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Grecia fuori dall’euro? Per Berlino si può fare…

Può darsi voglia essere soltanto un segnale mirante a spaventare gli elettori greci, che il 25 andranno alle urne per determinare la composizione del prossimo parlamento. Ma è comunque un segnale della crisi senza vie d’uscita in cui si è venuta a trovare tutta la costruzione dell’Unione Europea.

Lo Spiegel – il giornale più letto e venduto in Germania – riferisce che sia la cancelliera Angela Merkel, sia il luciferino ministro dell’economia Wolfgang Schaeuble, sarebbero diventati possibilisti sull’uscita della Grecia dall’euro e quindi, in parte, dalla stessa Unione Europea.

Il ragionamento è puramente contabile (neanche “economico”), come spesso accade a Berlino. Per i vertici tedeschi, semplicemente, sarebbero ora diminuiti i rischi di “contagio” della tragedia greca verso altri paesi dell’Unione, a  cominciare ovviamente da Spagna, Italia, Portogallo, Cipro.

La notizia riportata dal giornale non contiene molti dettagli, quindi è difficile capire come mai ciò che era per Berlino impensabile solo pochi mesi fa sia oggi diventato “trascurabile”. Una ipotesi alquanto semplicistica è che si voglia ancora una volta marcare la distanza con quanto Mario Draghi, presidente della Bce, ancora ieri ha affermato di voler fare: acquisti di titoli privati e pubblici per “iniettare liquidità” nel sistema, sperando che ciò contribuisca a far ripartire un’economia continentale stagnante ed evitare di precipitare nella deflazione.

Draghi ha assicurato anche di aver visto “unanimità” su questa startegia all’interno dell’esecutivo Bce, il che equivale a dire “anche Bundesbank è d’accordo”. Ma non c’è praticamente occasione in cui Jens Weidmann, governatore della banca centrale tedesca, o lo stesso Schaeuble non mostrino insofferenza per l’impostazione di Draghi.

Ma dallo storcere la bocca al considerare irrilevante la prima uscita di un paese dal sistema monetario comune ce ne corre…

La Germania si è costruita in questi anni una solida fama di indifferenza per le conseguenze delle proprie scelte economiche sugli altri partner continentali, ma sempre giustificata – con metafora scolastica – con la necessità dei singoli paesi di “fare i compiti a casa”. L’espulsione è però, per usare la stessa metafora, una misura disciplinare molto più grave. Specie dopo aver condotto un paese-laboratorio come la Grecia dentro il baratro, aggravando con scelte dementi, o soltanto “nazionalistico-tedesche”, una crisi che è costata fin qui il 25% del Pil di Atene e una disoccupazione di massa da dopoguerra.

Se così fosse, l’intero impianto dell’Unione Europea viene destabilizzato dall’interno, perché il paese più grande e forte della Ue dimostrerebbe praticamente di non considerarla affatto “irreversibile” (altro termine usato spesso sia da Draghi che dall’intero establishment di Bruxelles). Di fatto, ogni paese potrebbe seguire la stessa strada o subire lo stesso destino (a seconda della sponda ideologica scelta: “si può sopravvivere fuori dall’euro” oppure “fuori dalla moneta unica si muore”), mettendo perciò in forse la necessità di proseguire in un’avventura che ha ormai settant’anni si storia.

Per ora, tra gli osservatori più attenti, prevale l’interpretazione del “segnale” mandato ad Atene perché gli elettori non votino Tsipras, fautore di una “ristrutturazione del debito” che comporterebbe di fatto una perdita tra il 70 e l’80% della cifra “prestata dagli altri paesi dell’Unione. Fin qui, però, c’era satato anche un tentativo, tramite un altro tedesco di peso- il sottosegretario al lavoro, Jörg Asmussen – di trovare un margine di compatibilità tra un eventuale governo Syriza e la permanenza della Grecia nell’euro. Proprio mentre lo stesso Schaeuble andava ammonendo «se Atene intraprendesse un altro percorso sarebbe difficile [mantenere un rapporto positivo]. Le elezioni non cambiano gli accordi raggiunti con il Governo greco. Ogni nuovo governo dovrà rispettare gli accordi raggiunti da quello precedente».

O queste trattative sono andate storte, oppure Berlino sta alzando il prezzo drammatizzando la situazione.

In ogni caso, si tratta di un “innalzamento dei toni” che evoca direttamente la possibilità di uscita, quindi di scioglimento dei vincoli sottoscritti con i trattati. Non proprio una bazzeccola…

 

 

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