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Riforme strutturali? Quelle italiane non stanno in piedi

Venir presi per il naso da una banca di servi corrotti è intollerabile. Ma chi se ne rende conto? Pochi, troppo pochi nel nostro paese ed anche negli altri dell’Unione Europea. Colpa della complessità del sistema, dell’ignoranza (perseguita con cura) sulle sue regole e sulle possibili alternative, della presunta furbizia individualista che decade – sempre – in passività menefreghista e disponibilità al servilismo verso altri servi (l’unica ugiaglianza riconoscita a livello di massa).

 Eppure basta prendere in mano alcuni rapporti appena informati per rendersi conto di quanto, in concreto, questa passività anticonflittuale danneggi oltremisura tutti – proprio tutti – coloro che non dispongono di grandi ricchezze e/o grandi poteri.

È quasi irridente, per esempio, la ricerca pubblicata sulla rivista del Fmi Finance & Development. Condotta da due due economiste della “terza gamba” della Troika – Florence Jaumotte e Carolina Osorio Buitron – mette in relazione il calo degli iscritti ai sindacati in tutta Europa (e quindi anche la minore conflittualità sociale) con l’aumento delle disegualianze di reddito. E quantificano il contributo negativo della desindacalizzazione – con tutto il male che si può dire dei sindacati “complici”, che non rappresentano però la totalità delle organizzazioni esistenti – fino ad attribuirle il 50% della responsabilità nel causare l’aumento di cinque punti nella concentrazione del reddito nelle mani del 10% più ricco della popolazione. E questo solo nelle economie avanzate negli ultimi 30 anni, dalla svolta liberista di Thatcher e Reagan in poi.

La conclusione delle ricercatrici del Fmi dovrebbe far arrossire tanti piccoli presunti “rivoluzionari” che – esattamente nello stesso periodo – hanno considerato lo strumento sindacale come “superato” nella moderna lotta di classe. «L’indebolimento dei sindacati riduce il potere contrattuale dei lavoratori rispetto a quello dei possessori di capitale, aumentando la remunerazione del capitale rispetto a quella del lavoro». Marx ha detto la stessa cosa con altre parole, ma neanche troppo dissimili. L’abbandono del conflitto sui luoghi di lavoro, per quanto difficile certamente sia, è una faciltazione per le imprese. Sia che lo si faccia – e nella stragrande maggioranza dei casi è così – mediante la corruzione diretta dei sindacati, sia che si vada a cercare in altri anfratti sociali la via del “vero antagonismo”.

Per di più, notano le ricercatrici, questa passività “autorizza” le aziende a prendere decisioni che avvantaggiano i dirigenti, non certo i lavoratori dipendenti. Basta guardare la “paghetta” che Sergio Marchionne si attribuisce motu proprio per farsene un’idea precisa. E tanto spiega l’aumento della differenziazione reddituale, misurata con l’indice di Gini oppure semplicemente percepita sulla propria pelle. 

Ma l’impoverimento della stragrande maggioranza dei lavoratori nelle società avanzate non si spiega soltanto con la bassa conflittualità. Un ruolo enorme ce l’hanno anche le “riforme strutturali”, che hanno moltiplicato sul piano legislativo le occasioni per accrescere la disparità di potere e quindi anche la possibilità di esigere diritti formalmente concessi. Non serve essere dei giuristi, infatti, per capire che una cosa sono i diritti scritti sulla carta (“le leggi”), tutta un’altra è pretenderne l’applicazione. Basta chiedere a una lavoratrice dipendente che vuole generare un figlio per farsi un quadro articolatodella distanza esistente tra teoria e prassi.

Lo studio promosso dalla Commissione europarlamentare Libertà civili, giustizia e affari interni (Libe), riguardante i sette paesi europei più colpiti dall’attuale crisi, tra il 2008 e il 2014 (Portogallo, Belgio, Irlanda, Spagna, Grecia, Italia, Cipro), prende di mira proprio le “riforme strutturali”, mettendo a nudo lo stratagemma retorico usato dai governi più infami per far passare la cancellazione drastica di molti diritti. A cominciare dall’articolo 18, naturalmente.

Tutto sta nell’uso della parola “riforma” (in sé, un tempo, concetto quasi positivo, semmai contrapposto a “rivoluzione” per depotenziare il conflitto di decenni fa), ovviamente senza entrare troppo dentro i contenuti.

È esperienza quotidiana, qui in Italia. Le cose che non vanno sono tali e tante che è impossibile per chiunque difendere lo statu quo. Ma la “riforma” dell’esistente può seguire moltissime strade, tra loro anche alternative. Se, come avviene qui da noi, sotto la sferza dell’Unione Europea e della Troika, nonché mediando con gli interessi dei gruppi di potere nazionali, si prescrive una sola soluzione – “lo vuole l’Europa”, o addirittura “lo vogliono gli italiani”, senza però chiederglielo – c’è il forte rischio che queste “riforme” siano quelle sbagliate. O, almeno, disegnate per interessi che aggravano gli squilibri e le disfunzioni invece di risolverli.

Il rapporto è intitolato appunto The impact of the crisis on fundamental rights across Member States of the Eu e analizza la pesante caduta di benessere complessivo (in reddito, in servizi goduti, in tutele, ecc) nei paesi Piigs e dintorni. L’Italia è stata misurata nei campi del diritto al lavoro, alla salute, all’istruzione, alla pensione, alla proprietà. Praticamente tutto ciò che garantisce, oppure no, una “vita dignitosa” come prescritto dalla Costituzione. Qui la martellata dei ricercatori alla classe politica italiana (dal 2008 al 2014 vengono chiamti in cusa Berlusconi, Monti, Letta e Renzi, nessuno escluso) è quasi mortale: «per quanto le riforme nei settori presi in esame fossero necessarie, ciò non significa che le misure effettivamente prese siano state adeguate». La conclusione provvisoria è definitiva: «la colpa per la situazione economica e sociale attuale in Italia è più della classe politica italiana che dei fattori esterni».
Il tema più importante, dicevamo, è sempre quello del lavoro, anzi del rapporto tra lavoratori e capitale. Neanche qui le “riforme” degli ultimi quattro governo ricevono la sufficienza. Anzi. La riforma con il maggiore impatto è stata – la legge Fornero – “ha reso più facile licenziare i lavoratori” (la ricerca, per questioni di tempo, non ha potuto prendere in considerazione il Jobs Act), mentre dichiarava di voler limitare l’utilizzazione di alcuni contratti di collaborazione senza tutele. Un fallimento totale, certifica nero su bianco Bruxelles (l’”Europa”, appunto): la riforma infatti «non è riuscita a ridurre la prevalenza di forme di lavoro precario».

Certo, dal nostro punto di osservazione non ci sembra necessario attendere il prossimo studio per ricacciare il Jobs Act in gola ai suoi ideatori. Perché l’identica logica (“facilitare i licenziamenti per facilitare le assunzioni”) è già stata dimostrata nei fatti un’idiozia criminogena, o semplicemente un crimine che neanche raggiunge gli obiettivi dichiarati. E non basterà neanche l’incentivo concesso da Renzi alle imprese che assumono con “contratto a tutele crescenti” (tra gli otto e i quindimila euro nel triennio), perché avrò un impatto negativo sui conti pubblici (a causa della decontribuzione) di oltre 15 miliardi.

Ma torniamo al rapporto di Bruxelles. Neanche sulle pensioni la Fornero viene promossa. Certo, riconosce la Ue, la riforma era «necessaria per correggere vecchie vulnerabilità demografiche ed economiche come l’invecchiamento della popolazione, l’alto costo del lavoro e la diffusa evasione fiscale che, aggravata dalla crisi, rendeva il sistema pensionistico troppo costoso: oltre il 15% del Pil italiano (quasi il doppio della media Ocse), quindi insostenibile». Ma la formulazione scelta «ha ridotto l’accesso al diritto a pensione». Sia per i vecchi che per i giovani che ci andranno in un lontano futuro. “Equamente” infame, insomma.
Perché, «in effetti, le preoccupazioni sull’adeguatezza delle prestazioni non sono state affrontate»; come se si potesse vivere indipendentemente da un reddito sufficiente.

Per i lavoratori più giovani, comunque, il destino è ancora peggiore. E anche la Commissione Ue si trova quasi obbligata a consigliare una via (presuntamente) alternativa: «secondo le nuove regole, i giovani italiani farebbero bene a sottoscrivere un fondo pensionistico complementare, se vogliono garantirsi un reddito che consente loro un tenore di vita dignitoso». Obiettivo difficile da raggiungere – anche ammesso, ma non concesso, che i mercati finanziari vadano mediamente bene nei prossimi decenni – se i salari dei giovani precari sono così bassi da impedire lo “storno” di una cifra mensile da versare nei fondi integrativi; e se, oltretutto, Renzi nell’ultima legge di stabilità ha aumentato la tassazione sul rendimento dei fondi previdenziali.

Capiamoci bene. La Commissione Ue non è diventata improvvisamente “keynesiana” e buonista. Consiglia sempre di «applicare la metodologia contributiva a tutti i lavoratori, anche prima della riforma, al fine di assicurare che la riforma non riguardi i giovani lavoratori più di quelli vecchi». Abbassando dunque l’assegno pensionistico di lascerà il lavoro da qui a poco (quelli che avevano già 18 anni di contributi all’epoca della “riforma Dini”). Anzi, fosse per loro, ridurrebbero anche «la quantità di pensioni di vecchiaia concesse nell’ambito di quadri giuridici precedentemente in vigore che hanno consentito ai lavoratori di andare in pensione in giovane età e con una pensione alta», in barba addirittura alla non retroattività delle leggi.

Quel che proprio non va giù a Bruxelles sono i “tagli lineari” alla spesa, non il fatto che si tagli. Perché “linearmente”, in una realtà fatta di strade non lineari, si possono combinare solo disastri che non salvano i conti e dissestano la “coesione sociale”.

L’esempio della giustizia è quello meno conflittuale e più chiaro. Sotto tiro, in primo luogo, il raddoppio delle «tasse per il disbrigo delle pratiche nei tribunali civili del 92% (contro il 15% nei sei anni sino al 2008)», che inevitabilmente diventa un elemento dissuasivo del ricorso al giudice per i più poveri; mentre i ricchi se ne possono altamente fregare. Ma se ti costa troppo ricorrere al giudice, ti tieni l’ingiustizia commessa da qualcuno un poì più benestante di te.

Il rapporto entra nei dettagli più piccoli, dal costo dei singoli atti alla riduzione del numero di uffici (e anche viaggiare ha un costo) , ma identifica una volontà coerente: rendere l’accesso alla giustizia civile così costoso da sconsigliarlo ai deboli di portafoglio. Alla faccia dell’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge…

I consigili, in questo caso, sono davvero semplici: in tutta l’Europa civile si fa così. l’Italia «dovrebbe spendere una quota maggiore del bilancio assegnato al sistema di giustizia sull’informatizzazione, in cui l’Italia spende appena l’1,9% del budget, contro una media internazionale del 3,9%». In ogni caso, se la legislazione nazionale fosse meno caotica e sovrapposta, ci sarebbe un indubbio risparmio, perché diminuirebbero “i contenziosi” generati da intepretazioni furbesche di questo o quel codicillo. Cose troppo semplici, per le astute menti che ci governano da decenni o pochi mesi.

Ma il record di insensatezza, pressapochismo, menefreghismo per il futuro del paese lo si registra nel campo dell’istruzione. Nel corso degli ultimi venti anni ogni governo ha gridato di voler sviluppare “l’economia della conoscenza”. Il risultato, dopo tutto questo tempo, restando soltanto alla scuola dell’obbligo, è chiarissimo: «l’Italia è l’unico Paese dell’Ocse nel quale la spesa per studente non è aumentata di un centesimo dal 1995; in confronto, la spesa in altri Paesi Ocse è aumentata in media del 62%».

Stessi fondi in un contesto di perdurante inflazione (tranne gli ultimi due anni) significa artimeticamente riduzione dei fondi. Il che si traduce in minori possibilità di accesso fisico alle scuole (ne sono state chiuse e “accorpate” un’infinità, allontanando così molti istituti dai luoghi di residenza dei ragazzi nell’età dell’obbligo) e in “dissesto programmatico” di un sistema che era “già compromesso” prima ancora di cominciare a considerare l’istruzione un costo anziché un investimento sul futuro. Sentiamo ancora nelle orecchie quell’infame frase tremontiana:”la cultura non si mangia”…

Impietoso, il rapporto va a toccare anche quelli che sarebbe i “primi diritti” da difendere in ambito capitalistico. Come quello alla “proprietà”. Concetto assai largo, visto che si concentra sulla critica dei ritardi con cui la pubblica amministrazione salda i propri fornitori (170 giorni di ritardo, in media), contribuendo così alla crisi di liquidità delle imprese.

Ma siccome nella Ue sono rimasti di “cultura liberale”, sul piano formale, ecco arrivare anche la mazzata sulla polizia. Molti diritti, in Italia, sono infatti scomparsi. Ma quello di protestare li sta rapidamente raggiungendo. La Commissione Libe consiglia all’Italia di «adottare rapidamente proposte per garantire che il personale di polizia, e in particolare la polizia antisommossa sia identificabile singolarmente mediante il nome e la qualifica, o un codice unico, reso visibile sulle loro divise e i caschi». Una proposta che il governo Renzi – via Alfano – ha bocciato considerandola “un favore ai violenti” (non è colpa nostra se l’affermazione appare quanto meno illogica…). E lo stesso dicasi per altre misure tese a rafforzare la responsabilità della polizia, «in linea con il Codice europeo di etica per la polizia del Consiglio d’Europa». I casi Aldrovandi, Magherini, Cucchi, Uva e decine di altri, insomma, sono considerati altrove una vergogna di cui liberarsi al più presto, rompendo quel l’omertà governativa-amministrativa-giudiziaria che garantisce l’impunibilità sostanziale degli “agenti”, qualsiasi cosa facciano (spaccio di droga e uxoricidio a parte…).

 La sintesi? Non è difficile. È vero, l’Unione Europea, con i suoi trattati e i suoi vincoli, impone scelte economiche mortali per i “diritti fondamentali” di ogni essere umano all’interno del suo perimetro. Ma in molti casi, come quello italiano, incompetenza e/o corruzione dei governanti ci aggiungono anche molto di proprio.

Un aumento del conflitto sociale di massa, che prenda consapevolezza del legame inscindibile tra politiche nazionali e “politiche europee”, per mandarle a quel paese entrambe, dovrebbe ormai essere un “consiglio” della Commissione Libe e anche del Fmi…

 

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