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L’Unione Europea di fronte a se stessa

Tra poco meno di un mese si apre il semestre europeo presieduto da Renzi e dall’Italia. Questo rappresenta un test ambivalente sia sul piano della governance che su quello dell’opposizione popolare e delle alternative. Può essere l’occasione per portare più a fondo il confronto su questioni rilevanti abbondantemente rimosse o sottovalutate ma che peseranno come macigni sulle prospettive del mondo reale nel quale ci è toccato di vivere.

La Commissione Europea ha pubblicato in questi giorni un documento sulla Strategia europea di sicurezza energetica. Si tratta per ora solo di una proposta che ha l’obiettivo di definire le linee guida e di proporre azioni per affrontare le principali sfide energetiche che l’UE si troverà ad affrontare nel breve, medio e lungo periodo. L’Unione Europea infatti importa il 53% dei suoi consumi totali, 90% nel caso del petrolio e 66% in quello del gas naturale. E’ evidente dunque il livello di “vulnerabilità” di uno dei principali blocchi economici del mondo in termini di risorse energetiche, il che rende l’Unione Europea un anello ancora debole su questo terreno. E’ evidente come i due conflitti scatenati alle porte di casa – a sud in Libia e ad est in Ucraina – segnino un livello elevato di questa vulnerabilità.

Un intervento militare fortemente voluto da una potenza europea come la Francia in Libia e una aperta ingerenza di paesi europei come Germania, Polonia e repubbliche Baltiche in Ucraina, hanno provocato un doloroso paradosso: la ricerca di una invocata stabilità ha provocato invece il massimo di instabilità. E adesso metterci rimedio sta diventando sempre più difficile, oltrechè sanguinoso per le popolazioni coinvolte sia in Libia che in Ucraina. Una volta deposto e ucciso Gheddafi o deposto e costretto alla fuga Yanukovich, le operazioni di “regime change” non hanno prodotto nuove e accondiscendenti leadership nei paesi destabilizzati.

Anche perchè a rendere le cose difficili per l’Unione Europea non sono tanto i gruppi armati in Libia o le repubbliche popolari secessioniste nell’Ucraina orientale, quanto il primus inter pares tra i paesi alleati: gli Stati Uniti.

Gli Usa hanno la percezione esatta della vulnerabilità energetica dei loro partner/competitori europei. Dopo aver incassato la sfida dell’avvento dell’euro, della competizione sulle tecnologie e della barriera deflazionista che ha impedito agli Usa di scaricare sull’Europa gli effetti inflattivi del loro quantitative easing come nei “bei tempi passati” del Washington Rule, gli Stati Uniti hanno deciso di giocare duro con e contro i loro alleati nella Nato. Hanno così cominciato a colpire sui nervi scoperti. Hanno lasciato la Francia giocare alla grandeur nella destabilizzazione della Libia e hanno bruscamente alzato l’asticella del conflitto con la Russia. In pratica due dei principali serbatoi delle forniture energetiche dell’Europa sono diventati incerti e i rubinetti si stanno chiudendo, aggiungendoci un pizzico di cinismo attraverso cui i danneggiati (gli europei) dovrebbero anche mostrarsi soddisfatti di essersi fatti male da soli.

Non solo. Gli Stati Uniti stanno infatti agendo apertamente non solo per allargare la faglia tra Unione Europea e Russia ma anche quella all’interno della stessa Ue tra paesi fondatori e paesi della periferia est. Nel suo viaggio in Polonia che ha preceduto il vertice del G7 a Bruxelles, il presidente statunitense non solo ha incontrato il “suo uomo di cioccolata a Kiev” cioè il neopresidente ucraino Poroshenko (che sin dal 2006 era ritenuto l’interlocutore privilegiato di Washington) ma ha anche incontrato a parte i leader cechi, slovacchi, baltici, bulgari e rumeni. Una sorta di corte degli agenti statunitensi dentro l’Unione Europea e la Nato. E in questo contesto ha reso noto di voler stanziare quasi un miliardo di dollari per installare soldati e mezzi militari statunitensi nei paesi dell’Europa dell’Est, molto più a oriente delle storiche basi militari di Ramstein in Germania o di Aviano in Italia, molto più a ridosso della Russia.

Le dichiarazioni bellicose di Obama contro Putin e la Russia lasciano intravedere che l’asticella della tensione verrà tenuta alta o alzata ulteriormente perchè, come ricorda Brzezinski nella sua opera omnia (“La Grande Scacchiera”), la Nato è lo strumento principale per interferire sulla politica europea proprio in quanto fattore politico-militare, ovvero il punto ancora debole della UE per potersi definire e agire come un polo imperialista compiuto.

Alla Conferenza annuale sulla sicurezza di Monaco (gennaio), avevamo visto i ministri degli Esteri e della Difesa tedeschi cominciare a parlare il linguaggio della grande potenza e non solo sul piano economico. La Francia continua a portare come unica dote – per non essere retrocessa tra i Pigs – il suo arsenale nucleare e un discreto complesso militare-industriale e coglie ogni occasione – con il gollista Sarkozy o con il galletto Hollande – per mostrarsi bellicista e oltranzista oltre ogni raziocinio. L’Italia del partito di Maastricht (Amato, Ciampi, Prodi, Monti, Letta, Renzi) galleggia, evoca scenari distensivi ma poi ha detto di si a tutto: dalla base di Vicenza al Muos, dagli F35 fino alla clamorosa doppia firma di Letta al G8 dello scorso anno a Mosca, sia sul documento voluto dagli Usa contro la Siria che al documento voluto dalla Russia contro l’intervento in Siria.

La politica militare e le fonti energetiche restano dunque i due punti di vulnerabilità delle ambizioni al polo imperialista europeo come competitore globale. Da qui si capisce la posta in gioco e il senso delle affermazioni di Martin Feldstein quando profetizzava nel 1997 che “l’introduzione dell’euro avrebbe portato alla discordia e alla guerra sia tra gli Stati Uniti e l’Europa che dentro l’Europa”.

Adesso ci siamo dentro fino al collo. Le guerre e l’instabilità alle periferie sud ed est dell’Unione Europea sono la conseguenza di questa sfida competitiva su scala globale, una classica competizione interimperialista direbbero – e ragione – i classici.

Con la crisi che continua a mordere, la lotta per le risorse che si fa più violenta, con i rimedi con non funzionano e lo sviluppo disuguale che si fa più acuto – il salto della cavallina, direbbe Alvin Toffler – i pericoli di una rottura storica, della guerra, si fanno più reali, quasi materializzabili. Se ne accorgono quelli che hanno a disposizione tutte le informazioni, non se ne accorgono invece quelli che dovrebbero mettersi di traverso. Per venti anni li hanno tenuti ben rincoglioniti con l’antiberlusconismo, adesso li distraggono con una leadership giovanile e ansiosa di fare il lavoro sporco che attendevano di fare sin dal 1992, proprio con la nascita di quell’Unione Europea che in tanti si ostinano a non voler vedere come il problema. L’occasione del Controsemestre popolare in opposizione al semestre europeo a guida italiana offre l’opportunità di recuperare il tempo e i passi perduti. Nella piattaforma per la manifestazione del 28 giugno e della campagna per il controsemestre per la prima volta, dopo troppo tempo, c’è anche il tema dell’opposizione alla guerra. C’è tanto da lavorare e da qualche parte occorre cominciare.

 

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