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Roma. La periferia che resiste e pensa all’emancipazione

Corcolle, estrema periferia sudest di Roma. Per arrivarci devi andare 12 chilometri oltre il Raccordo Anulare che pure scandisce l’anello della “prima periferia” della enorme area metropolitana di Roma. E già solo il viaggio dà l’idea del calvario che ogni giorno chi vi abita deve fare per andare o venire dal lavoro, da un cinema, dalla “fruibilità” della stessa città di cui risulta cittadino e residente. Un calvario che i tagli ai trasporti pubblici rendono ancora più insopportabile per chiunque e tende una corda che talvolta si spezza, anche violentemente. Un quartiere che a settembre aveva visto una sorta di progrom contro gli immigrati ospiti di un centro di accoglienza dopo un episodio niente affatto chiaro su una aggressione ad una giovane autista dell’Atac. Nei giorni successivi, con le tensioni crescenti nel quartiere, i riflettori dei media che si accendevano ancora prima dei fatti di Tor Sapienza, e una coraggiosa e difficile assemblea in piazza con autisti dell’Atac, comitati e immigrati, un gruppo di giovani e meno giovani abitanti del quartiere decide di costituire una associazione per affrontare questo clima, le contraddizioni e i rischi. Sceglie di farlo al di fuori del circuito ormai “semi-istituzionali” dei comitati di quartiere, spesso egemonizzati da esuberanti personaggi legata alla destra. A ottobre nasce così a Corcolle l’associazione “Mente Locale” e comincia ad agire con uno sguardo al proprio territorio e un altro alle possibilità di collegamento e convergenza con altre esperienze simili.

L’associazione Mente Locale ieri sera ha riempito la sala parrocchiale (perchè spesso in periferia questi sono gli unici spazi sociali esistenti) per un incontro pubblico con Emergency e Aboubakar Soumahoro, rappresentante in Italia del coordinamento europeo dei Sans Papier e sindacalista della Usb. “Per troppi anni abbiamo lasciato il territorio e la destra se ne è approfittata” esordisce Barbara dell’associazione Mente Locale aprendo l’incontro. “Questa è una periferia geografica ma soprattutto sociale e culturale. Siamo nati per reagire a quanto accaduto a settembre con le aggressioni ai ragazzi del centro di accoglienza. L’esplosione dell’inchiesta su Mafia Capitale ha poi confermato che c’è chi lucra sul disagio dei campi rom o degli immigrati. Vogliono lasciarli così per poi poterci guadagnare”: Barbara spiega che anche per questo Mente Locale si è collegata alla Carovana delle Periferie, una esperienza a rete che sta cercando di ricomporre territorio per territorio vertenze, proposte, conflitti, piattaforme comuni.

Interviene poi Marco Rossi di Emergency, barba bianca, esperienza di chi di esperienze ne ha viste e fatte tante che snocciola cosa significhi intervenire negli angoli del mondo più devastati da guerre o emergenze sanitarie su due principi irrinunciabili: la salute e la cura devono essere assicurati a tutti e gratuitamente e no alla guerra comunque, senza se e senza ma. Discorsi che collidono frontalmente con le filosofie dominanti e gli atti concreti di governo sia a livello internazionale che locale. “Il 93% delle vittime delle guerre di oggi sono civili…. e dalla guerra chi può scappa” ricorda Rossi. Ma è su un aspetto che ha visto Emergency impegnarsi negli anni più recenti che Rossi fa riflettere. Dal 2006, ma soprattutto da quando la crisi e la recessione hanno cominciato a mordere, Emergency ha aperto piccoli ospedali, ambulatori fissi e mobili… anche in Italia. “Se siamo anche in Italia con i nostri ambulatori vuol dire che anche in Italia c’è qualche problema sulla salute. Uno su cinque dei pazienti che si rivolgono alle nostre strutture è italiano”. Gli ambulatori mobili di Emergency si vanno a collocare nelle terre di nessuno del Meridione, dove migliaia e migliaia di immigrati sono occupati nelle raccolte stagionali agricole e non esiste alcuna struttura per curare chi spesso è costretto a condizioni di lavoro semischiaviste. Dunque Calabria, Puglia, Sicilia, tra i raccoglitori di arance o pomodori. Le patologie per cui gli immigrati si rivolgono agli ambulatori di Emergency sono soprattutto legate ai danni dovuti alla fatica da lavoro, alla alimentazione, allo stress, allo sfruttamento bestiale a cui sono sottoposti. Ma Emergency ha aperto strutture fisse, ed altre ne ha in cantiere nel quadro del Programma Italia, anche nelle aree metropolitane a maggiore disagio e povertà sociale, dove la gente non si cura perchè non ha i soldi o non sa dove rivolgersi. Non stiamo dunque parlando delle zone di guerre in Sudan, Afghanistan, Sierra Leone, ma di Marghera, Palermo e Napoli. Indubbiamente un segnale inquietante di cosa significhi la liquidazione del diritto alla salute – pure previsto dalla Costituzione sottolinea Rossi – dall’abbandono a cui vengono lasciati sia gli immigrati che vengono a lavorare in Italia sia quegli italiani che ormai hanno portato la media della povertà assoluta o relativa oltre il 20% delle famiglie nel nostro paese, quindi più di terzo della popolazione.

Il successivo intervento di Aboubakar Soumahoro, con la sua esperienza di coordinatore dei San Papier e di sindacalista attivo in un sindacato conflittuale come l’Usb, diventa una sorta di lectio magistralis che magnetizza la gente presente in sala. Somaouro smantella pezzo su pezzo le due visioni prevalenti sul tema dei migranti: quella assistenziale e quella emergenziale. La prima affida ad una sorta di destino manifesto la “mala sorte” nella quale è nato o vive chi viene dai paesi dell’Africa o del Medio Oriente alle prese con guerre, carestie o epidemie. Una “sfiga” al quale si risponde con la carità ma senza porsi alcuna domanda. La seconda visione – quella emergenziale – è invece più strumentale e velenosa: crea continuamente le emergenze per poterne ricavare del profitto. Dunque emergenza barconi, emergenza accoglienza, emergenza criminalità, emergenza occupazionale perchè “gli immigrati rubano il lavoro” etc. E su questa sistematica costruzione dell’emergenza che c’è chi ci si arricchisce, a scapito degli migranti e spesso anche degli operatori ingabbiati dentro i contratti ultraprecari consentiti dalle vischiosità del “terzo settore” e dell’inganno del “no profit”. Soumahoro sostiene invece la necessità di una terza visione, quella che ha una idea completa del problema dall’origine (la situazione nei paesi africani o mediorientali da cui si fugge) e delle conseguenze. Per scoprire alla fine che i tagli ai trasporti o l’esasperazione del disagio, sono un problema comune sia degli abitanti della periferia che degli immigrati che vi vengono scaricati nè più nè meno come una merce. Quindi non assistenzialismo nè complicità con l’emergenza, ma condivisione, unità, solidarietà conflittuale contro i comuni nemici, a cominciare da una coalizione sociale che veda le periferie tornare ad essere protagoniste di una nuova e perduta voglia di emancipazione complessiva. Sta in questo la sfida sulla ricomposizione di un blocco sociale e di una visione politica emancipatrice di cui si è persa traccia da troppo tempo, nei territori e non solo.

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