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Tutti a difendere Di Gennaro, e di tortura non si parla già più

Un classico della “distrazione di massa”. La Corte di Giustizia di Strasburgo condanna l’Italia per aver torturato quanti dormivano nella scuola Diaz, nel luglio 2001, e per non aver mai varato una legge che riconosca la tortura come reato, nonostante sia passato un quarto di secolo da quando ha firmato l’adesione all’apposita convenzione europea.

Logica – e un briciolo di vergogna – vorrebbe che si parlasse solo di come portare all’approvazione un testo decente (quello nascosto in qualche cassetto di commissione è l’esatto opposto), di risarcimenti adeguati alle vittime (sapendo che anche su quanto avvenuto nella caserma di Bolzaneto arriverà prima o poi una condanna analoga e forse ancora più grave), di estromissione dal corpo dei poliziotti condannati a pene ridicole (maltrattamenti, falsa testimonianza e bagattelle varie; non tortura).

Ma quando mai… Basta un tweet di Orfini che trova “vergognosa” la presidenza di Finmeccanica regalata – da Enrico Letta, confermata da Renzi – a Gianni De Gennaro, allora capo della polizia, per scatenare una ridda di chiacchiere che hanno una sola motivazione: far sparire le parole tortura e condanna dalle prime pagine. Di fatto, a nessuno dei protagonisti del “dibattito” interessa affatto di vivere e avere responsabilità di primo piano in uno Stato che ha torturato e tortura, ammazza innocenti con devastante regolarità; nessuno prova ribrezzo per quanti lo hanno preceduto in quel ruolo e quindi anche per se stesso. E Renzi, all’ora di pranzo, prova a chiudere la faccenda confermando piena fiducia al “presidente di Finmeccanica”.

No. Tutti a parlare di quanto è bravo De Gennaro, dei suoi meriti come capo della polizia (sette anni) e dei servizi segreti (quattro anni) e in tutti gli altri ruoli assegnatigli nel tempo. Tutti a dire che “in fondo è stato assolto” dall’accusa di aver indotto a modificare la propria testimonianza in tribunale un suo sottoposto – l’ex questore di Genova Francesco Colucci – in modo da allontanare da sé il sospetto di aver dato ordini precisi perché venisse realizzata la “macelleria messicana”. Reato per cui era stato condannato con sentenza della Corte d’appello, ma che la Cassazione, providenzialmente, aveva poi provveduto ad annullare nei giorni in cui – era il 2012 – Mario Monti lo nominava sottosegretario con delega ai servizi segreti.

Guai a toccare certi nomi. Guai a credere che basti nominare un magistrato “commissario conro la corruzione” per evitare che questo paese continui a  scivolare verso una condizione complessiva “messicana”.

La maschera dell'”uomo tutto d’un pezzo” è improvvisamente caduta dal volto di Raffaele Cantone, ormai invocato per risolvere qualsiasi problema all’interno della pubblica amministrazione. Il magistrato, ora presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, in una intervista ad Agorà (Raitre), ha difeso a spada tratta, con gli argomenti tipici del “garantismo dei potenti”, l’ex capo della polizia e attuale presidente di Finmeccanica. “Gianni De Gennaro è stato indagato e assolto. L’assoluzione conta pure qualcosa, quindi non può pagare le responsabilità complessive di una macchina intera”. Non pago, ha aggiunto: “Non mi piace l’idea che si possa utilizzare questa vicenda bruttissima, drammatica, una delle peggiori immagini dell’Italia all’estero, per ‘tirare’ sulla polizia, che spesso è la parte più popolare del Paese”. Ma su chi bisognerebbe “tirare”, di grazia, se è stata la polizia (e i Cc, e la Guardia di finanza e la Polizia penitenziaria…) a fare la “macelleria”?

Della sortita di Cantone meritano attenzione altri due concetti, che forse involontariamente rivelano una cultura ben poco costituzionale.

E’ curiosa interpretazione del ruolo di “capo”, in primo luogo. Se uno non porta la responsabilità funzionale (sorvolando addirittura sulla condanna in appello) della parte di macchina che dirige, di cosa è mai “capo”? A noi sembra difficile immaginare che l’organizzazione della macchina poliziesca messa in piedi per una riunione dei “grandi della Terra” (il G8), comprensiva di un caserma dedicata specificamente alla tortura dei “prigionieri” fermati durante gli scontri, possa esser stata responsabilità “locale”. Ovvero della questura genovese e basta. Eppure è proprio questa la tesi difensiva ancora adottata da De Gennaro e conseguentemente fatta propria da Cantone.

In secondo luogo. La pretesa “popolarità della polizia” estingue forse le nefandezze di cui (per “ordini superiori” o per iniziativa personale di singoli agenti) si rende protagonista? Esiste insomma qualcuno al di sopra delle legge per “meriti di popolarità”? Allora aveva ragione Berlusconi a pretendersi tale quando il vento tirava dalla sua parte…

Del resto, De Gennaro non ha mai sconfessato l’operato dei suoi sottoposti “locali” o “nazionali”. Neppure quando i suoi principali collaboratori (Arnaldo La Barbera, Franco Gratteri, Gilberto Caldarozzi, Giovanni Luperi) sono stati processati senza peraltro fornire la minima indicazione utile a identificare gli autori delle violenze, neppure di quelle più gravi. Tutti loro hanno continuato a fare carriera nella polizia comandata da Gianni De Gennaro.

Il quale – parlando delle torture inflitte dai suoi uomini – al massimo ha ammesso “eccessi” nell’uso della forza, aggiungendo sempre però che “verosimilmente” furono determinati “dalle condizioni di guerriglia create da criminali violenti e facinorosi”. Insomma, quasi un eccesso di legittima difesa, mica tortura…

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La scheda di Marco Preve, su Repubblica, ricostruisce le carriere dei poliziotti condannati per Genova 2001. Diciamo che se non c’è un dio che li protegge, poco ci manca…

Promossi dal Viminale o riciclati come manager, le carriere miracolose dei poliziotti di Genova

Caldarozzi a Finmeccanica con De Gennaro, Ferri alla sicurezza del Milan, Gava a Unicredit: così si sono salvati i funzionari condannati

di MARCO PREVE


GENOVA . Banche, squadre di calcio, aziende di Stato. In attesa di indossare di nuovo la divisa. Ricche consulenze per i big rimasti (temporaneamente) fuori dal corpo, e neppure un giorno di sospensione per i capisquadra che guidarono gli agenti torturatori. Con i protagonisti di una delle pagine più nere della democrazia italiana, in fondo, la sorte non è stata così maligna.
Ed è anche questo aspetto, quello di un’impunità quasi totale, che ha influito non poco nel giudizio con cui la Corte Europea dei Diritti Umani ha condannato l’Italia per le torture avvenute all’interno della scuola Diaz al G8 genovese del 2001.
La Corte di Strasburgo ha sottolineato che di fronte al semplice sospetto di gravi abusi commessi da appartenenti alle forze dell’ordine la Convenzione dei Diritti dell’uomo prevede l’allontanamento degli stessi dalle posizioni che occupano già nella fase d’indagine.
Invece per la Diaz è accaduto l’esatto contrario, molti di loro sono stati promossi questori, capi di dipartimento, prefetti, e da indagati e condannati hanno raggiunto livelli apicali. Quelli che hanno dovuto lasciare la divisa sono quasi tutti “caduti in piedi” e gli altri rappresentano ancora lo Stato nelle strade e nelle piazze d’Italia.
Quando nel luglio 2012 la Cassazione conferma le pesanti condanne di appello per falso (le uniche che si sono salvate dalla prescrizione a differenza delle lesioni gravi) Franco Gratteri è il capo della Direzione centrale anticrimine, Gilberto Caldarozzi, capo dello Servizio centrale operativo, Giovanni Luperi, capo del dipartimento analisi dell’Aisi, l’ex Sisde, Filippo Ferri, il più giovane, figlio dell’ex ministro e fratello del sottosegretario alla giustizia, guida la squadra mobile di Firenze. L’interdizione dai pubblici uffici obbliga il ministero ad espellerli.
Non restano a spasso per molto. Ferri diventa responsabile della sicurezza del Milan e per alcuni mesi è l’angelo custode di Mario Balotelli.
Gilberto Caldarozzi lavora prima per le banche e poi viene chiamato come consulente della sicurezza a Finmeccanica dal suo vecchio capo, Gianni De Gennaro. Indiscrezioni raccontano che anche Franco Gratteri abbia avuto rapporti con il colosso di Stato ma dall’ufficio stampa dicono che non risulta. A Gratteri, nel 2013 il ministero pagava ancora un appartamento di servizio nel centro di Roma, ufficialmente per motivi di sicurezza.
Tra gli altri funzionari di vertice che si sono riciclati come consulenti c’è anche Salvatore Gava ex dirigente di squadra mobile che oggi lavora per Unicredit.
Attività manageriale starebbe svolgendo anche un altro condannato per la Diaz, quel Fabio Ciccimarra che è stato condannato in appello (prescritto in Cassazione) per sequestro di persona per i fatti del G7 di Napoli alla Caserma Raniero, sempre nel 2001. Ciccimarra da indagato in due processi e già con condanne in primo grado era un funzionario in carriera fino al 2012, quando il definitivo per la Diaz lo colse capo della squadra mobile all’Aquila.
Vincenzo Canterini, il capo del reparto mobile di Roma dopo il 2001 ha avuto prestigiosi incarichi nelle ambasciate europee e una volta in pensione si è dedicato anche a rievocare, a modo suo, la vicenda Diaz in un libro.
Il suo vice Michelangelo Fournier, il funzionario che interruppe i pestaggi al grido di “basta basta”, che al processo parlò di “macelleria messicana”, ma che non fu mai in grado di individuare neppure un responsabile delle brutalità tra i suoi uomini, oggi è sempre in servizio e ricopre anche un ruolo sindacale.
Se, per questioni anagrafiche, i cinque anni di interdizione dai pubblici uffici mettono fuori gioco Gratteri e Luperi (anche se non sono vietate consulenze con i servizi segreti), per i più giovani non è escluso, ed è anzi previsto, un ritorno in divisa una volta scontato il periodo. Nessun esponente di governo ha infatti mai specificato che non saranno riammessi.
Potrebbero indossarla ancor prima due funzionari responsabili di condotte minori nella vicenda Diaz. Uno di loro è quel Pietro Troiani che diede ordine al suo autista di trasferire dal blindato al cortile della scuola Diaz il sacchetto con le molotov poi addebitate ingiustamente ai manifestanti. L’aver beneficato dell’affidamento ai servizi sociali per i pochi mesi da scontare non coperti dall’indulto consente infatti di ottenere la cancellazione dell’interdizione.
Grazie alla prescrizione per le lesioni gravi non hanno invece subito nessuna interdizione i capisquadra condannati: Fabrizio Basili, Ciro Tucci, Carlo Lucaroni, Emiliano Zaccaria, Angelo Cenni, Fabrizio Ledoti, Pietro Stranieri. Hanno continuato a fare il loro lavoro. Addirittura il governo italiano, come si legge nella sentenza della Corte europea, non ha mai voluto informare i giudici di Strasburgo circa le sanzioni disciplinari adottate. E lo stesso sta facendo il ministro Angelino Alfano da due anni esatti. Nel maggio del 2013 i parlamentari di Sel presentarono un’interrogazione al Viminale per sapere quali misure disciplinari fossero state prese nei confronti dei condannati per la Diaz. La risposta deve ancora arrivare.

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