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Terra dei fuochi. La mobilitazione strappa il velo dell’indifferenza

Mobilitarsi serve, eccome! Serve sempre. Non solo per creare forza sociale e forzare l’avversario a trattare sui nostri bisogni. Serve anche a dividerlo, a far uscire fuori notizie-argomenti-informazioni che per decenni erano state tenute nascoste.

 

Il potere propspera nelle zone d’ombra, nei silenzi e nelle omissioni. Si ramifica come una metastasi tumorale avvelenando territori e coscienze, riempiendo le tasche di pochi (di soldi) e i polmoni o le vene di molti (di veleni).

 

Sarà dunque un caso fortuito, ma le 100.000 persone scese in piazza a Napoli, il 16 novembre, ha avuto tra gli altri effetti quello di far aprire qualche cassetto, riportando alla luce informazioni che la stampa mainstream non si era mai curata di approfondire. Se manteniamo la mobilitazione ne usciranno molte altre, si scatenerà una gara (la “competizione” in questi casi è molto utile…) a chi soddisfa di più un “bisogno di sapere”, di individuare i responsabili, identificare che deve bonificare, chi dovrà pagare (per i lavori e per i risarcimenti), chi dovrà essere espropriato fino all’ultimo centesimo, chi dovrà sparire dalla faccia della terra o almeno non occupare più alcuna posizione (elettiva o amministrativa) dentro i poteri pubblici, locali e nazionali.

Il potere dello Stato e quello della Camorra, spesso sottobraccio, a volte apertamente altre sottotraccia. Ma sicuramente fusi nel praticare lo stesso gioco: “non diciamo niente a nessuno, lasciamoli morire come mosche”. Per interesse economico, paura impiegatizia, connivenza o disinteresse. Il risultato non cambia.

 

Ecco qui – per esempio – come IlSole24Ore ha sfoderato un “pezzo” su un argomento fin qui lasciato al “libero gioco del mercato”.

 

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Terra dei fuochi, la responsabilità delle istituzioni: analisi manomesse per non creare allarme sui pericoli

 

di Simone Di Meo

 

Che non fosse tutta colpa della camorra, era ormai chiaro. La Terra dei fuochi e i campi agricoli ingravidati dai liquidi infetti, che minacciano colture e falde acquifere, sono il frutto malato di un mix micidiale di criminalità organizzata, affarismo straccione e, per dirla col procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, di «inciviltà, malcostume e disprezzo della cosa pubblica».

 

Un’emergenza che dura da vent’anni è una statistica, ormai, non più un episodio eccezionale. E tentare di spiegarla ricorrendo alle categorie antimafia è comunque un errore, perché se il livello di inquinamento, dalle parti del Vesuvio, ha raggiunto picchi così elevati è anche e soprattutto perché ci sono state commistioni (dolose o colpose, chissà) tra chi doveva controllare e non l’ha fatto. La pandemia di oggi è responsabilità, in gran parte, delle Istituzioni.

 

A scriverlo, per la prima volta, è un geologo. Si chiama Giovanni Balestri e si è occupato, come perito della Procura di Napoli, di alcuni dei filoni d’indagine più sconvolgenti dell’epopea ecomafiosa nel capoluogo. Nella sua Relazione integrativa alla consulenza tecnica sulla discarica ex Resit ha menato fendenti da paura contro gli Enti che avrebbero dovuto monitorare ma che invece hanno lasciato correre. Facendo infettare un’intera provincia. Il processo per disastro ambientale e inquinamento della falda acquifera sottostante l’incavo, a Giugliano in Campania, si è concluso qualche giorno fa con una condanna a venti anni di carcere per il boss Francesco Bidognetti e a sei anni per l’ex parlamentare radicale Mimmo Pinto. I giudici sono arrivati alla conclusione che l’attività di sversamento, senza sosta, di circa 800mila tonnellate di rifiuti nella cava gestita, un tempo, da Cipriano Chianese, il «ministro dell’Ambiente» del clan dei Casalesi, abbia appestato l’ambiente e le risorse idriche locali.

 

Ciò che è interessante, in questo procedimento, non è tanto il ruolo dei clan, ricostruito con dovizia di particolari dai collaboratori di giustizia e dalle testimonianze di chi ha vissuto in quell’inferno, quanto le responsabilità dello Stato. Insomma: davvero è stata soltanto la camorra a creare questo disastro? Per Balestri tutt’altro. Nel suo documento scrive, infatti, che le analisi scientifiche effettuate agli inizi del Duemila, dall’Agenzia regionale per l’ambiente, per tenere sotto controllo il livello di avvelenamento della falda acquifera si sono rivelate spesso «carenti» e del tutto «inutili». Calibrate quasi sempre su aspetti secondari invece che su quelli di maggior interesse per la difesa della salute dei cittadini. Anche dal punto di vista metodologico, continua Balestri, il lavoro di rilevamento è stato superficiale.

 

«Inizialmente i tavoli tecnici che si sono svolti per stabilire frequenze di campionamento e tipo di analisi hanno portato a dei parametri da analizzare non in linea con la normativa del momento, parametri tutti sbilanciati verso il problema igienico-sanitario, per evidente influsso dell’Istituto superiore della Sanità, ma non utili allo studio della contaminazione in atto da parte delle discariche sovrastanti», denuncia il super-esperto. E ciò nonostante, «l’Arpac (Agenzia regionale per l’ambiente, ndR) ha svolto le analisi non in linea con le indicazioni del tavolo tecnico che ha sottoscritto, se non in parte nell’ultimo periodo, sebbene la maggior parte delle voci in analisi risultano comunque ‘in bianco’». Dunque: indicazioni sbagliate in teoria e messe in pratica alla men peggio.

 

Balestri ha vivisezionato le analisi effettuate dai centri competenti nel periodo compreso tra il 2000 e il 2003, quando cioè l’infiltrazione dei veleni poteva ancora essere fermata.
«Tutte le analisi Arpac», scrive, «sono manifestamente non corrispondenti alla realtà delle acque di falda campionate e comunque le analisi spesso sono ‘indirizzate’ verso valori favorevoli: è il caso di alcuni metalli, notoriamente alti in zona, dove sono quasi sempre riportati in concentrazioni uguali ai limiti della normativa. Altro caso è l’assenza di investigazione di tutti quei parametri chimici indicatori dell’eventuale contaminazione in falda, parametri lasciati sempre tutti ‘in bianco’».

 

In un’analisi dell’Arpac, poi trasmessa all’Istituto superiore della Sanità, addirittura si addebitava il livello di inquinamento delle acque sottostanti a una «perdita del sistema fognario» o a «pratiche agronomiche e zootecniche». Una follia.

 

Le conclusioni a cui arriva il geologo sono lame di luce nel buio. «La Provincia di Napoli ha sempre trasmesso con notevole ritardo (più di sei mesi) le analisi all’Istituto superiore per le considerazioni del caso, considerazione che poi sono arrivate sempre estremamente superficiali (conseguenza delle analisi Arpac superficiali)». Una filiera di controlli che funzionava con tempi biblici e con metodi nient’affatto efficienti.

 

E ancora, leggendo la relazione integrativa: «La Provincia di Napoli non ha comunque mai dato seguito al fatto che alcuni parametri chimici individuati nelle analisi chimiche fossero oltre le concentrazioni limite della normativa vigente» e «non ha mai segnalato quei rari casi di superamento» creando così un cortocircuito informativo che ha fatto sì che «il Prefetto delegato non si allarmasse sul reale stato di contaminazione della falda nel Giuglianese».

 

Il percolato ha continuato a scavare nel terreno, superando una cinquantina di metri di tufo e arrivando a toccare l’oro blu.
In conclusione, secondo il geologo «l’Amministrazione provinciale di Napoli negli anni ha omesso i controlli mensili sulle acque di falda, come richiesto già dall’ordinanza prefettizia del giugno 1997» mandando in fumo «la possibilità di verificare l’eventuale superamento dei limiti di accettabilità della contaminazione, limite oltre i quali scattava l’obbligo della bonifica».
Così stanno le cose. E, stavolta, Sandokan non c’entra proprio niente.

 

 

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