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Verona. Delitto Tommasoli: la sentenza

Prendiamo uno studente di un liceo classico di Verona, un ragazzo che interviene educatamente durante un’assemblea pomeridiana, organizzata per studiare, per discutere, per riflettere su quello spaccato di storia italiana che va sotto il nome di “strategia della tensione”.

A quell’assemblea partecipavano Paolo Bolognesi, Presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime della strage di Bologna, e Cristina Caprioli, sorella di Davide, ragazzo veronese, vent’anni, morto in quella strage. C’era, infine, chi in questo momento sta scrivendo, e che tra quei morti doveva esserci davvero, identificata erroneamente in obitorio dai suoi genitori, tra gli ultimi dieci cadaveri, scambiata con l’ultima vittima identificata, Catherine Hellen Mitchell, e finita erroneamente nella lista dei caduti di quella guerra mai dichiarata. Nelle stragi si muore così, per un poter che sì o per un poter che no. Catherine aveva ventidue anni ed era in viaggio per l’Europa con il suo fidanzato John. Si erano laureati poche settimane prima. Anche loro aspettavano il treno. Era una vacanza premio.

In una strage si muore per caso.

Durante l’assemblea lo studente si era alzato e, con pacatezza, era intervenuto, difendendo Luigi Ciavardini, militante dei Nar, che poco tempo dopo sarebbe stato condannato, avendo la Cassazione dichiarato inammissibile il ricorso dell’imputato e confermando così la sentenza della sezione minori della Corte d’appello di Bologna che, tre anni prima, aveva ritenuto l’imputato responsabile del reato di strage. Davanti al cancello della scuola, alcuni ragazzi volantinavano in difesa di Ciavardini.

Per pochi lunghissimi istanti i nostri sguardi incrociarono gli occhi di chi, dopo alcuni mesi, avrebbe partecipato all’aggressione di Nicola Tommasoli. Nel 2008, Nicola, reo di aver negato una sigaretta, morì dopo cinque giorni di agonia.

Con la sentenza emanata mercoledì 4 febbraio per l’omicidio Tommasoli, la Corte d’Assise d’appello di Venezia ha chiuso il procedimento: tutti colpevoli. La pena è sicuramente più alta di quella inflitta nel novembre 2010, dopo il primo processo d’appello. All’epoca, a Veneri e Perini erano stati comminati dieci anni e otto mesi, mentre gli altri tre ragazzi erano stati assolti. Con la nuova condanna, complessivamente, ai cinque imputati vengono inflitti quarantaquattro anni di cella: Nicolò Veneri e Federico Perini sono stati condannati a undici anni e un mese; Raffaele Dalle Donne a sette anni e cinque mesi; Guglielmo Corsi a sette anni e dieci mesi; Andrea Vesentini a sei anni e nove mesi.

Se siano pochi o molti, il problema è che nessuna pena potrà restituire Nicola. Sono fallaci, in realtà tutte le risposte, per il solo fatto che sono risposte e, quindi, arrivano sempre dopo, quando ormai è tardi.

Questo stato di cose, uno studioso come Durkheim lo ha definito con un termine: anomia. E’ uno stato di dissonanza tra le aspettative normative e la realtà vissuta. Nulla al mondo può rendere possibile una riparazione del torto subito e dei patimenti sofferti. Non c’è convegno, strade dedicate, medaglie che possano avere una valenza consolatoria. Non c’è nulla.

Rimane la memoria. Anche quella, purtroppo, nel tempo, se cessa di essere militante, diventa logora. Nell’ultima manifestazione a Verona, per ricordare Nicola, come ogni anno, nell’anniversario della sua morte, gli antifascisti erano pochi. Tanti gli indifferenti che passavano senza neanche girarsi. Nel migliore dei casi, quei passanti portavano sulle loro spalle l’omologazione, l’immobilismo. Erano e sono le coscienze apatiche, espressione di quella che Gobetti avrebbe definito “eterna vocazione italiana al riposo”. Nel peggiore dei casi quei passanti rappresentavano e rappresentano la volontà di azzerare la nostra identità antifascista. Sono i corvi di un coro lugubre che piano piano, pezzo a pezzo, girando le spalle, cantano la trasfigurazione di un valore, l’antifascismo, in un disvalore.

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