Menu

L”esito finale: “Il manifesto, giornale anticomunista”

Ogni rinnovamento vero è un parto difficile, alla fine di un percorso comunque doloroso. Aufhebung, dicono i tedeschi,  il “superarsi conservando il dna”, generazione dopo generazione. A prescindere dal campo specifico, è un processo che riguarda tutti e e tutte le discipline: scienza, politica, fiilosofia, storia, musica… Si può continuare all’infinito.

E ogni “superare” è anche un po’ “abbandonare” quanto non era un elemento “di lunga durata”, ma solo un prodotto tipico di una certa fase.

Altra cosa è l'”oltrepassare” (überwindung), il lasciar perdere, l’assumere un punto di vista totalmente altro, altri presupposti e valori. Logica vuole che “oltrepassando” si cambi anche nome, identità, definizione di sé.

Quanto accade a “il manifesto” appartiene alla seconda specie, questo è evidente e anche rivendicato in ogni articolo. Logica vorrebbe che cambiasse nome, a cominciare da quell’ostinata testatina – “quotidiano comunista” – che in effetti non trova conferma in nessuno dei testi pubblicati.per scelta della redazione (qualche comunista ci scrive ancora, ma si tratta sempre di “esterni”, ci sembra). Viene il sospetto che si tratti di una scelta commerciale, per conservare il possibile dell’antico “zoccolo duro”; oppure di ragioni legali connesse all’integrità del marchio.

Comunque sia, c’è anche modo e modo di “oltrepassare”. Quello segnalato da Stefano Azzarà, sul blog “Materialismo storico”, è forse uno dei peggiori immaginabili. La “dietrologia fantastorica” su uno dei nomi più importanti della letteratura del ‘900, passato dal campo comunista a quello democratico in seguito all’invasione sovietica dell’Ungheria. Un evento che colpì duramente una generazione di comunisti appena usciti vincitori dalla seconda guerra mondiale, che segnò separazioni, condanne, rotture per anni irrecuperabili. Anche qui in Italia, naturalmente.

Una materia incendiaria e dolorosa che “il manifesto” di Rossanda, Parlato, Pintor aveva trattato spesso, con spirito critico serissimo e nessuna concessione alla dietrologia (che non è una specialità storiografica o giornalistica particolarmente nuova). Questa recensione di un libro che probabilmente sarebbe passato inosservato se non avesse buttato lì l’ipotesi che Camus – insieme all’editore Gallimard – sarebbe stato ucciso dal Kgb, fa esattamente l’opposto. Accetta la tesi senza nemmeno provare a critìcarne le palesi incongruenze, a partire dal fatto che un’intera generazione di intelletuali comunisti che fece nel ’56 la stessa scelta di Albert Camus ha continuato tranquillamente a produrre, vivere, scrivere e pubblicare. Magari con anche qualche soddisfazione economica in più di prima.

Di fantastorie, in questi ultimi 30 anni, ne abbiamo sentite molte (a partire naturalmente dalle “rivelazioni” continue sulla presunta eterodirezione della lotta armata di sinistra, negli anni ’70). Ma proprio Rossanda, ricordiamo, le aveva sempre stroncate senza nulla concedere ai “potrebbe anche essere”; sempre indagando in prima persona, smuovendo coscienze, ricordi, tabù, pregiudizi.

Ecco. Il nuovo “manifesto” non ha alcuna parentela con quello.

*****

L’ossessione anticomunista del Manifesto e la Fantastoria alla Paolo Mieli

Giovanni Catelli: Camus deve morire, Nutrimenti

Risvolto

È il gennaio del 1960 quando l’auto su cui è a bordo Albert Camus, in viaggio verso Parigi, sbanda in pieno rettilineo e si schianta contro un albero a un centinaio di chilometri dalla capitale. Insieme a Camus, muore anche il suo editore e amico Michel Gallimard, che era alla guida.

Dopo più di quarant’anni, dai diari del traduttore e poeta ceco Jan Zábrana emerge un appunto che getta nuova luce su quello che all’epoca venne archiviato come un incidente. Sulla morte di Camus si allunga l’ombra del Kgb, che avrebbe fatto manomettere l’auto su ordine dell’allora ministro degli esteri sovietico Šepilov. Camus, infatti, si era battuto contro l’intervento dell’Urss in Ungheria nel 1956, e in numerosi articoli e discorsi pubblici aveva attaccato personalmente il potente uomo politico russo. Senza contare il suo sostegno alla candidatura al Nobel per Boris Pasternak, scrittore osteggiato e inviso in patria.

A cento anni dalla nascita di Albert Camus, questo volume riapre il mistero della morte dello scrittore francese, muovendosi tra sospetti e testimonianze a caccia di una possibile risposta. Allo stesso tempo, restituisce il clima di un intero periodo storico, grazie a dettagli e aneddoti spesso inediti su figure come Zábrana e Pasternak, che vissero, pagando di persona, l’atmosfera opprimente della guerra fredda.

 

L’epopea di un dissidente
Saggi. «Camus deve morire» di Giovanni Catelli
di Sara Borriello il manifesto 3.4.14

Il nome di Albert Camus è asso­ciato a opere come lo «Stra­niero» o «La Peste», agli studi sul mito di Sisifo. Opere let­te­ra­rie, cer­ta­mente, ma Albert Camus era tanto altro. Gio­vanni Catelli ricorda e sot­to­li­nea pro­prio que­sto aspetto «plu­rale» nel libro Camus deve morire (Nutri­menti, pp. 159, euro 13). Un intel­let­tuale che voleva la giu­sti­zia sociale, che rin­ne­gava ogni forma di sopruso: ecco il ritratto che fuo­rie­sce da que­ste pagine. Lo scopo di Catelli è sve­lare il mistero che da anni grava sulla morte di que­sto scrit­tore, scom­parso a soli qua­ran­ta­sei anni in un inci­dente stra­dale. Una morte piut­to­sto banale, anche a detta dello stesso Camus poco tempo prima del fatto. Per alcuni fu solo una fata­lità, per altri la cosa fu orche­strata a dovere per togliere di mezzo un uomo sco­modo, che par­lava troppo senza curarsi di chi stava al potere. Catelli sostiene con molta con­vin­zione que­sta seconda ipotesi.

Camus era uno scrit­tore «ribelle». Aderì in un primo momento al par­tito comu­ni­sta, per poi diven­tare, secondo l’autore, un anar­chico. L’evento che più di tutti gli altri potrebbe aver cau­sato la sua morte è l’opposizione che, attra­verso i suoi scritti, portò avanti con­tro le poli­ti­che del governo sovie­tico. La que­stione calda che viene ana­liz­zata è quella dell’invasione sovie­tica dell’Ungheria nel 1956. Camus, così come altri intel­let­tuali del suo spes­sore, rispose all’appello degli scrit­tori unghe­resi, che chie­sero soli­da­rietà agli intel­let­tuali «euro­pei». La let­tera che lo scrit­tore pub­blicò in rispo­sta fu una denun­cia rivolta con­tro la Rus­sia e, in par­ti­co­lare, con­tro il mini­stro degli esteri Dmi­trij She­pi­lov.

Que­sto fu, secondo Catelli, una atto di sfida con­tro l’Unione sovie­tica. Attorno a un tale evento ruota la tesi secondo cui la morte di Camus sarebbe stata pro­get­tata dal Kgb, con lo stesso mini­stro She­pi­lov come mandatario. Ma que­sta tesi è da leg­gere come un pre­te­sto per un obiet­tivo, a suo modo, più ambi­zioso: la rivi­si­ta­zione della figura sto­rica di Camus in quanto intel­let­tuale dis­si­dente. Tutto ciò spesso viene tra­la­sciato, dando rilievo solo al Camus scrit­tore vin­ci­tore di Pre­mio Nobel. I cri­tici ten­dono a per­dere di vista la voca­zione sociale e poli­tica, entrambi pre­senti nell’opera di Camus. Il merito di Catelli sta nell’avere ripor­tato alla luce una figura che rischiava di scom­pa­rire die­tro tomi di ana­lisi let­te­ra­ria, di averle ridato luce e colore, spes­sore, vita. Un altro aspetto rile­vante è la forma che Catelli sce­glie di dare a una mate­ria così tra­sver­sale come la rico­stru­zione di una per­so­na­lità storica.

Il libro è veloce, leg­gero, asso­lu­ta­mente acces­si­bile e chiaro, senza nes­suna con­ces­sione alle reto­ri­che dell’Accademia. Catelli è sin­te­tico, ma mai troppo gior­na­li­stico, nel senso che la sua scrit­tura somi­glia più a un romanzo, una sto­ria di fan­ta­sia più che a un dos­sier su un omi­ci­dio. Il lato posi­tivo è che ciò resti­tui­sce al let­tore la dimen­sione di suspense e imme­de­si­ma­zione che può donare un romanzo; il lato nega­tivo, invece, è che la tra­gi­cità di que­sta figura sto­rica ine­vi­ta­bil­mente si smussa e cade un po’ nel domi­nio dell’irreale.

Tut­ta­via un rischio del genere andava corso per rag­giun­gere il risul­tato finale e per distin­guere quest’opera dalle solite bio­gra­fie, che hanno come unico scopo quello di for­nire una rico­stru­zione sto­rica. Catelli cerca di andare oltre e, per buone parte del libro, ci rie­sce, rega­lando al let­tore il tra­sporto let­te­ra­rio unito alla verità sto­rica di un grande personaggio.

 

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

2 Commenti


  • Fred

    Sul Manifesto leggo sempre volentieri gli interventi di Manlio Dinucci, Geraldina Colotti e pochissimi altri. E a proposito di “trasformismo” anti-comunista, vi invito anche a leggere un articolo uscito qualche settimana fa sul Manifesto dal titolo: “Un mito duro a morire”, dove tra allusioni velate e quant’altro, si getta fango addosso ad un grande compagno come è stato in realtà Pietro Secchia.


  • Luciano

    Sono stato un lettore assiduo del quotidiano sin dalla sua prima uscita,il 28 aprile del 1971,dopo aver acquistato nelle rare librerie ed edicole “di movimento”anche la rivista diretta da Magri e Rossanda a cui collaborava anche Massimo Caprara,Luciana Castellina e Aldo Natoli,insomma i” radiati”dal Pci.Proprio il contenuto e il titolo del primo numero costituiva, per la nomenklatura, un vero e proprio atto di rottura,avendo avuto il coraggio di scrivere che “PRAGA E’SOLA.Bastò questo a far riunire l’allora collegio dei “probiviri”per dichiarare fuori dal partito(sic) i cinque “dissidenti”Pensando ad allora,e al titolo del primo numero,si è presi dallo sconforto,più che dalla rabbia,e ci si chiede come sia stato possibile che si sia passati da un gigante del giornalismo”militante”come Pintor,alle elucubrazioni vendoliane di oggi.Ma tant’è,quando si pensa che la lotta di classe sia scomparsa e l’unica contraddizione rimasta sia quella fra capitalismo”temperato, buono e riformabile” e capitalismo “senza regole”,l’approdo non può che essere questo,di un quotidiano cioè che alla classe non serve più,che è,anzi dannoso per le lotte future,così come lo è stato per tutti gli anni successivi ai primi anni ’70.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *