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Le relazioni pericolose tra cancellerie occidentali e jihadisti

Chi semina vento raccoglie tempesta. Più semplicemente un detto popolare dice di “non sputare mai per aria”. La legge del contrappasso non è una legge scientifica eppure in qualche modo agisce concretamente, soprattutto nelle relazioni internazionali. Solamente nell’ultimo anno, si sono verificati episodi rivelatori di quanto l’avventurismo degli apprendisti stregoni occidentali – Francia inclusa – abbiano creato tutte le condizioni per accumulare una dietro l’altra le contraddizioni che gli stanno esplodendo tra i piedi.

Dietro i due attacchi suicidi con esplosivo che il 29 e il 30 dicembre 2013 colpirono la città russa di Volgograd (la ex Stalingrado) facendo 33 morti, era stato indicato come organizzatore il jihadista ceceno Doku Umarov, autoproclamatosi emiro del califfato del Caucaso e nemico pubblico numero uno delle autorità russe. Alla sua organizzazione erano stati accollati anche gli attentati che nel 2011 sconvolsero Mosca, con 80 morti tra le strade della capitale e all’aeroporto di Domodedovo. Nel 2014, con l’avvicinarsi delle Olimpiadi di Sochi (sempre in Russia) svoltesi dal 7 al 23 febbraio, le cellule del terrorismo jihadista coordinate da Umarov e dal suo vice Aslan Byutukayev avevano ricevuto l’ordine di rendere insicura non solo la regione sul mar Nero, ma tutto il territorio della Federazione.

Il 31 luglio 2013 il capo dell’intelligence saudita, il principe Bandar, fu ricevuto a Mosca da Putin. Durante i colloqui avrebbe affermato che non avrebbe potuto impedire le azioni terroristiche degli islamisti nel Caucaso, se la Russia non avesse cessato il suo sostegno alla Siria. Avvertimento ribadito in una seconda riunione bilaterale tenutasi il 3 dicembre del 2013.

Alla vigilia del primo colloquio tra Russia e Arabia Saudita, l’emiro del Caucaso Doku Umarov aveva annunciato attentati in occasione dei Giochi Olimpici di Sochi. Ma Umarov, abbastanza marginalizzato dal jihadismo internazionale, a giugno aveva invocato di andare a combattere in Siria (insieme agli uomini del principe Bandar) per acquisire le competenze necessarie per “liberare il Caucaso.”

Nonostante la gravità dell’attentato e l’alto numero di vittime civili, le “democrazie occidentali” mantennero il boicottaggio delle Olimpiadi invernali di Sochi che si sarebbero svolte poco più di un mese dopo, motivandolo con la crisi apertasi nelle relazioni con la Russia sulla vicenda Ucraina. Per il boicottaggio si espressero il presidente statunitense Obama, la cancelliera tedesca Merkel, il premier inglese Cameron, il presidente francese Hollande, la vicepresidente della Commissione Ue Viviane Reding.

Il premier italiano di allora, Gianni Letta, venne criticato dalla grande stampa “democratica” per non aver partecipato al boicottaggio. “Enrico Letta può avere le sue ragioni per aver deciso all’ultimo momento di presenziare alla cerimonia inaugurale delle Olimpiadi invernali di Sochi. Ma i torti prevalgono sulle ragioni. Uno su tutti, quello di infrangere un fronte occidentale del no, che va da Obama alla Merkel, passando per tutte le principali potenze della Ue e la stessa Commissione europea” scrisse su La Repubblica del 4 febbraio 2014 Paolo Garimberti.

Tutto questo segnala un atteggiamento quantomeno vergognoso delle cancellerie delle principali potenze occidentali – Usa, Francia, Gran Bretagna, Germania e della Commissione Europea ad eccezione dell’Italia del povero Gianni Letta defenestrato da Renzi – verso un paese pur duramente colpito da attentati terroristici degli jihadisti. Quella solidarietà totale, acritica e indiscutibile, che oggi viene invocata dalla Francia e ieri dagli Stati Uniti, era stata invece negata alla Russia. Come dire, che di fronte agli attacchi terroristici non siamo tutti uguali. Sarebbe sufficiente pensare a quanti morti hanno provocato senza scatenare ondate emotive a Parigi o a Roma le bombe e autobombe esplose a decine nei mercati di Baghdad o delle città irachene o siriane: migliaia, e dove la stragrande delle vittime erano musulmani.

Le complicità europee alle reti dell’islam combattente

Nel settembre del 2014 il coordinatore europeo contro il terrorismo, Guilles De Kerchove stimava che “più di tremila europei si sono uniti ai jihadisti dello Stato Islamico in Iraq e Siria”. Un mese dopo un rapporto dell’Onu stimava il loro numero in Siria e Iraq in circa 15 mila provenienti da 74 Paesi. Ai primi di dicembre 2014 un report della Cia, reso noto dalla televisione saudita al-Arabiya, riferiva di 12mila combattenti originari di 81 Paesi dei quali 2.500 europei ma ammoniva che il numero di volontari cresceva in continuazione a un ritmo stimato in mille al mese. 

Altre fonti ritenevano che i numeri potrebbero essere molto più alti con forse 5mila volontari con passaporto europeo presenti in Siria e Iraq o rientrati da quella guerra come i fratelli franco-algerini Kouachi, ritenuti fino a oggi gli autori della strage alla redazione di Charlie Hebdo. Tra questi forse risultano circa 3mila tra francesi e britannici, un migliaio di tedeschi, belgi e danesi e altrettanti tra svedesi, olandesi, italiani, norvegesi, finlandesi, irlandesi con piccole aliquote di volontari anche dagli altri Stati europei.

Ma in Siria, sicuramente fino al 2012, al fianco degli jihadisti che combattono contro le autorità di Damasco, c’erano anche ufficiali francesi. Testimoni ne confermano la presenza nella città di Baba Hamr nel distretto di Homs. Insieme a loro c’erano consiglieri militari e dell’intelligence del Qatar e dell’Arabia Saudita.

La Francia cambia linea sull’appoggio all’Isis

Nel gennaio del 2013, l’autorevole rivista francese Afrique-Asie, intervista un “ex ufficiale” del Dgse (i servizi segreti francesi) di ritorno da Beirut ma soprattutto dalla Siria. Le valutazioni di questo esponente dell’intelligence sottolineano gli “errori” delle autorità francesi nell’aver sostenuto le milizie jihadiste contro la Siria. Valutazioni come quelle espresse da questo agente francese con molta probabilità hanno via via acquistato maggiore influenza nella modifica della linea di complicità con le milizie in odore di Isis in Siria adottata fino a quel momento dalla Francia.

Questo cambiamento di orientamento produce probabilmente degli effetti. I jihadisti fino ad allora sostenuti anche dalla Francia si sentono ancora una volta traditi (come accaduto in passato in altri teatri di crisi come l’Afghanistan o la Cecenia) e decidono di mordere la mano che gli aveva assicurato fino ad allora soldi, armi, coperture diplomatiche.

A novembre del 2014 in un video pubblicato su internet dallo Stato Islamico, tre miliziani jihadisti francesi incitano i connazionali musulmani a unirsi alla causa dei jihadisti in Iraq e in Siria e a lanciare attacchi da “lupi solitari” in Francia. Nel  filmato, diretto ai musulmani in Francia, tre combattenti francesi dell’Isis invitano i connazionali a unirsi alla loro causa viaggiando nei Paesi dove agisce lo Stato islamico.

A dicembre 2014 la polizia francese aveva compiuto una serie di raid all’alba per smantellare quella che si riteneva fosse una rete organizzata per inviare jihadisti in Siria. Gli arresti erano avvenuti nella regione di Tolosa, ma anche attorno a Parigi e in Normandia.

Seymour Hersh già nel 2007 ( nell’articolo The Redirection) documentava con largo anticipo “l’intenzione di Stati Uniti, Arabia Saudita e Israele, di creare e dispiegare una rete regionale di estremisti settari che avrebbero dovuto confrontarsi con Iran, Siria e Hezbollah in Libano”. “L’armata ISIS è la manifestazione finale di questo disegno”, ha scritto più recentemente.

La conclusione non può che essere quella secondo cui, inevitabilmente, chi semina vento raccoglie tempesta, non solo a Washington ma anche a Parigi.

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