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Renzi sposa Roma Olimpica

Passerella d’una nazione – Getta il cuore oltre l’ostacolo l’atleta-premier e scioglie i dubbi di fronte a vertici dello sport e ai suoi campioni. Così l’Italia, la sua Italia che muta e osa, raccoglie la sfida e si candida. Per i Giochi Olimpici estivi, quelli mastodontici e prestigiosi. Appuntamento fra un decennio, a Roma 2024. Ci s’impegna per vincere, niente amatorialine decoubertiniane, l’orgoglio renziano punta in alto e il proscenio sportivo diventa una formidabile macchina di propaganda e consenso. I dubbi di Monti del 2012 sono fugati con poche battute: la crisi economica persiste ma occorre combatterla con la forza dell’ottimismo, dell’audacia di chi accetta le sfide e sa osare, del prestigio di chi si mette in gioco per rilanciare una nazione, cercando il successo. Quanto personale, di cerchia o effettivamente collettivo si potrà scoprire strada facendo. La candidatura troverà concorrenti agguerrite: Parigi e Berlino, ma anche Baku e Doha. Il nodo sarà sciolto dal Comitato Olimpico Internazionale nel settembre 2017. Sperando non si ripetano i flop che la capitale già subì per i Giochi del 2004 e prim’ancora con Milano 2000. Certo l’attuale nomea di Roma s’associa a mafia, corruzione e malaffare, il biglietto da visita di amministratori e politici è tutt’altro che onorevole, le velleità potrebbero rivelarsi un gioco pericoloso per promotori e padrini politici.

Nuove virtù e vizi atavici – Però Renzi non ha dubbi: l’occasione può trasformarsi in una straordinaria opportunità di risalita di affari (stavolta trasparenti), impegno per imprese e servizi (facendo piazza pulita di camarille e lobbies), occupazione per giovani e meno giovani (un lavoro che difficilmente durerà nel tempo). Non depongono a favore certe ferite per il pubblico erario di altre iniziative che hanno coinvolto dirigenti del Comitato Olimpico Italiano e l’hanno condotti davanti ai giudici per una gestione, nella migliore delle ipotesi, scarsamente oculata di lavori e impiantistica per grandi avvenimenti sportivi. Prendiamo “Italia ‘90” il cui Comitato Organizzatore era presieduto, dall’uomo per tutte le stagioni Luca Cordero di Montezemolo. Una spesa di oltre 7.000 miliardi di lire, di cui 6.000 miliardi di provenienza statale, 1.250 milioni il costo degli stadi (l’80% in più dei preventivi iniziali). Si lanciò una non verità con la storia del presunto obbligo della Fifa della copertura degli impianti, norma mai scritta che verrà sbugiardata nell’edizione seguente negli Usa dove buona parte degli spalti risultava old style, ovverosia scoperti. Per quelli italiani ci fu la corsa alla copertura, appaltando lavori a colossi dell’edilizia (Impregilo, Ligresti) e aziende di famiglia come nel caso dei Matarrese, imparentati con l’allora presidente della Federcalcio Antonio. Il “cappello” dello stadio Meazza di Milano impediva all’erba del campo di ossigenarsi e per varie stagioni il manto venne sostituito dopo ogni partita di Milan e Inter. Una spesa folle per il Comune di Milano, quasi mai rimborsata dai club.

Superstadi mondiali nell’era del Caf – Sull’Olimpico di Roma si sviluppò una diatriba perché la copertura limitava la veduta della collina di Monte Mario, vincolata paesaggisticamente. Ma ancor più perché lo stadio – che venne quasi completamente abbattuto e ricostruito, ma non adattato alle normative sulla sicurezza già allora vigenti (ci si pensò in seguito) – dai 90 miliardi di lire del progetto iniziale finì per costarne oltre 212. Per lo scandalo della lievitazione dei costi fu indagata l’intera Giunta Coni, alla fine la magistratura sentenziò che “il fatto non costituiva reato” e nessuno rispose per gli incredibili aumenti. Furono pagate le classiche tangenti? Non è stato provato, ma quella crescita dei prezzi non era solo frutto di aumenti di materie prime, né di costi di manodopera. Altri stadi: il Friuli di Udine, il San Nicola di Bari sovradimensionati per l’utilizzo cittadino, rimasero delle cattedrali d’una megalomanìa presto ridimensionata dal ridotto flusso di spettatori. Il Delle Alpi di Torino (costato 226 miliardi) venne rottamato nel 2009 e sostituito con un impianto più piccolo (41.000 posti), stavolta costruito con le casse societarie (juventine). E’ bene non dimenticare pseudo servizi approntati in tutta fretta alla vigilia della manifestazione e mai resi funzionanti come talune stazioni di trasporto romane. La più famosa, l’Air Terminal dell’Ostiense, rimase a lungo abbandonata rientrando di recente nel business di mister Farinetti che lì ha posto il mega ristorante e supermarket di Eataly. E se tutto ha un ritorno la stazione del treno Italo, di cui Montezemolo è socio, non è spuntata lì per caso.

Tangentopoli e post – I ben corposi scandali di Tangentopoli con Enimont e quant’altro resero gli affarucci dello sport italico poca cosa rispetto a ruberie e truffe che, nonostante inchieste e condanne, sono proseguiti imperterriti, caratterizzando il malcostume di ogni dirigenza politica e amministrativa. Purtroppo altri appuntamenti gestiti dal Coni in tempi recenti: le Olimpiadi invernali di Torino nel 2006 e i mondiali di nuoto a Roma del 2009 hanno lasciato macchie per gestioni allegre, sprecone del pubblico denaro, appalti torbidi, affarismo amicale. Dei tre miliardi piovuti sui Giochi torinesi solo uno è rientrato con sponsor e vendita dei diritti tivù, chiacchierate le scelte di luoghi adattati per piste (quella dei bob di Cesana Pariol) la cui natura è stravolta. Nella romana Tor Vergata, la città dello Sport di Calatrava (250 milioni di euro appaltati alla Vianini di Caltagirone, oltre 600.000 metri cubi avviati e lasciati marcire), rimase incompiuta. Le strutture di Ostia e San Paolo, entrambe aumentate nei costi (42 milioni di euro finali) non sono mai state usate dagli atleti, la prima perché la piscina è irregolare (un metro in più), la seconda perché non terminata. Le indagini di Corte dei Conti e Procura di Roma hanno anche evidenziato un utilizzo di denaro pubblico per riadattare strutture private (le famose piscine di vari circoli romani) indicate come “luoghi d’allenamento atleti” che raramente hanno fatto una sola bracciata in quelle vasche pagate coi fondi della manifestazione. Negli strascichi processuali, che implicavano la “cricca” di Balducci e Anemone più super commissari come Rinaldi e l’onnipresente Bertolaso, sono finiti dirigenti di società ora saliti nel Gotha dello sport nazionale. Nel 2013 è intervenuta la loro assoluzione motivata dalla classica “l’insussistenza del fatto”. Ora, folgorati sulla via delle cariche, parlano di futura “trasparenza religiosa”.

In un’Italia inguaribilmente traffichina che camuffa l’illegalità, e in molti casi reati penali gravissimi, con proclami di grandi intenti non deve prevalere l’immobilismo. Il Paese del fare dovrebbe trovare il suo spazio; chi non può più averlo è il vischioso mondo del malaffare insinuato ovunque ci siano incarichi pubblici. 

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