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“L’occasione storica del sindacato di classe”. Intervista a Leonardi (Usb)

In mezzo a tante organizzazioni di sinistra in crisi di identità e militanza, ce ne sono alcune che stanno affrontando una crisi del tutto opposta: di crescita. Le contraddizioni interne alla Cgil, esplose con la firma “clandestina” del “testo unico sulla rappresentanza sindacale”, che contiene alcune “regole” chiaramente incostituzionali, ha accelerato la fuoriuscita di numerosi delegati e iscritti, persino di qualche dirigente di lungo corso, in direzione dell’Usb.

Il congresso della Cgil, che si concluderà a maggio a Rimini, va peraltro confermando che la segreteria confederale – Susanna Camusso in testa – non intende riconoscere alcuna “opposizione internea”. Anzi, neppure i distinguo rappresentati da alcuni emendamenti formulati da Landini e Rinaldini. Probabile, insomma, che il “dopo congresso” allarghi il flusso delle uscite dal sindacato di Corso Italia.

 Ma dai territori arriva la conferma che il processo è anche più complesso, visto cge i “passaggi di campo” si vanno verificando anche in organizzazioni diverse da quella padroneggiata da Camusso & co.

Nell’insieme, dunque, si può parlare di “occasione storica” perché il sindacalismo di base possa finalmente evolvere a “sindacato generale”, di classe, rappresentativo di larghi strati del mondo del lavoro (e non solo); insomma, ad alternativa credibile rispetto alla “triplice”.

L’intervista a Paolo Leonardi tocca tutti questi temi e getta un po’ di luce sul prossimo futuro.

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Quanto è cambiato l’orizzonte sindacale dopo l’accordo del 10 gennaio? Sappiamo che ci sono sofferenze nella Cgil; ci sono anche forse dentro qualche altro sindacato. Dal vostro punto di osservazione, come arrivano queste preoccupazioni, tensioni, divisioni… se ci sono?

Io credo che il 10 gennaio abbia squarciato il velo della effettiva situazione del sindacalismo italiano. C’è una esigenza di tutto il sindacato “complice”, come lo definì Sacconi, di accreditarsi definitivamente per la funzione che svolge: contenimento delle lotte. E quindi di ottenere in cambio dei vantaggi. È quello che emerge, apertamente, anche dall’indagine dei servizi segreti, che attribuisce al sindacato confederale e agli ammortizzatori sociali una “funzione fondamentale di contenimento del conflitto”.

L’accordo del 10 gennaio, ha come obbiettivo quello di provare a scrivere la parola fine sul conflitto affermando che possono esistere solo le organizzazioni confederali e Confindustria, che sono i due pilastri della “nuova concertazione”, attorno alla quale tutto quanto va dimensionato. Chiunque non stia dentro quella dimensione, chiunque pensi di poter continuare ad avere una funzione autonoma, di conflitto, di organizzazione dei lavoratori, non avrà più quegli spazi di democrazia che fino ad oggi in Italia – non per gentile concessione, ma perché ce li siamo conquistati – hanno consentito anche di costruire anche alcuni strumenti antagonisti, alternativi a quelli di Cgil-Cisl-Uil.

Credo che il passaggio del 10 gennaio sia un passaggio importante, che liquida o prova a liquidare la conflittualità; ma determina anche un confronto molto più aspro che in passato persino all’interno delle singole organizzazioni sindacali “complici”. Tutto ciò che è opposizione, non solo esterna alle organizzazioni Cgil-Cisl-Uil, ma anche all’interno – in particolar modo della Cgil – diventa un “nemico da espellere”. La percezione che emerge anche dal dibattito apertosi dopo la firma del 10 gennaio è che non ci sia nessuna intenzione di “fare prigionieri”; che la Camusso, in particolar modo, per dare credibilità alla firma che ha messo, debba dimostrare di essere in grado anche di smantellare l’opposizione interna.

C’è un elemento di complicazione nel fatto che Renzi ha sostituito Letta? Perché la domanda è questa: lui è partito dicendo “non mi interessa parlare con le parti sociali, mi interessano le famiglie”. Salta direttamente i “corpi intermedi” della rappresentanza, quelli che tenevano insieme società e mondo politico.

Mi sembra evidente che ci sia un combinato disposto: da una parte c’è il sindacato “complice” e le organizzazioni padronali più importanti, che determinano insieme una nuova modalità di riconoscimento reciproco ed esclusivo della “rappresentanza”; dall’altra la fine della concertazione, ma da destra. L’avevamo compreso e detto, ma ora viene certificata dall’atteggiamento di Renzi. C’è anche una buona dose di ingratitudine – da parte del governo – nei confronti del lavoro svolto da quei “corpi sociali intermedi”, fondamentale dagli anni ’70 ad oggi, per accompagnare l’affermazione piena del capitale. Il quale ritiene ora di poter fare a meno dei corpi intermedi, e di poter quindi affondare il coltello dentro il “blocco sociale” delle organizzazioni sindacali. Renzi oggi prende atto che si è conclusa con successo questa operazione. Va avanti, non sembra intenzionato a fare concessioni. O almeno così mi sembra, a parte le chiacchiere…

Renzi avrebbe tutto questo potere?

Renzi o chi per lui… Non mi sembra che finora abbia fatto cose particolarmente efferate nei loro confronti, però ha dichiarato la fine del modello… Di fatto prelude a un attacco fondamentale alla rendita di posizione delle organizzazioni sindacali “complici”…

Dichiara insomma la fine del loro “ruolo politico”?

Anche la ventilata chiusura del Cnel, e quindi la protesta contro la chiusura della “camera di compensazione fra le parti sociali”, è una presa d’atto della fine di una funzione. Il Cnel era nato in una fase in cui il conflitto tra il blocco sociale del mondo del lavoro e quello dei padroni era un conflitto serio, vero, centrale nelle relazioni sociali e politiche. Quel conflitto non c’è più perché attraverso la concertazione, la complicità, ecc, ne sono stati superati i presupposti. Il conflitto oggi viene esercitato da chi sta fuori da quei luoghi; quindi diventa inutile avere una “camera di compensazione” per attori di un conflitto che non è più agito dai sindacati tradizionali o che non controllano più. Mi sembra insomma che Renzi prenda atto di una situazione sul campo. Non è lui che porta in profondità l’attacco; l’attacco c’è già stato, è stato condiviso, è stato concertato, e oggi se ne prende atto. Fine.

Questo pone proprio un problema di ruolo anche per quel tipo di sindacato, no? Perché se gli levi il “ruolo politico” resta ben poco da esercitare, se non il ruolo di “patronato”, la consulenza su pensioni, fiscalità e cose del genere. Dal punto di vista della massa degli organizzati e anche dei delegati, quali segnali state ricevendo?

La vicenda del 10 gennaio affonda nel terreno della democrazia, che dentro le organizzazioni sindacali e fra i lavoratori è un terreno abbastanza sentito. Forse non tanto fra i lavoratori genericamente intesi, quanto tra i delegati, fra chi sviluppa una relazione anche contraddittoria con le controparti; e quindi l’avere o no tutele, l’avere o no possibilità di agire, il poter essere o no sottoposto a “sanzioni” nel caso in cui si vada “oltre il consentito”, sta diventando un problema. Credo che il 10 gennaio, da solo, probabilmente non avrebbe prodotto grandi reazioni. Le ha prodotte soprattutto nell’ambito della fase congressuale della Cgil. Mentre questo è ancora in corso, l’accordo del 10 gennaio ha riaperto la discussione interna; soprattutto in quel settore che aveva tranquillamente accettato l’accordo precedente, quello del 31 maggio, che era praticamente identico, se si escludono le sanzioni e la parte regolamentare…

Per la Fiom c’è stata anche la perdita dell’autonomia contrattuale come categoria…

Sì, certo. Ma di fatto c’era già molto, in questo senso, nell’accordo del 31 maggio, che però era stato digerito con abbastanza nonchalance dalla Fiom. Ora si è riaperta questa ferita e si è aperta una discussione interna al congresso. Questo sta producendo una politicizzazione dello scontro interno alla Cgil del tutto imprevista; nella prima fase della discussione congressuale non c’era stata. E questo sta ora producendo anche una uscita allo scoperto di un settore più consapevole, soprattutto sul piano “politico”, che esce dalla Cgil non tanto e non solo perché c’è stata una “resa dei conti” tra settori diversi (qualcuno che ha perso il posto da funzionario, ecc), ma perché ha capito che nella nuova condizione non era più possibile rimanere. E questo nonostante ancora sia ancora in campo l’ipotesi del secondo documento di Cremaschi ed anche un’opposizione interna alla maggioranza rappresentata dalla Fiom di Landini.

Alcuni dei quali, in altre categorie, vengono buttati fuori lo stesso …

Appunto… La cosa che emerge è che la Camusso non arretra. L’ha dimostrato anche sulla vicenda del referendum. Averlo chiesto, secondo noi, è stata una stronzata clamorosa. Perché su una contraddizione di quel tipo – che investe la Costituzione e la natura del sindacato – tu non vai al referendum. La contesti, la neghi, non l’accetti; punto e basta. Ma non ti esponi al fatto…

…che poi te la devi subire.

Al fatto che poi una maggioranza dice “va bene così” e tu la subisci a prescindere. Quando una cosa ha quelle caratteristiche antidemocratiche e anticostituzionali, ecc, non c’è referendum che tenga. Tu devi fare opposizione e opposizione durissima…

come a Pomigliano col “modello Marchionne”…

Certo… Non è possibile pensare che sia un “problema interno” a una particolare organizzazione. E’ un problema di tutti i lavoratori, tocca diritti universali indisponibili a qualsiasi accordo tra organizzazioni. Però è chiaro questa contraddizione violenta ha posto un problema serio a un pezzo più cosciente della Cgil. Si sta producendo una fuoriuscita di quadri e di militanti, di pezzi operai che, crediamo, sia destinato non solo a mantenersi costante, ma anche a crescere via via che la fase congressuale procede e – come dire – rende evidente la chiusura definitiva degli spazi di democrazia anche all’interno di quel sindacato. Noi stiamo raccogliendo molto, in molte parti d’Italia, in molte categorie, in molti settori. Arrivano anche dirigenti “di spessore”, non solo delegati, compagni, rsu, quadri ecc. ecc, ma anche dirigenti sindacali. E quando questi dirigenti sindacali arrivano all’Usb, ci costringono, in qualche misura, a indagare sulla percezione esterna esistente nei nostri confronti.

Quanto pesa la vicenda dell’Ilva in questo esodo?

L’Ilva ha pesato molto, perché lì abbiamo fatto un investimento importante anche sul piano politico e delle risorse organizzative. Il tutto dentro un quadro solidaristico di organizzazione, che si è costruito anche sul piano della struttura organizzativa e della struttura economica in maniera tale che fosse possibile indirizzare le risorse là dove questo era necessario. Tant’è che all’Ilva abbiamo sviluppato una forte capacità di intervento, sia pure con una difficoltà enorme, perché l’azienda ha certe caratteristiche, il territorio devastato…

Si è sempre parlato, all’Ilva, di “sindacalizzazione clientelare”…

Appunto. Insomma, una storia sindacale non cristallina, diciamo così; però abbiamo ottenuto un risultato che è sotto gli occhi di tutti e ha indicato la possibilità di un’alternativa. Quello che ci ha colpito, e su cui stiamo lavorando, è che vediamo convergere su di noi un’attesa che sentiamo molto grande. E noi sappiamo di essere, a tutt’oggi, un’organizzazione ancora inadeguata rispetto a una sfida talmente grande. D’altro canto non esiste un’altra organizzazione oggi adeguata a reggere quel piano. Nonostante questo – o forse proprio per l’onestà con cui riconosciamo sia le grandi potenzialità che anche i limiti obiettivi – veniamo vissuti oggi come una alternativa effettiva. Il sindacalismo di base non è mai stato considerato dalle altre organizzazioni sindacali come una credibile alternativa, anche per le caratteristiche con cui si è dato vita al sindacalismo di base: una sorta di franchising, in cui si costruiva l’autorganizzazione posto di lavoro per posto di lavoro, non venivano forniti strumenti organizzati, una visione complessiva e strategica dell’organizzazione… Noi, costruendo l’Usb, abbiamo cercato di fare una operazione diversa. Abbiamo costruito un embrione di sindacato di massa, un sindacato di classe. Oggi questa cosa si sta sviluppando moltissimo e l’intuizione è stata evidentemente giusta se oggi veniamo letti come organizzazione sindacale in grado di fare la differenza ed essere credibile sia sul piano della vertenzialità, sia sul piano della politica, sia sul piano della struttura organizzata. Quindi i compiti che ci aspettano sono compiti gravosi: dare continuità, dare una risposta adeguata a una crisi in una fase difficilissima. Questo avviene in presenza di una tendenza – da parte della “gente comune” – a leggere tutto nello stesso modo, cioè sul piano della “casta”, chiunque si occupi di politica o di sindacato; il che sicuramente non ci aiuta. C’è una nuova ventata di “antisindacalismo” molto qualunquista che si fa largo senza troppi problemi, senza ostacoli, visto il modo in cui Cgil-Cisl-Uil gestiscono l’agire sindacale. E che rischia di coinvolgere tutti. Noi abbiamo invece il compito di dimostrare che oggi è possibile operare nel conflitto, costruire una organizzazione sindacale che riparta dal conflitto, che riparta dagli interessi della classe, per contrapporli direttamente alle imprese e ai loro governi. E quindi rompere questa idea che “il sindacato è tutto da buttare come tutta la casta politica”, ecc.

Ci sono insomma tutte le caratteristiche di un’”occasione storica”, una possibilità di saltare da un ruolo minoritario a una funzione generale… Ma questo pone anche problemi infiniti; di cultura politico-sindacale, organizzativi, di formazione dei quadri. Come li affrontate?

Abbiamo lavorato molto intensamente, nel corso degli anni, alla costruzione di una identità di organizzazione e di una lettura condivisa delle fasi politiche, degli avvenimenti, di come il capitale si riorganizzava e quali erano i punti di tenuta di una organizzazione conflittuale. Non saremo mai un’altra Cgil, non saremo la Cgil “più di sinistra”; noi siamo un’altra cosa. Siamo il portato di una lettura della trasformazione sociale e produttiva che non alberga più nel ragionamenti delle altre organizzazioni sindacali. Ci rendiamo conto spesso che c’è una lettura solo sovrastrutturale, che produce il giorno per giorno – la riduzione del danno – come unico piano di intervento. Noi abbiamo invece sempre cercato – e continuiamo a farlo – di mettere i nostri quadri, i nostri compagni, dentro una dimensione più “strutturale”; devono essere consapevoli che la loro funzione si svolge dentro un quadro complessivo che va modificandosi. Ciò significa assumere i dati “strategici” come base di partenza. L’Usb è una ipotesi di lavoro sicuramente perfettibile, sicuramente migliorabile, però che oggi dà una chance al conflitto per organizzarsi e crescere. Una sfida importante, dunque, perché oggi, forse per la prima volta dopo molti anni, ci sono delle condizioni politiche perché un pezzo del nostro blocco sociale smetta di vedersi come completamente sconfitto, grazie anche a Cgil-Cisl-Uil e alle loro scelte. E’ chiaro che si tratta di una scommessa molto complicata, che necessita di revisioni organizzative, definizione di un piano della militanza (fondamentale in una organizzazione con risorse limitate, con la necessità e anche la scelta di lavorare sulla militanza e non sul funzionariato). Ovviamente un minimo di struttura è sempre indispensabile, perché non esistono “organizzazioni disorganizzate”… però il rilancio della militanza, il rilancio della passione politica, è il nostro segno distintivo. La passione si incarna in un soggetto sindacale con caratteristiche conflittuali alternative; che individua il capitale, la contraddizione imperialista, l’Europa, ecc, come piani non secondari rispetto al nostro agire sindacale. Abbiamo accettato questa scommessa e vediamo se questa cosa convincerà altri oltre noi. Ce lo auguriamo, e in parte sta già avvenendo …

Che tipo di problemi si creano con la massa di adesioni che arriva ora? Con soggetti che escono da una situazione diversa per cultura sindacale, interpretazione politica per pratiche conflittuali?

La vogliamo mettere in positivo. Non vogliamo immaginare che chi viene da noi lo faccia perché non c’è altro, anche se in parte è vero. Vogliamo sperare che chi sceglie l’Usb lo faccia dopo aver ragionato se ne condivide o meno l’ipotesi politica, il lavoro, gli strumenti organizzativi. Per esempio, a differenza delle altre organizzazioni sindacali – e non ci sembra un dettaglio da poco – abbiamo scelto di essere una organizzazione orizzontale. Non abbiamo il segretario generale, ma strutture orizzontali in cui i compagni lavorano e si misurano proprio per cercare di evitare, per quanto possibile, quella inevitabile prassi burocratica caratteristica di un’organizzazione. Ci troviamo molto spesso a discutere con compagni che vengono da altre esperienze: “ma chi è il segretario?”

Noi, su questo, non torniamo indietro di un millimetro. Pensiamo che sia possibile, anche se molto faticoso, mantenere la democrazia delle relazioni dentro l’organizzazione. Episodi come quello di Napoli, nella Filt Cgil, o altri, in cui un singolo “capo” può avere potere di veto o di scelta politica, a prescindere dalla collegialità degli strumenti di discussione, da noi non si possono – e comunque non si debbono – verificare. E’ chiaro che chi arriva da noi – e non solo dalla Cgil, ma interi settori, gruppi di lavoratori, delegati, ecc, anche da altre organizzazioni sindacali quindi – ha un approccio costruito in un’altra storia, in altre organizzazioni; quindi per noi è molto importante fare un confronto politico molto serrato sull’identità dell’organizzazione Usb, sulla sua storia, su come ha formato e definito il suo quadro dirigente, la modalità di stare sul territorio. Per esempio: spesso un elemento difficile da comprendere è “il sindacalismo della confederalità sociale”. Noi abbiamo scelto ormai da tempo – e stiamo ancora sperimentando, non è che abbiamo trovato la soluzione definitiva – di delineare un sindacato capace anche di uscire fuori dalle aziende; che non abbandona insomma il terreno classico del lavoro sindacale (la vertenzialità e la presenza nei luoghi di lavoro), ma che apre e definisce un proprio terreno di intervento su tutta la scomposizione sociale prodotta dalla globalizzazione; e quindi precarietà, disoccupazione, i senza casa, i senza reddito, i migranti. Abbiamo scelto di aprire il sindacato a soggetti che normalmente non possono incontrarlo; e quindi di fare delle nostre strutture territoriali dei luoghi della riaggregazione politica e sociale. Questo spesso trova impreparati i compagni, i delegati e le delegate, i lavoratori che arrivano da altre esperienze; dove molto spesso ci si limitava ad una visione legata alla propria condizione materiale diretta …

Una visione aziendalistica…

Sì. Aziendalistica, contrattualistica, tra l’altro in una situazione in cui la contrattazione non c’è quasi più. Noi pratichiamo anche la contrattazione, ovviamente; ma non la “concertazione”.

19 OTT.2013 ASIA-USB 011

Lavorate sul terreno della precarietà, della disoccupazione, dei problemi sociali, sulla “confederalità sociale”… Ma che risultati – perlomeno sul piano della cultura politica – si possono illustrare in questo momento? Cioè, aver fatto quelle esperienze, cosa ha insegnato?

Siamo ancora, come dire, all’abc… Stiamo sperimentando; con diverse forme e diversi risultati. Per esempio: nel meridione la nostra confederalità sociale si articola soprattutto sulla disoccupazione; in Sicilia, in Calabria e in Campania il nostro lavoro da “confederazione sociale” ha quelle caratteristiche. A Roma, e in parte del centro e nord Italia, ha invece avuto come punto di riferimento principale la questione del diritto all’abitare, ecc. A Torino, Genova, Napoli, in Puglia, è molto legata alle vicende dei migranti e dei richiedenti asilo. L’idea generale è dar forma e organizzazione al tessuto sociale disgregato. Questo avviene poi con diverse forme e con diversi soggetti, a seconda del contesto perché – ovviamente – la priorità è quella che ti si presenta davanti sul territorio. Stiamo stringendo rapporti e dotandoci di strumenti organizzativi; si sono aperte anche collaborazioni con pezzi di movimento che già agiscono sul terreno sociale, cui proponiamo anche una strumentazione di tipo sindacale che aiuti ad andare oltre la singola questione. Per esempio tutta una serie di servizi di cui il sindacato si è dotato e che sono fondamentali nella relazione sociale. Cioè: non basta la battaglia politica, lo scontro sulla singola questione. Il lavoratore, il migrante, il senza casa, ha bisogno anche di un’organizzazione sindacale che gli fornisca strumenti per la propria tutela: dall’ufficio legale alla struttura di lotta per la casa o per i migranti, per il permesso di soggiorno, il patronato… Cioè tutte quelle strutture di cui un’organizzazione sindacale non può fare a meno, e che spesso, soprattutto negli ambiti – diciamo così – dell’”antagonismo” sono state lette come “pratiche burocratiche” che scimmiottavano in qualche misura l’agire delle organizzazioni sindacali “normali”. Strutture che oggi sono ricercate da tutti; anche da pezzi di movimento che ci chiedono di metterle a disposizione per fare della tutela di lavoratori, di chi non ha lavoro, di precari, disoccupati, ecc, uno strumento completo che – su questo piano – non lasci nessuno in difficoltà. Quindi mi sembra che sia, in prospettiva, un dato molto importante, perché mette l’organizzazione sindacale dentro la realtà complessivamente intesa, quella prodotta dalla crisi, dalla chiusura dei siti produttivi, che lascia la gente da sola; e a cui proviamo a dare qualche risposta. Un impianto abbastanza diverso dall’impianto “lavoristico” classico delle organizzazioni sindacali storiche.

Quanto pesa l’ingresso nella Federazione sindacale mondiale? Ossia il non essere più soltanto il sindacato di base, nato in una nicchia particolare del lavoro, ma il confrontarsi, a livello internazionale, con problemi assolutamente simili, se non uguali?

Abbiamo fatto la scelta di aderire alla Federazione Sindacale Mondiale dopo averla “annusata” per molti anni. È da molto tempo che stiamo dentro un circuito di riflessione sul “che fare?” sul piano internazionale. Abbiamo intessuto relazioni internazionali ormai da molto tempo, ci siamo convinti della possibilità di avere non solo una relazione con l’Fsm , ma di giocare anche un ruolo al suo interno, dopo il XVI congresso di Atene; quello in cui quella storia – che è una storia importante, di grande presenza del sindacato internazionalista e di classe, a livello mondiale – si è proposto una “rifondazione” del proprio essere, dello stare tra i lavoratori, dell’essere un punto di riferimento che, con modalità nuove, che consentono di intravedere un percorso solidale, un percorso internazionalista, anche nell’Europa sviluppata e non più solo nel “terzo mondo”; insomma, non solo in Africa, America Latina, Asia, dove pure è già fortissimo. Credo che questo abbia avuto un effetto anche nella scelta di molti delegati della Cgil; una spinta ad entrare in relazione tra noi. Quella della Federazione Sindacale Mondiale è una storia di classe, che coinvolge oggi 86 milioni di lavoratori organizzati in 135 paesi, senza alcun riconoscimento da parte delle organizzazioni internazionali, anche se formalmente esistono dei rappresentanti all’ ILO, all’Unesco, alla Fao (qui la rappresentante dell’FSM è una nostra dirigente); ma nelle relazioni internazionali istituzionali la fanno da padrone ancora i sindacati concertativi, che fanno di tutto per escludere la Federazione Sindacale Mondiale da ogni consesso. Eppure c’è una crescita molto importante, uno scambio continuo di relazioni, su quanto accade a livello internazionale. C’è un forte movimento solidaristico che interviene laddove il movimento dei lavoratori viene messo sotto attacco o comunque gli viene impedito di lavorare. A noi sembra un fatto importantissimo che un sindacato non guardi solo alla propria struttura, al proprio paese, la propria condizione, ma abbia un orizzonte – non solo continentale – addirittura di livello mondiale. È decisivo per capire alcune delle dinamiche che il capitale mette in campo e quale sia la necessità vera della risposta da dare, e come si articola a livello internazionale. Siamo molto soddisfatti di questa scelta. Sappiamo che anche in Europa, in particolar modo nell’Europa occidentale, ci attende un compito importante, di ricostruzione della partecipazione all’Fsm anche di altri organismi sindacali conflittuali. Sappiamo che non esistono organizzazioni simili alle nostre, nel resto d’Europa; altrove il sindacato “ufficiale” assorbe anche le correnti antagoniste o di minoranza. Però pensiamo che un lavoro su questo fronte sia indispensabile anche in Europa occidentale, per costruire strumenti di attacco alla Ces e all’Unione Europea.

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