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Mafia capitale. Chi vince e chi perde

Nelle interpretazioni – sempre un po’ dietrologiche – sul “a chi giova” l’indagine che ha stravolto lo scenario politico della capitale non sono in molti a vedere l’ombra del “mondo di sopra”. Poi un commento di prima pagine de Il Sole24Ore in qualche misura mette il “cappello imprenditoriale internazionale” sul cosa fare dopo; e anche sul danno che è stato pagato fin qui all’intermediazione non convenzionale delegata al “mondo di mezzo”.

Ne esce dunque rafforzata la prima impressione: che questa inchiesta arrivi a fagiolo per consegnare ai poteri economici veri – investitori internazionali in primis – un “ambiente” ripulito da mezzani diventati alla lunga impresentabili, ed anche molto esosi nel fornire i propri servizi.

Anche la esternalizzazione del welfare, progressivamente affidata negli ultimi venti anni al “terzo settore”, al cosiddetto “privato sociale”, è diventata nella crisi un costoinsopportabile. Il welfare va chiuso, sbaraccato, ridotto ai minimi termini e possibilmente affidato al puro volontariato (dove la concorrenza dell’infrastruttura “cattolica” è di fatto senza concorrenza). Quindi anche i Buzzi perdono il proprio “valore d’uso”, e vedono perciò polverizzato il proprio valore di scambio.

Le clientele politiche sono insomma destinate a uscire di scena o almeno a ridimensionarsi drasticamente. Per il buon motivo che il consenso elettorale non è più una merce indispensabile. Se il presidente del consiglio non eletto può definire un “problema secondario” l’astensionismo di massa, addirittura quando diventa maggioritario, dovrebbe esser chiaro che tener lontani dalle urne i cittadini è diventato un obiettivo. Perché dunque pagare – e così tanto – chi dovrebbe portarceli? Tanto l'”offerta politica” deve a sua volta esser ridotta al minimo, con l’Italicum o con altre ipotesi di legge elettorale altrettanto “semplificanti”.

Il progetto ideale è dunque quello di un paese-Disneyland, incentrato su turismo e poco altro, con forti investimenti esteri (quelli “nazionali”, ormai, sono praticamente nulli), senza rappresentanza politica per il “mondo di sotto”, senza corpi intermedi (sindacati, partiti, associazioni, ecc) incaricati di “portare al centro” decisionale istanze sociali differenziate. Un paese “purificato” dai costi impropri, quelli inutili ai fini del profitto dei grandi gruppi.

Quindi senza alcuna “banca Carminati” che non sia riuscita – nei venti anni precedenti – a darsi una veste e una struttura societaria accettabile, in regola, “affidabile”.

Qui di seguito il commento di Isabella Bufacchi, su IlSole24Ore di oggi.

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Il danno all’affidabilità che spaventa gli investitori

Isabella Bufacchi

La capitale è il biglietto da visita di un Paese, è a sua immagine e somiglianza. È crocevia di imprenditori e investitori esteri, è un hub per la politica, l’economia, la finanza e la cultura, una rete formidabile di scambi, incontri e affari, il luogo dove il mercato domestico si fonde con quello internazionale. È la capitale per prima che deve farsi carico di attrarre l’investimento diretto estero, quell’«Ide» che per gli italiani è motivo di imbarazzo, non di vanto. Nel periodo 2008-2012, dei 1.400 miliardi di dollari annui in giro per il mondol’Italia ne ha intercettati 12 medi annui contro 66 del Regno Unito, 37 di Francia e Spagna, 25 della Germania.
L’Italia, un Paese che non cresce e ha uno Stato superindebitato, ha bisogno disperatamente di aumentare i flussi degli investimenti dall’estero – diretti e di portafoglio – per finanziare infrastrutture, sostenere ricerca e sviluppo, ricapitalizzare Pmi. La crisi multipla europea, prima finanziaria-bancaria, poi del debito sovrano e ora economica ha portato gli ultimi governi (Berlusconi, Monti, Letta, Renzi) a ripensare e riscrivere le politiche di attrazione dei capitali dall’estero. Si va dai «regimi agevolati e semplificati per gli investimenti diretti esteri» al «rafforzamento dello sportello unico doganale e delle imprese»; dalle «misure di prevenzione e repressione della corruzione e illegalità nella Pa» alla «regolazione delle lobby», dallo sviluppo di «chiari modelli di partenariato pubblico-privato» alla «disciplina speciale per gare, bandi, procedure e contratti». Sulle slides in powerpoint le misure suonano molto market-friendly.

Poi arriva “Mafia Capitale” e spazza via in un colpo le belle parole e i buoni propositi. La mafia non è una novità per gli stranieri, certamente. E che la Capitale avesse problemi di ogni sorta lo si sapeva sui mercati da tempi immemorabili, a causa anche del suo debito-monstre ingigantitosi in un ventennio di cattive gestioni. È passata alla storia l’operazione di fine anno nella City, dicembre 2007, con cui un bond capitolino (su uno stock di debito allora da 6,7 miliardi) allungato dal 2033 al 2048. E quando Gianni Alemanno approdò in Campidoglio la prima denuncia fu sul debito da «9,7 miliardi», salito poi a quota 12 miliardi nel 2010. Se non fosse stato per il susseguirsi di leggi speciali, finanziamenti ad hoc dal Tesoro e una sorta di bad bank, decisi da questo e quel Governo a sostegno dei conti della Capitale, il rating del Comune di Roma si sarebbe già aggiunto ai cumuli di spazzatura che degradano la città. Lo Stato ha puntualmente buttato la polvere romana sotto il tappeto, pur di salvaguardare il rischio-Italia: perché la capitale è il biglietto da visita del Paese come anche del rischio-Paese. Ora i noti problemi di Mafia si uniscono ai noti problemi della Capitale.

 

Non c’è dunque da sorprendersi se ieri Matteo Renzi abbia aperto il suo videomessaggio riferendosi alle inchieste di Roma. «Apri un giornale, apri un sito, accendi la tv, tutto ti porta a parlare di ciò che sta accadendo a Roma», è sbottato. Quei giornali, quei siti, quelle tv, sono anche all’estero, non solo in Italia. Il danno che l’inchiesta su “Mafia Capitale” rischia di fare nella percezione e nell’affidabilità dell’Italia sui mercati finanziari e nel mondo degli affari è difficile da misurare. Ma c’è un danno. La corruzione corrode il business, scoraggia gli investimenti, frena il flusso dei capitali dall’estero. E la promessa che giustizia sarà fatta non tiene in un Paese dove, tra le tante riforme strutturali ancora da fare, si annovera pure quella della giustizia.
Secondo una stima di McKinsey, se l’Italia riuscisse a portare il livello dei flussi di investimento diretto all’estero in entrata (Ide) uguale a quello francese, cioè 37 miliardi di dollari annui e non 12 miliardi come da stime citate in un’audizione di Confindustria alla Camera, il Pil aumenterebbe dello 0,6%. Mafia Capitale non aumenta il Pil.

 

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