Menu

L’attore Renzi alla prova dei fatti. Economici

La cosa più devastante dell’imitazione del neomistro Boschi, per opera di Virginia Raffaele, è l’assoluta serietà con cui recita – nel primo minuto – “il programma di governo” di Renzi. Indistinguibile dal ministro “vero”, rivela l’intima essenza del gruppo di occupanti di Palazzo Chigi (Padona escluso): attori che recitano una parte, altro che “merito”…

Renzi è più bravo dei suoi ministri. Come attore, intendiamo. Sa coprire più parti contemporaneamente, usa meglio le battute, sa giocare in contropiede là dove una Boschi si chiude a catenaccio e invoca la censura. Ma sempre un attore resta.

«Mercoledì per la prima volta si abbassano le tasse. Non ci crede nessuno? Lo vediamo». L’annuncio ribadito sulla poltrona di Fabio Fazio – aveva fatto più o meno lo stesso su quella di Bruno Vespa – è generico quanto basta. Manca il quanto e a chi toccherà il vantaggio di questo “taglio”. Tutti sanno infatti che le poche risorse disponibili (10 miliardi sembrano contemporaneamente insufficienti e impossibili da trovare) possono finire in tasche diverse, con risultati molto differenti. O addirittura inesistenti. Così che la battuta successiva (“ non dobbiamo pensare a un derby Confindustria-Cgil”) suona più come una fuga davanti alle difficoltà concrete che non un colpo di genio.

Glielo ricordano in coro i giornali padronali, stamattina. Con quei 10 miliardi si può infatti scegliere tra poche opzioni: a) si elimina l’Irap per le imprese e non si dà nulla ai lavoratori; oppure b) si riduce di un briciolo il “cuneo fiscale” (la differenza tra lordo e netto in busta paga, tra contributi previdenziali e Irpef). Anche nel secondo caso bisogna scegliere tra diverse opzioni: a) si taglia l’Irpef ai soli lavoratori, facendo entrare fino a 80 euro in busta paga, che finirebbero certamente in nuovi consumi e quindi aumento della domanda di beni e servizi; b) si taglia la parte che pagano le imprese; c) si fa a metà o quasi.

La terza soluzione – viene brutalmente ricordato dal Corsera – è quella scelta dal governo Prodi nel 2007 e non è servita a nessuno. Non alle imprese, investite dalla crisi globale; non ai lavoratori (pochi euro scomparsi nell’aumento delle tasse locali prima ancora di apparire in busta paga). La seconda è popolare in Confindustria, ma rappresenta comunque appena il 2% del cuneo fiscale complessivo. La prima garantisce un po’ di consenso a breve termine, e anche un po’ di incremento della domanda (che può aiutare quelle imprese che producono per il mercato interno); ma non aumenta la “competitività” del sistema produttivo nazionale, come chiede invece l’Unione Europea con toni via via meno concilianti.

Dalle battute televisive, l’ex sindaco fiorentino sembrerebbe preferire la prima soluzione: «oggi la priorità è garantire competitività al sistema Paese cambiando il modello di business, e dire alle famiglie che guadagnano meno di 1500 euro al mese e non ce la fanno, che se si riesce a dare loro qualche decina di euro al mese in più quei soldi vanno non nel risparmio ma nel circuito economico». Bisogna vedere però quel che dice a prote chiuse, con interlocutori più selezionati; e soprattutto potenti.

Non è più tempo per una buona recita, insomma. E in questa settimana Renzi sembra giocarsi molto del “credito” ricevuto dalle cancellerie Usa-Ue, dai mercati e capitale multinazionale.

Non preoccupa nessuno l’alzata d’ingegno di Susanna Camusso, che ha minacciato scioperi “se non saremo ascoltati”. Tutta impegnata a giocare l’ultima partita dell’era della “concertazione” – il “testo unico sulla rappresentanza” appena siglato con Cisl, Uil e Confindustria – i vertici della Cgil non si sono accorti che il terreno su cui andavano piantando picchetti è rapidamente franato sotto i loro piedi. La risposta di Renzi («Noi ascoltiamo tutti, ma cosa dobbiamo fare lo sappiamo: lo faremo non pensando alle associazioni di categoria ma alle famiglie e alle imprese che hanno bisogno di essere aiutate») suona come un seppellimento definitivo di quell’era e di quella logica concertativa. O anche «Quando chiediamo a tutti di fare dei sacrifici, lo diciamo anche ai sindacati, che devono mettere on line le loro spese, la musica deva cambiare per tutti». Con un di più di disprezzo, però, che sembra prendere a prestito addirittura critiche di “ultrasinistra” contro i sindacati confederali: “i sindacati negli ultimi anni hanno accettato tutto”. Impossibile negarlo…

Sul piano prettamente politico, dunque, Renzi si fa portatore di una “nuova visione” delle relazioni industriali che non prevede più il sindacato come “soggetto politico” di cui tener conto. La chiusura della stagione concertativa trova infatti organizzazioni burocratiche ingessate e prive di credibilità sul terreno del conflitto (“concertare stanca”, o quantomeno impigrisce), quindi disarmate sia di fronte a governi e imprese che mostrano di tenerle in non cale, sia di fronte all’esplodere di situazioni conflittuali.

Quello che viene chiamato “asse tra Renzi e Landini”, per esempio, è il sintomo di questa impotenza della “triplice” su entrambi i fronti. E gli smottamenti interni a Corso Italia, nel pieno dello scontro congressuale, sono addirittura rivelatori. A Torino è passato a sorpresa un ordine del giorno che definisce il Tav in Val Susa “opera inutile”; a Bologna il segretario uscente ha rassegnato le dimissioni quando ha visto che la prevista opposizione dei delegati Fiom era ingigantita da “malpancisti” interni alla stessa maggioranza “camussiana”. Per non parlare di quei – non moltissimi, purtroppo – congressi locali “veri” in cui la maggioranza dei voti è finita al “secondo documento”, quello di Cremaschi ed altri.

Ma è l’economia il punto su cui il vascello renziano rischia di colare a picco. Le promesse sono ovviamente roboanti (torna la sempreverde “semplificazione delle procedure burocratiche per le imprese”), e anche un po’ inquietanti. La “riorganizzazione degli strumenti di ammortizzazione sociale”, per esempio, si annuncia come obbligo ai lavori forzati per i neodisoccupati («Al disoccupato dò il contributo, ma lui non sta a casa o al bar, ma mi da una mano per le cose che servono. Ti do una mano e tu mi dai una mano ad aiutarti»). In pratica, si progetta di riempire così i vuoti d’organico che si vanno creando con blocco delle assunzioni nella pubblica amministrazione, specie a livello di enti locali o di servizi sociali essenziali (scuole, biblioteche, ecc).

Il resto sono chiacchiere in libertà, recitazione pura. L’Italia «non ha l’ambizione di guidare il semestre europeo, ma nei prossimi 20 anni guidare l’economia dell’Unione Europea. Noi siamo decisamente più forti e capaci di competere». Ma senza uscire dalle forche caudine costruite dalla Troika. Tant’è vero che dopo aver “pressato” Letta perché sforasse il tetto del 3% nel rapporto deficit/Pil, ora si adegua ai diktat della Commissione Europea: «una norma concettualmente antiquata ormai, ma noi la rispetteremo finché non sarà cambiata, non cambieremo le regole in modo unilaterale».

Poi, certo, «C’è lo spazio per cambiare. Che negli ultimi anni non abbia funzionato il modello economico si è capito. Se noi non teniamo in ordine i conti di casa nostra non siamo credibili con nostri figli e non con l’Europa. Vorrei fare le riforme prima del semestre europeo proprio per non sentirci dire cosa dobbiamo fare ma per dire: ora vi raccontiamo noi cosa è l’Europa. Sogno una Europa di valori».

Sogni, appunto, per distrarre il pubblico mentre si preparano mazzate che resteranno nella Storia.

 

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *