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«Con Letta l’agenda Monti non cambierà»

Il sociologo torinese pessimista sulla recessione e su un ripensamento dell’Europa: «Servirebbe un New Deal, o almeno fare come ha fatto Obama. Purtroppo al governo non vedo spiragli, se continua così tocca emigrare».
Sarà perché al ministero del lavoro oggi c’è qualcuno che riesce a leggere i numeri della macroeconomia, come il presidente dell’Istat Enrico Giovannini, ma sembra che in Italia ci sia un governo che si è accorto che «siamo in recessione da un anno». La notizia non è certamente confortante, ma una tale schiettezza nel riconoscere fatti, universalmente noti alle famiglie impoverite o al 38,4% dei giovani disoccupati tra i 15 e i 24 anni, mancava dal 2008. Quando cioè la crisi è iniziata e sui colli romani folleggiava Silvio Berlusconi. Da allora, purtroppo, la capacità di fare un’analisi economica onesta non è migliorata.
«È troppo presto per trarre dei giudizi sul nuovo governo – afferma Luciano Gallino, l’autore di Finanzcapitalismo – ma mi ha colpito questa idea di riformare la riforma Fornero che dicono sia stata concepita per un periodo di crescita dell’economia e oggi, con la recessione, bisogna cambiarla perché presenta alcune rigidità che compromettono la ripresa dell’occupazione. Il problema è che eravamo in recessione anche dieci mesi fa, quando la riforma è stata approvata. Mi chiedo a questo punto che senso abbia avuto approvarla».
Basta modificare le norme sul contratto a termine e quelle sull’apprendistato per dare una risposta alla disoccupazione giovanile?
Dubito che questa riforma abbia avuto, fino ad oggi, degli effetti, tanto meno su questo aspetto. Si tratta di un testo complesso e aggrovigliato difficile da capire per i giudici del lavoro figuriamoci per i non specialisti. In questo paese c’è l’abitudine a leggere l’andamento del mercato del lavoro attraverso le norme che dovrebbero regolarlo. Come se una legge avesse il potere di creare le premesse per una domanda di lavoro che al momento non esiste. Questa riforma ha avuto un impatto importante dal punto di vista simbolico perché ha smantellato l’articolo 18. È stata una lesione seria non solo del diritto del lavoro, ma al suo valore civile. Per questo mi sembra marginale il fatto che abbia irrigidito i criteri dei contratti a termine per evitarne l’abuso. Ho l’impressione che se non lo avesse fatto le imprese avrebbero continuato a non assumere.
Sempre stando ai «si dice», si procederà ad abbassare il costo del lavoro. Cosa ne pensa?
Non vorrei che questa insistenza sulla riduzione delle tasse sul lavoro corrisponda ad una nuova riduzione delle pensioni, della sanità o della cassa integrazione. Temo che qui ci sia una confusione tra le tasse e i contributi versati per la protezione sociale che hanno già subito gravi tagli. Se così fosse, sarebbe grave perchè oltre al salario diretto, si taglierebbe anche il salario differito. E tutto questo nel rispetto della credenza neo-liberista secondo la quale sembra che la sanità o le pensioni siano pagate dallo Stato. Questo non è vero assolutamente. Più del 50% viene da chi lavora e dalle imprese. Senza contare che questi redditi sono soggetti all’Irpef. Allo Stato vengono restituiti decine di miliardi ogni anno con questa imposta.
Ma qual è allora il vero motivo di questa disoccupazione?
Le imprese non assumono perchè non c’è domanda di lavoro, e non investono perchè non si produce. Se ci fosse una domanda allora assumerebbero e farebbero investimenti. Legge o non legge, non fanno nulla perchè produrre e lasciare le merci in un magazzino non fa parte del loro codice azionario.
Per l’Ocse il decit nel 2013 salirà al 3,3% e il debito aumenterà al 134% nel 2015. è l’attestazione del fallimento dell’austerità e dei partiti che l’hanno sostenuta fino a ieri. Come spiega questo fallimento?
Ricordiamoci che l’Ocse è sin dagli anni 80 uno degli attori più efficaci nella promozione dell’economia neoliberale di cui Monti è stato un diligente interprete. Letta mi sembra un po’ più contrastivo, ma al fondo condivide l’impianto di quella che è stata definita «agenda Monti». Quella in atto con l’Ocse è al massimo di una disputa sulle modalità della sua applicazione tra soggetti che condividono gli stessi principi e la stessa ideologia. Inoltre i tre decimali in più o in meno dipendono dalle statistiche o dei metodi usati. Il vero problema è che le politiche che continueranno ad essere applicate hanno già fatto contrarre di sei punti il Pil dal 2007. Anche se le spese restassero stabili, il deficit aumenterebbe lo stesso perché il denominatore comune diventa sempre più piccolo. In questo modo ogni anno mancheranno 8 o 10 miliardi di euro. In realtà c’è anche un altro nodo.
Quale?
Il patto fiscale che Monti e la sua maggioranza hanno approvato in due ore in parlamento, come se fosse una bagatella. L’Italia ha inserito nella Costituzione la regola che le imporrà di ridurre 50 miliardi di debito ogni anno, per vent’anni consecutivi. Molti di coloro che siedono in parlamento non si rendono conto di cosa significhi. Forse non sapevano di cosa si trattava oppure hanno sottovalutato il fatto che tagli di queste proporzioni, oggi, significano una sola cosa: la condanna alla miseria.
Da tempo lei propone un «New Deal» a livello europeo, che dovrebbe far ripartire la crescita. In cosa consiste?
È una proposta avanzata anche da un’economista in fondo liberale come Krugman. I governi seriamente contrari all’austerità dovrebbero presentarsi davanti all’Unione Europea e chiedere alla Bce un prestito di 100-200 miliardi di euro, organizzando un’agenzia per l’occupazione, finanziando interventi nelle opere pubbliche e interventi di alta utilità sociale come il riassetto idrogeologico. In fondo è quello che ha fatto Obama che ha presentato un piano fiscale insieme allo stanziamento di 140 miliardi di dollari con i quali tra l’altro ha ristrutturato 35 mila scuola e ha garantito l’impiego a oltre 200 mila insegnanti.
L’attenzione va alle banche che non riescono a finanziare l’economia reale. Non le sembra irresponsabile tenere nascosto il circolo vizioso in cui siamo?
Non so più che altro dire. Ho già scritto due libri, ne sto scrivendo un terzo. Non mi resta che emigrare.
Ha già idea su dove andare?
Per il momento ho preparato la pratica. Sta qui sulla scrivania.

da “il manifesto”

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