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Tagli e prelievi fiscali. Tutta qui la strategia del governo

Basta chiacchiere, ora si fa sul serio. L’intervista del Corsera al ministro dell’economia Saccomanni – un grande “tecnico”, con una vita di onorata carriera in Banca d’Italia – non lascia molto spazio alla fantasia e alemno ha il pregio di parlare senza peli sulla lingua. L’unico neo è quella notazione speranzosa sui “segnali positivi” che afferma di intravedere, come sempre “nella seconda metà di quest’anno”, nonostante tutti gli organismi internazionali e gli studi delle agenzie di rating dicano esplicitamente il contrario. Ma si sa, se si toglie anche la speranza un governo ha le ore contate.
Saccomanni dice due cose chiare: faremo tagli “non indolori” alla spesa pubblica e aumenteremo le entrate. Nell’orizzonte descritto dai vincoli di Maastricht, dl resto, non ci sono margini per fare altro. Con l’entrata in vigore del Fiscal Compact, il prossimo anno, le cose andranno anche peggio, obbligando l’esecutivo italano – da chiunque formato – a tagliare almeno 50 miliardi ogni anno per i prossimi venti anni. Un programma di impoverimentoche dovrebbe riportarci al livello degli anni ’50, in modo da renderci nuovamente “competitivi” sul costo del lavoro rispetto ai paesi “emergenti” (di seconda fila).
Naturalmente “tagli non indolori” significa anche proteste sociali, e Saccomanni (l’intero governo) ha messo nel conto anche queste. Ergo, o le proteste saranno (notevolmente) superiori alle loro attese, oppure il recinto già predisposto consentirà di farle “smorzare” in tempi più o meno rapidi senza veri effetti sulla strategia economica dell’esecutivo e della Troika (Bce, Ue, Fmi).

L’altra notizia viene invece dalle “indiscrezioni” lasciate filtrare sempre dal ministero dell’economia: si pensa a un “prelievo” su pensioni d’oro e redditi equivalenti. La motivazione è naturalmente “positiva” (“ridurre le disparità”), ma l’obiettivo è più prosaico: aumentare le entrate. L’articolo de Il Sole è abbastanza chiaro. E non spenderemo certo una lacrima per chi percepisce più di 90.000 euro annui (lordi; ovvero più o meno sopra i 4.000 netti al mese). Ma anche prelevando molto, si tratta di una platea abbastanza ristretta numericamente, così che la “cassa” effettiva non sarà poi particolarmente piena.
Rispunta perciò nelle pieghe di altre dichiarazioni – come quelle di Giovannini, ministro del lavoro e delle politiche sociali,  l’idea di tornare a intervenire sulle pensioni di quanti – nonostante la Fornero – prima o poi dovranno lasciare il lavoro. L’idea è quella di permettere l'”uscita anticipata” in cambio di una penalizzazione sull’assegno mensile.
Qui il disegno criminale avviato a suo tempo da Lamberto Dini (primo autore di una “riforma” pensionistica, nel 1995-6, e forse per questo premiato con la pensione più alta d’Italia…) giunge a compimento. Prima ti alzano l’età pensionabile (di una decina d’anni, a conti fatti, da allora a oggi), poi ti dicono che, se proprio non ce la fai più, puoi staccare, ma rimettendoci.
Quanto? Cifre non ne vengono fatte, ma un esempio concreto può venire dal pubblico impiego, dove un meccanismo del genere è già in funzione. Per chi lascia il lavoro – anche un solo anno prima – il conteggio dell’importo viene fatto con il metodo “contributivo” per l’intera carriera lavorativa, anche se sei un lavoratore che avrebbe maturato storicamente il diritto all’applicazione del metodo “retributivo”. La differenza è notevole, qualche centinaio di euro al mese, che per i redditi medio-bassi significa scendere dalla soglia della sopravvivenza a quella della povertà assicurata. In più, per ogni anno che manca alla fatica “età pensionabile”, scatta un ulteriore taglio percentuale dell’assegno. Si tratta insomma di una sorta di “comma 22” (da una famoso film contro la guerra in Vietnam), per cui se non ce la fai più a lavorare puoi andare in pensione, ma se ci vai a quelle condizioni non ce la fai a sopravvivere. Qualsiasi scelta farai, sarà contro te stesso.
Di questa pasta sono fatti i nostri “governanti conto terzi”. Spazzari via è una precondizione per cominciare a ragionare…

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«Il mio piano per tagliare le spese: si intravedono segnali positivi»

Antonella Baccaro

Ridurre la spesa pubblica prima di tutto. E poi verificare gli effetti di quella manovra a «costo zero» che il governo ha realizzato bloccando la prima rata dell’Imu sulla abitazione principale, impedendo l’incremento dell’Iva al 22%, offrendo incentivi sulle ristrutturazioni edilizie e aiuti alle zone colpite dal sisma.

Il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, non raccoglie gli attacchi di cui è stato fatto oggetto in questi giorni e scommette su una ripresa nella seconda metà dell’anno. I primi segnali ci sono già, osserva. E sui pagamenti della Pubblica amministrazione dice che una verifica sugli effetti verrà fatta a settembre: allora sarà possibile decidere se ci sono margini per ulteriori pagamenti rispetto a quelli già previsti.

Ministro Saccomanni, un anno fa la riforma Fornero diventava legge, il premier Mario Monti annunciava la spending review e lo spread era sopra i 400 punti. Oggi a che punto è il Paese?
«Ieri si è chiusa formalmente la procedura d’infrazione. Sul piano della credibilità abbiamo consolidato i progressi fatti dal governo Monti. Ma la credibilità non è qualcosa che si acquisisca per sempre, va alimentata tutti i giorni».
Non si può vivere di sola politica del rigore.
«Abbiamo un debito pubblico elevato che va onorato, perché ogni anno emettiamo 400 miliardi di titoli. Un obbligo che sarebbe lo stesso se non fossimo nell’Ue e non ci fosse il Fiscal compact, anzi sarebbe peggio, perché l’Italia dovrebbe conquistarsi da sola la credibilità sui mercati. Sappiamo che non basta: vogliamo rilanciare l’economia riducendo le tasse su lavoro e imprese. Non possiamo farlo aumentando il debito, quindi dobbiamo ridurre le spese, cosa che tutti i governi hanno provato a fare».
In che modo intendete ridurre la spesa?
«Il primo, più dannoso in fase recessiva, è ridurre gli investimenti, cosa che è stata fatta per molti anni. Noi vogliamo ridurre le spese correnti ma non è un lavoro che consenta nel giro di poche settimane di reperire miliardi di euro come se avessimo la bacchetta magica».
Perché?
«È il paradosso della spesa pubblica: sembra che non ci sia niente da tagliare su un totale di 800 miliardi del 2013, 725 al netto degli interessi. Tolti i redditi da lavoro, le prestazioni sociali, le altre spese correnti, quelle in conto capitale, gli interessi e il rimborso dei debiti, il totale su cui si può lavorare ammonta a 207 miliardi. Una cifra che è già calata dello 0,5% rispetto al 2012 e ben dell’8,5% rispetto al 2009».
La cura Monti ha funzionato?
«Molto è stato fatto con la revisione della spesa iniziata con Tommaso Padoa-Schioppa. Lo scorso governo si è concentrato sull’analisi e la valutazione della spesa ma ha avuto una battuta d’arresto con la crisi politica e la fine della legislatura».
Come pensate di organizzarvi e in che tempi?
«Riconvocheremo il comitato interministeriale per il controllo della spesa e avremo un commissario straordinario. Porteremo avanti il lavoro di Monti ma esamineremo l’intera strategia e le procedure operative. Ad esempio i costi standard sono stato già applicati sulla spesa sanitaria ma non quella delle Regioni a statuto speciale. Serve un intervento».
In che tempi?
«Agiremo con la collaborazione di tutti i diretti interessati: dai ministeri alle Regioni. C’è un nuovo Ragioniere generale, che viene da Banca d’Italia: Daniele Franco ha una profonda conoscenza di finanza ma anche di tecniche informatiche. Analizzeremo i tipi di spesa su cui intervenire più rapidamente, ma sia chiaro che tagli indolori non esistono».
Riprendete il lavoro di consulenti come Francesco Giavazzi?
«Certo. Ma nessuno s’illuda che vengano fuori spese misteriose da tagliare senza che nessuno protesti. Bisogna scandagliare settore per settore. Insomma non è possibile ridurre la spesa del 10% con un tratto di penna. E ci vuole tempo».
Nel frattempo il Paese è bloccato.
«Vorrei ricordare che abbiamo vissuto una fase di prolungata stasi politica, durata, a essere caritatevoli, almeno sei mesi, fino al maggio 2013. Questa stasi ha avuto un effetto paralizzante su investitori, consumatori e banche. Mi piacerebbe che se ne tenesse conto quando si giudica il lavoro che abbiamo fatto in 60 giorni».
Ma dopo la stasi, a maggior ragione il Paese chiede segnali positivi.
«I segnali positivi ci sono ma a volte le polemiche, anche dentro la coalizione, finiscono per dare l’impressione che la situazione continui a peggiorare. Non è così: il livello della produzione industriale si è stabilizzato. I dati di Confindustria segnalano un lieve recupero dell’attività in maggio. E poi ci sono i dati sulle aspettative delle imprese manifatturiere, i consumi elettrici aumentati, come il gettito dell’Irpef».
Non è ancora troppo poco?
«Gli impegni presi sui pagamenti della Pubblica amministrazione, gli incentivi per le ristrutturazioni, la rata Imu non pagata, il mancato aumento dell’Iva, i fondi per la cassa integrazione in deroga, quelli anticipati alle amministrazioni regionali, lo sblocco dei versamenti per il sisma, l’accelerazione nell’uso dei fondi strutturali, tutti questi interventi compongono una importante manovra di stimolo all’economia realizzata senza aumentare debito, in alcuni casi ricollocando fondi stanziati per altre finalità. Si tratta di una serie di misure-ponte che servono a guadagnare tempo: da un lato per il ridisegno della fiscalità e la revisione della spesa, dall’altro per l’alleggerimento del peso che grava sull’economia nel breve periodo, in attesa che si materializzino gli effetti delle misure adottate e si avvii la ripresa».
Rispetteremo il vincolo del 3%?
«Certo. Confidiamo nella ripresa nell’ultima parte dell’anno e in una riduzione della spesa per interessi sul debito pubblico rispetto alle previsioni. Tutto questo non deve farci dimenticare che abbiamo utilizzato uno 0,5% per pagare i debiti e siamo così vicini al tetto del 3% del rapporto deficit/Pil. Bisogna perciò fare attenzione e muoversi con cautela».
Per questo avete caricato il mancato taglio dell’Iva sugli acconti?
«L’operazione costa un miliardo e l’alternativa era procedere subito con tagli di spesa indiscriminati. Si è preferito fare un anticipo degli acconti: può essere considerato un prestito dei contribuenti che a livello individuale ha un peso molto soft comunque compensato con minori versamenti al momento del saldo. Il Parlamento può decidere di cambiare le coperture purché siano certe. Non sarebbe stato credibile per l’Ue promettere a copertura un maggiore gettito futuro dell’Iva».
E sul pagamento dei debiti della PA alle imprese, qual è lo stato dell’arte? Non potrebbero essere una fonte di gettito Iva aggiuntivo?
«Entro settembre, in tempo per la legge di Stabilità, dovremmo avere un quadro affidabile del debito della PA, che finora è stato soltanto stimato, e potremo valutare l’effetto dei 40 miliardi di pagamenti – che corrispondono a una poderosa manovra, pari a quasi tre punti di Pil in 12 mesi – e se sarà possibile finanziare un’ulteriore tranche di pagamenti. Allo stesso tempo avremo anche una stima del gettito Iva addizionale».
C’è chi propone lo sforamento del 3% del rapporto deficit/Pil.
«L’Italia non sta cercando deroghe o sanatorie per sé, ma piuttosto di proporre una rimodulazione della strategia europea per gestire più efficacemente questa fase di crisi che si sta rivelando molto dura. I frutti di questo lavoro cominciano a vedersi con le importanti decisioni assunte dal Consiglio europeo di ieri, soprattutto nella lotta alla disoccupazione giovanile e nel sostegno alle piccole e medie imprese. Il momento per fare il punto sarà il Consiglio europeo di ottobre cioè, non a caso, dopo le elezioni tedesche. Allora il Consiglio valuterà se vi siano le condizioni per ulteriori misure di rilancio dell’economia europea».
Non si poteva chiedere più tempo come hanno fatto e ottenuto gli altri Paesi?
«Questa vulgata è sbagliata. La Francia ha ricevuto delle raccomandazioni molto più severe delle nostre, ad esempio deve fare una riforma delle pensioni che noi abbiamo già fatto. Le nostre riguardano azioni che sono state già in parte attuate».
Quali sono i prossimi passi?
«L’approvazione della delega fiscale che ha ottenuto in Parlamento una corsia preferenziale ci consentirà di riformare il Fisco, ad esempio partendo dal catasto. Non mi aspetto che tutto questo produca risorse maggiori ma avremo un Fisco più moderno e affidabile anche per gli investitori stranieri».
La riforma dell’Imu va fatta entro agosto?
«Come promesso. Faremo una cabina di regia coinvolgendo tutte le forze politiche della coalizione e le commissioni parlamentari. Stiamo predisponendo uno scenario di opzioni e ne discuteremo in maniera aperta: il governo vuole trovare larghe intese.».
La vicenda dei derivati ha gettato un’ombra sulla nostra credibilità? C’è il rischio di panico sui mercati?
«Non c’è stato alcun panico: le emissioni dei titoli sono andate bene e il nostro spread è sceso nuovamente a 280 punti. Gli strumenti di copertura dei rischi comportano ovviamente un costo. Che vale la pena di sostenere per riparare i conti pubblici dalle continue oscillazioni dei tassi di interesse. In prospettiva c’è un rischio concreto di rialzo dei tassi».
L’onorevole Brunetta sostiene che i conti pubblici siano opachi.
«L’Italia ha un grosso debito pubblico ed è obbligata a gestirlo nel modo più trasparente e professionale, dotandosi degli strumenti più adeguati di copertura del rischio. Di tutte le operazioni viene data informazione regolarmente alla Corte dei Conti».

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Ipotesi superprelievo su redditi e pensioni d’oro

Gianni Trovati

MILANO
«Il Governo si impegnerà a trovare nuove strade» dopo la bocciatura costituzionale del contributo di solidarietà sulle pensioni più alte, per soddisfare «le esigenze di creare più uguaglianza nel Paese» anche «cercando di intervenire nel campo, sia pur limitato, delle pensioni».
La Consulta però ha negato la possibilità di trattare le pensioni in modo diverso dai redditi da lavoro, «quindi il Governo cercherà senz’altro di vedere quali strumenti adottare per non andare incontro a quel pericolo di discriminazione di cui parla la Corte», evitando «che si discriminino in modo eccessivo redditi da pensione con redditi di altra natura, che anch’essi potrebbero essere molto elevati e che anche questi dovrebbero essere limitati».
Parola del sottosegretario al Lavoro e alle Politiche sociali Carlo Dell’Aringa, che con queste parole ha risposto all’interpellanza urgente proposta dal deputato Pd Andrea Giorgis per conoscere le iniziative che il Governo intende assumere dopo lo stop costituzionale alla tagliola sulle pensioni.
Le vicissitudini dei vari contributi di solidarietà che hanno puntellato molte delle manovre dal 2010 in poi, insomma, non è finita. Il problema sollevato da Giorgis è quello legato alla sentenza 116/2013 (si veda il Sole 24 Ore del 6 giugno) con cui la Corte costituzionale ha detto «no» al contributo di solidarietà sulle pensioni superiori a 90mila euro. Con una sentenza gemella (la 223/2012 dell’ottobre dell’anno scorso), la Consulta aveva cancellato dall’ordinamento un contributo simile chiesto agli stipendi dei dipendenti della Pubblica amministrazione che superano la stessa soglia. In entrambi i casi, a portare la questione sui tavoli dei giudici delle leggi sono stati dei magistrati (un nutritissimo gruppo di Tar per gli stipendi pubblici, le sezioni di Lazio e Campania della Corte dei conti per le pensioni), che hanno ottenuto la dichiarazione di illegittimità costituzionale per una ragione identica: agli occhi della Costituzione (articolo 53), i redditi sono tutti uguali, a prescindere dal fatto che provengano da pensione, rapporti di lavoro privati o impieghi pubblici, e ogni misura fiscale deve essere proporzionale alla «capacità contributiva» del titolare del reddito. La legge, invece, in questi tempi di continua emergenza finanziaria era intervenuta in modo disordinato, ritagliando diversi «contributi di solidarietà» per ogni categoria: ai dipendenti pubblici chiedeva il 5% della quota di reddito lordo annuo superiore a 90mila euro e il 10% di quella sopra i 150mila, per le pensioni aggiungeva un terzo scalino tagliando il 15% della parte superiore ai 200mila euro e da ultimo, superando la forte riluttanza dell’allora presidente del Consiglio Berlusconi («mi gronda di sangue il cuore», disse presentando la misura) chiedendo a tutti, compresi i lavoratori privati e autonomi, un 3% lordo e deducibile (e quindi un 1,71% “netto”) della parte di guadagni superiori a 300mila euro annui.
Di tutta la complessa architettura dei contributi di solidarietà, solo quest’ultima tagliola è rimasta in vigore, perché nella sua universalità non distingue i pensionati dai lavoratori, e i dipendenti pubblici dai privati. Soprattutto la seconda bocciatura costituzionale, quella sulle pensioni, ha però creato un’ampia polemica bipartisan, con un fronte che dal Pd arriva a Fratelli d’Italia (molte le prese di posizione dell’ex ministro Giorgia Meloni) e che chiede di tornare a intervenire sulla materia.
Ora il sottosegretario Dell’Aringa conferma l’intenzione di tornare sul tema, per «incidere sulla sperequazione all’interno della spesa pensionistica», senza però limitarsi al solo terreno previdenziale per evitare di inciampare ancora nella Consulta. Per ora non si fanno ipotesi né si indicano numeri, ma qualsiasi intervento deve poggiare su uno strumento obbligato: il «prelievo fiscale», che come spiega Dell’Aringa è il mezzo adatto «per dare al sistema quella progressività che sola può garantire una maggiore uguaglianza dei redditi».
Tradotto? L’idea per applicare un ragionamento di questo tipo potrebbe essere quella di una super-aliquota, che scatti solo sopra una certa fascia di reddito, oppure quella di un ampliamento del meccanismo oggi in vigore per i redditi sopra i 300mila euro, che non è una super-aliquota in senso proprio dal momento che il 3% aggiuntivo chiesto dal Fisco è deducibile dall’imponibile e quindi viene “scontato” del 43%, cioè dell’aliquota che si applica alla fascia di reddito più alta (di qui l’1,71% netto che viene chiesto dal contributo di solidarietà). Il punto, che non ha impedito il riaccendersi della polemica politica dopo la sentenza costituzionale sulle pensioni, è che oggi in Italia a dichiarare più di 300mila euro sono 31.752 contribuenti, cioè lo 0,008% delle persone monitorate dal Fisco.

LA CONSULTA
Con la 116/2013 la Corte costituzionale ha detto «no» al contributo di solidarietà sulle pensioni superiori a 90mila euro. Con la sentenza 223/2012 dell’ottobre dell’anno scorso, la Consulta aveva cancellato un contributo simile chiesto agli stipendi dei dipendenti della Pa che superano la stessa soglia

LA PROPOSTA
Introdurre una super-aliquota, che scatti solo sopra una certa fascia di reddito o ampliare il meccanismo oggi in vigore per i redditi sopra i 300mila euro, che non è una super-aliquota perché il 3% aggiuntivo chiesto dal Fisco è deducibile dall’imponibile e quindi viene “scontato” del 43%, cioè dell’aliquota che si applica alla fascia di reddito più alta

da IlSole24Ore


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