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Come si rapina una prima pagina

Una canagliata di bassa lega, di quelle che fanno capire in quali abissi di possa cadere l'”informazione dei professionisti”. Il Fatto Quotidiano – che pure ogni tanto ha tirato fuori qualche guizzo investigativo serio – ha sbattuto in prima pagina, oggi, uno dei compagni più seri e integri degli ultimi 50 anni: Sante Notarnicola.

Incomprensibile il motivo giornalistico: Sante non produce da molto tempo “carne da vendere” sul fronte della cronaca di “nera”. Scrittore, poeta riconosciuto come tale anche da autentici mostri sacri della letteratura italiana – Primo Levi, Erri De Luca, Valerio Evangelisti, Pino Cacucci e decine di altri – per diversi anni animatore di uno dei locali più frequentati dalla Bologna capace di pensare (il Mutenye, al Pratello, cui è stato dedicato anche un libro), interlocutore paziente di intellettuali e studenti.

Perché, allora, quell’oscena prima pagina da “milano spara”, tra passamontagna e canna di pistola puntata sull’ignaro lettore? Perché quel titolo da manualetto per psicotici “come si rapina una banca”? Che fa quasi ridere, pensando a come era fatta una banca 50 anni fa e come è diventata oggi…

Persino il solito fluviale editoriale di Marco Travaglio, oggi, era diventato smilzo per far posto alla “sparata” fotografica. Il direttore e il desk centrale, insomma, ci avevano puntato molto. Oppure per un giorno Travaglio non aveva granché da dire (non che manchi la materia su cui esercitarsi, volendo).

L’intervista si è rivelata complicata per il povero cronista che era riuscito nella non titanica impresa di farsi invitare a cena. Sante non concede nulla, non si maschera. E’ una persona pulita, integra, che ritiene un dovere politico spiegare ogni volta la verità che ha pagato con l’ergastolo. Qualche volta incontra un interlocutore capace di capire, qualche volta no. Stavolta no.

Quel che interessa al signor Emiliano Liuzzi è un po’ di “colore”, qualche dettaglio da filmetto d’azione senza troppe complicazioni psicologiche. Tantomeno politiche. Come fai a spiegare a un signore cresciuto alla corte di Travaglio che il mondo non si divide affatto – e in nessun luogo – tra “legalità” e “illegalità”? Come fai a fargli capire che se l’umanità avesse adottato questo criterio quale fondamento della propria azione starebbe ancora a pitturare la volta delle caverne? Come fai a fargli capire che la ricerca della giustizia (politica, sociale, reddituale, ecc) è in perenne conflitto con la legalità (l’ordine costituito, insomma).

L’abisso culturale tra Sante e questo tipo di giornalismo è immenso. Aggravato dalla distanza di consapevolezza storica, forse addirittura di conoscenza della storia. Nessuno che abbia letto o meglio ancora fatto qualcosa di “politicamente rilevante” ignora che la politica è conflitto, non semplice amministrazione dell’esistente. Che la politica del cambiamento – quello rivoluzionario come anche del suo opposto, quello reazionar-renziano – è costantemente al limite e spesso al di là della semplice legalità costituita, perché va cercando una nuova legalità da costituire. I nostri nonni partigiani erano banditi per la teppa fascista e gli occupanti nazisti, alleati sospetti per gli “alleati liberatori”, eroi del riscatto per la parte migliore del paese. Così come Fidel per il popolo cubano (“bandito” sotto Batista) e altri mille rivoluzionari cui è toccata la fortuna di vincere.

Da che mondo è mondo la Storia procede per rotture più meno violente, quel che prima era illegale o immorale diventa nuova legge. Che verrà prima o poi infranta da chi diventa espressione di una tensione sociale ad un ulteriore cambiamento.

Sante ha questa consapevolezza. Questa statura etica, politica, intellettuale. Al Fatto Quotidiano, probabilmente, non potranno mai capirlo. Però un pizzico di decenza potrebbero coltivarlo…

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