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Renzi, Lupi, gli indagati. Un potere senza regole certe

Nel processo di costruzione di ogni nuovo regime ha un’importanza fondamentale l’imposizione di una diversa retorica, di una sistema di “valori” utili all’affermazione del nuovo stato di cose. Cosa c’è di più diverso, per un “immaginario democratico” inchiodato per venti anni alla retorica di “mani pulite” e girotondi vari, della santificazione degli indagati dalla magistratura in posti di governo?

E proprio questo Matteo Renzi prova a fare, per uscire vincente dalla morsa mediatica delle accuse di “doppiopesismo” nel caso Lupi (condivise anche dal Corriere della sera) e della possibilità di ritrovarsi un esecutivo falcidiato da avvisi di garanzia o richieste d’arresto.

Devono risuonargli ancora nelle orecchie le dure critiche del presidente dell’Anm, Rodolfo Sabelli – “carezze ai corrotti, schiaffi ai magistrati” – gridate proprio allavigilia dello smantellamento giudiziario del ministero delle infrastrutture. Da lì a immaginare un futuro stillicidio di “notifiche di indagini” per questo quello dei suoi più fidati collaboratori, particolarmente disinvolti, ci deve esser stato solo un passo. Vedere finire in prima pagina il suo braccio destro, Luca Lotti, come referente governativo di Ercole Incalza, proprio nelle ore in cui stava considerando la possibilità di piazzarlo al posto del dimissionario Lupi, deve essere stata la conferma definitiva. I suoi ripetuti attacchi alla magistratura hanno prodotto una “reazione di rigetto” che minaccia di minare in modo permanente il suo governo. Fin qui tutto nella norma di un paese schiavizzato dalle lobby, dalle clientele e dalle logge. Che il premier rappresenta al meglio, con la leggerezza dell’età, la sfrontatezza di chi sa d’essere arrivato lì per volontà altrui (Marchionne dixit) e l’improntudine di chi è venuto per distruggere quel poco di solidità costituzionale ancora in piedi.

Intervistato da Repubblica (che comincia ad avere qualche dubbio su di lui, dopo averlo “pompato” come un pesista di terza fascia da portare alle olimpiadi), alla domanda-chiave sulla possibile rimozione dei sei sottosegretari indagati, ha fatto capire un po’ troppo come la vede: “Assolutamente no. Ho sempre detto che non ci si dimette per un avviso di garanzia. Per me un cittadino è innocente finché la sentenza non passa in giudicato. Del resto, è scritto nella Costituzione. Quindi perché dovrebbe dimettersi un politico indagato? Le condanne si fanno nei tribunali, non sui giornali“.

Inutile fargli notare quel che sa benissimo. Ovvero che un “politico”, per di più un membro del governo, proprio per la sua particolare posizione – decide sulla vita di tutti, usa le risorse pubbliche, può usare poteri e contatti per tentare di influenzare singoli magistrati, ecc – tutto è meno che un normale cittadino. Il semplice sospetto che possa agire per finalità non istituzionali, anzi privatistiche, è ovunque sufficiente a consigliargli le dimissioni. Ovunque, meno che in Italia e in qualche regime minore di paesi ancora non approdati ai fasti della democrazia occidentale.

Naturalmente non siamo troppo fessi. Sappiamo anche noi che la corruzione, o l’uso del potere politico a favore di multinazionali, imprese e clientele particolari, è costume comune dappertutto. Ma – appunto – la necessità di far almeno apparire “imparziali” le istituzioni dello Stato obbliga i membri delle classi politiche occidentali a farsi da parte quando vengono “beccati”. Se si dovesse attendere la condanna definitiva per sostituire un amministratore pubblico, insomma, ministro o assessore che sia, tanto varrebbe affidare alle mafie il controllo della macchina statale. E richiamare in servizio immediatamente, per esempio, tutti gli arrestati per “mafia capitale”.

Sorvoliamo dunque sulla divertente constatazione che l’unico articolo della Costituzione salvabile, per Renzi, sia appunto quello della presunzione di innocenza fino a condanna definitiva…

La questione prncipale, infatti, è un tantino più complessa. Il tentativo di addenare una nuova classe politica – “ggiòvane”, spiritosa, spendibile, ma ahinoi decisamente incompetente – in grado di far passare le politiche della Troika senza sollevare insurrezioni di massa, dividendo progressivamente un ceto sociale dall’altro, contrapponendo figli e padri, precari e stabili, pensionati e impensionabili, ecc, si scontra in questo paese con un sistema di potere consolidato nei secoli ma frammentato, con interessi limitati anche se dall’appetito sconfinato. Da questo gorgo non può proprio uscire “gente onesta”, priva di relazioni innnominabili, al riparo da inchieste imposte dall’”obbligatorietà dell’azione penale” (che infatti sia Berlusconi che Renzi hanno cercato di intaccare). Dunque non resta che respingere “l’ingerenza” dei magistrati. Salvaguardando però le forme, ossia costringendo gli “indifendibili” – quelli più sputtanati dai media – a lasciare il posto.

Il “doppiopesismo” di Renzi è dunque obbligato. Deve mantenere una struttura di comando abbastanza stabile (e quindi proteggere anche gli indagati, se non troppo esposti quanto a notorietà, intercettazioni, ecc) e contemporaneamente far vedere che sta combattendo con durezza la corruzione. Un compito obiettivamente difficile, per cui serve una faccia di teflon da oscar della simulazione…

Ma ci prova. Nell’intervista, infatti, dopo aver “blindato” i sottosegretari indagati con un’argomentazione tipicamente berlusconiana, indica le mosse fatte sul piano opposto: “ho chiesto le dimissioni a Orsoni (ex sindaco di Venezia, ndr) quando, patteggiando, si è dichiarato colpevole. Ho commissariato per motivi di opportunità politica il Pd di Roma nonostante il segretario locale fosse estraneo alle indagini. A suo tempo avevo auspicato il passo indietro della Cancellieri sempre con una motivazione strettamente politica. Altro che due pesi e due misure: le dimissioni si danno per una motivazione politica o morale, non per un avviso di garanzia”.

Fin troppo facile, persino per giornalisti inginocchiati, trovare casi in cui la sua “regola” non è stata applicata. Per esempio Vincenzo De Luca, sindaco di Salerno condannato in primo grado e comunque cadidato alle regionali in Campania: “lui ha fatto una scelta diversa, considera giusto chiedere il voto agli elettori e si sente forte del risultato delle primarie”.

Una “regola” insomma che vale solo se i singoli vogliono farla valere, “sacrificandosi”.

Ma da un dispositivo così non può venir fuori alcun nuovo assetto istituzionale razionale, oggettivo, trasparente. E’ soltanto un insieme di “pratiche” risolte caso per caso, a seconda della potenza relativa del singolo, della sua esposizione mediatica, del livello di fedeltà al capo. Un regime, appunto, in cui la “costituzione” è flessibile quanto l’umore di chi, alla fin fine, dispone.

Con un piccolo dettaglio finale: il “motore immobile” che dovrebbe far funzionare il tutto, come un moderno monarca, è a sua volta un paracadutato da altri poteri e soggetto, come i suoi sottoposti, agli umori variabili di chi l’ha scelto per la bisogna. E ‘sta roba la chiamano addirittura “democrazia”…

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