificazione del sistema fiscale” (vedi sopra), la continua “revisione della spesa” richiesta dai trattati europei, dal fiscal compact in giù, è prevista l’accelerazione riguardo alle dismissioni del patrimonio immobiliare pubblico (in una situazione di calo dei prezzi sul mercato immobiliare si tratta di una svendita in favore dei palazzinari). Non mancheranno inoltre misure tese a “rafforzare il decentramento della negoziazione salariale”, abolendo il già molto precario “contratto nazionale di categoria”.

È una strategia chiarissima: che poveri e lavoratori si fottano, il loro reddito serve al “sistema”. Se non ci ribelliamo, se lo prenderanno per intero.

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