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L’Honda di via Fani, un faro nel buio

Sentiamo un bisogno disperato di aria pulita, bombardati – come ci sentiamo – da merda e vari inquinanti colloidali, di quelli che non riesci mai a scrollarti di dosso, per quanti solventi si usino.

L’ultima sortita sull’”Honda di via Fani” è la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso della nostra pazienza. Il nostro articolo “a caldo” lo trovate qui. Ma ora ci sembra il caso di farla finita con questa stronzata, anche se sappiamo perfettamente che niente fermerà il gorgogliare incomposto di interessi politici, privati, sbirreschi, dietrologici, idioti che alimenta di continuo l’almanacco dei “misteri”.

Scriviamo perciò quanto compagni d’esperienza, giornalisti di lungo corso e soprattutto magistrati addetti ai lavori sanno da sempre:

la moto apparsa ad un certo punto in via Fani, un attimo prima che scattasse l’attacco delle Brigate Rosse alla scorta di Aldo Moro, era guidata da Giuseppe Biancucci. Il quale, naturalmente, non era affatto un uomo dei “servizi segreti”, ma uno dei tanti “compagni di movimento d’allora”.

Era in via Fani perché aveva appena finito il turno di notte nel garage gestito dal padre, una traversa più in là, e stava andando a casa insieme alla sua compagna, Roberta Angelotti. Lavorava lì come “ripiego provvisorio”, visto che era uscito dal carcere da pochi giorni, a causa di uno scontro con i fascisti di Terza Posizione, in quello stesso quartiere, un paio di mesi prima.

Il “collegamento” tra la sua moto e i brigatisti, negli occhi dei confusissimi testimoni d’allora (è un dato di fatto accertato scientificamente: i testimoni, specie se di eventi traumatici, non riescono mai a fornire un resoconto attendibile di quello che è avvenuto sotto i loro occhi), fu stabilito da un rallentamento della moto in prossimità degli “steward dell’Alitalia” (il travestimento usato da quattro dei brigatisti). “Peppe” aveva immediatamente riconosciuto Valerio Morucci, con cui aveva condiviso il liceo alla fine degli anni ’60, e Alessio Casimirri, con il quale aveva militato per anni nel “collettivo Primavalle”. Un attimo di esitazione, poi l’immediato “realizzare” che quegli “steward” sono lì per qualcosa cui è meglio non assistere, apre il gas e scompare.

Un attimo dopo cambia la Storia di questo paese.

Erano anni violenti, lo ricordiamo benissimo. Anni in cui “noi” era un concetto largo abbastanza da comprendere compagni che nel Pci soffrivano la linea filo-Nato di Berlinguer fino alle frange più estreme del “movimento”, gruppi armati compresi. E “fare la spia” era ancora un’infamia senza giustificazione alcuna. Ancora non c’era stata la stagione dei cosiddetti “pentiti”, ancora non era stato cambiato il lessico e le ideologie ad esso collegate.

“Peppe” non corse dalla polizia a dire “so chi è stato”. E i brigatisti non ebbero nemmeno bisogno di dirglielo. Funzionava così. Era un mondo in cui si respirava aria pulita anche quando si sentiva odore di polvere da sparo, fumo di molotov e sentore di lacrimogeno.

Fu un “pentito” – Raimondo Etro – a spiegare ai magistrati (Antonio Marini, per la precisione) chi erano quei due sulla “famosa Honda”. Pur parlando de relato, visto che lui in via Fani non c’era, raccontò che “ad un certo punto sono passati i due cretini di Primavalle ed hanno anche fatto ciao ciao con la manina”.

Lo stesso Etro li indicò allora anche come “possibili esecutori” dell’omicidio del ventunenne Mauro Amato, all’uscita del ristorante “Sora Assunta” di Roma, l’8 luglio 1977. Uno spaventoso “errore di persona”, in quanto il vero obiettivo era invece Domenico Velluto, l’agente di custodia che aveva ucciso Mario Salvi (“er Gufo” di Primavalle) un anno prima, in una traversa di via Arenula. Accusa poi caduta ovviamente nel nulla, visto che si trattava solo di una personalissima “supposizione”. Per l’omicidio di Mauro Amato non è mai stato imputato nessuno.

La presenza di “Peppe” e della sua moto in via Fani fu invece confermata da Valerio Morucci e Adriana Faranda, nel frattempo “pentiti” a loro volta. Biancucci venne anche “riconosciuto” dall’ingegner Marini (il testimone di via Fani contro cui nessuno sparò mai un colpo, tanto meno da quella moto). “Peppe” e Roberta furono interrogati, ammisero di esser passati lì quella mattina. Ma non avevano mai fatto parte delle Br e quindi rilasciati. Anche perché, nel frattempo – gli anni erano passati, la vita era diventata complicata – “Peppe” era stato arrestato per altri motivi: ad un certo punto, da sommozzatore, si era prestato a recuperare un carico di hashish da una imbarcazione affondata al largo di Santa Marinella.

Tutto qui. “Peppe” è morto nel 2010, ma non si è portato dietro alcun mistero. Era stato un compagno simpatico e onesto; poi si era “arrangiato” a vivere, come tanti, ma senza perdere quel tratto distintivo che è stato il segno migliore di una generazione: “nun se fà la spia“.

Si tratta di uno scoop? Macché… La storia fu pubblicata addirittura su Il Messaggero, il 23 aprile 1998, con tanto di nomi e cognomi di “Peppe e Peppa”, come venivano chiamati nel “comitato di quartiere” di vent’anni prima.

Il vero “mistero”, dunque, è come mai una storia nota anche ai giornalisti – almeno quelli più seri – può essere riciclata ancora una volta in altra salsa.

Torna alla mente il caso del “quarto uomo di via Montalcini” (l’appartamento dove Moro venne tenuto prigioniero per 55 giorni). Anni di dietrologia, con in testa il senatore Sergio Flamigni (del Pci, naturalmente), finché non venne arrestato, lo avevano dipinto come il “vero capo delle Br”, naturalmente un “uomo dei servizi segreti” (a scelta: Sismi, Sisde, Cia, Kgb, Mossad, ecc), uno che “parlava almeno tre lingue”… Poi i “pentiti” Morucci e Faranda fecero arrestare Germano Maccari, che ammise di esser stato “l’ingegnere Altobelli” che aveva acquistato l’appartamento insieme ad Anna Laura Braghetti ed era stato lì durante il sequestro. Era – purtroppo per i dietrologi – un normale compagno di Centocelle, ex Potere Operaio, di professione idraulico.

Ricordiamo la prima reazione del sen. Flamigni alla notizia: “allora ce ne deve essere un quinto”. O magari un’intero stadio…

Ma di questa merda colloidale è fatta la dietrologia, soprattutto “ex Pci”, che ha sedimentato un modus operandi praticamente utilizzabile da qualsiasi potere. Basta ripetere all’infinito una serie di menzogne, più o meno abilmente mescolate a qualche verità (Moro fu effettivamente sequestrato, gli uomini della sua scorta furono uccisi davvero, ecc), e ad un certo punto diventa fisicamente e intellettualmente impossibile distinguere il vero dal falso.

È una tecnica – ripetiamolo – utilizzabile soltanto dal potere, perché presuppone un controllo diretto su buona parte dei media più importanti. È un modo di “imporre l’agenda” a tutti i media mainstream, anche di quelli non embedded; e persino di tanta informazione “libera” ma impossibilitata a condurre indagini approfondite.

È una tecnica nazista, non per caso. Elaborata in forma sinteticissima da Joseph Goebbels, il ministro della propaganda del Terzo Reich: «Mentite, mentite, qualcosa resterà».

Merda putrefatta e scarti di idrocarburi.

 

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1 Commento


  • keoma

    Grazie.
    Solo voi e, paradossalmente un sito di destra, avete raccontato questa storia sacrosanta, che in parte ho pure vissuto direttamente …

    Ho militato nello stesso Comitato Proletario di Primavalle dove stavano Peppe Biancucci, Roberta Angelotti, Mario Salvi, Alessio Casimirri e Rita Algranati …

    E, oltre all’opera di chiarezza che state facendo vi ringrazio per quelle parole affettuose su Peppe … le merita veramente …

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