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Tortura. Una legge a misura di poliziotto

Miracolo! Il disegno di legge per istituire il reato di tortura anche in Italia, dopo 30 anni di attesa, è stato votato dalla Camera in poche ore. Un ingenuo potrebbe pensare che la classe politica ha avito un scatto d’orgoglio, rimettendo in carreggiata il nostro ordinamento dopo la condanna da parte della Corte di Giustizia europea per l’irruzione della polizia nella scuola Diaz, a Genova 2001. Irruzione seguita da pestaggi sistematici e vilenze arbitrarie che si sono quindi configurate – secondo gli standard internazionali – come vera e propria tortura.

Ma noi non siamo ingenui. E la classe politica non ha avuto nessuno scatto d’orgoglio. Semmai ha provatoa trasformare un obbligo internazionamente dovuto in una “ammuina” all’italiana, facendosi scrivere pezzi interi di norma da parte dei funzionari di polizia, ovvero dagli stessi che potrebbero incappare nel reato. Come far scrivere una legge sul falso in bilancio a Berlusconi, insomma.

La prima frettolosa analisi del testo mostra chiaramente le voragini attraverso cui passeranno agevolmente poliziotti (carabinieri, finanzieri, secondini, ecc) che dovessero venir denunciati e/o indagati in futuro con l’imputazione di tortura.

Il reato è qualificato come di tipo “comune”. Ovvero non specifico delle forze della repressione. Potrebbe insomma essere commesso da chiunque. E in effetti, nella cronaca di questo paese, cis ono stati casi di tortura commessa da mafiosi, ndraghetisti o camorristi sulle proprie vittime prima di ucciderle. E qualcuno ricorderà il caso del “canaro”, che fece lo stesso con un suo rivale. Ma sono anche casi in cui il reato di omicidio prevale e copre quello di tortura. Un “privato”, insomma, non può torturare e poi rilasciare una sua vittima, perché verrebbe sicuramente denunciato, arrestato e condannato. Un “agente delle forze dell’ordine” invece sì, perché può contare sul potere della divisa, la “popolarità” (l’incredibile gaffe di Raffaele Cantone sembra aver scandalizzato soltanto noi) dei corpi sbirreschi, l’omertà protettiva di colleghi e superiori, la condiscendenza di buona prate della magistratura, la difesa a prescindere della stampa di destra e alcuni straccioni della politica populista (vedete voi in queste ore quali nomi vi vengono in mente…).

Ma il punto principale è un altro. Per essere considerata tortura una violenza deve causare «acute sof­fe­renze fisi­che o psi­chi­che ad una per­sona pri­vata della libertà per­so­nale o affi­data alla sua custo­dia o auto­rità o pote­stà o cura o assi­stenza», e al fine di “ottenere informazioni o dichiarazioni, per infliggere una punizione, per vincere una resistenza”. Se non sei stato formalmente “privato della libertà personale”, ovvero non ti è stato notificato l’arresto o la messa in stato di fermo, sei ancora formalmente libero. Quindi qualsiasi violenza commessa dagli agenti su di te non sarà qualificabile come tortura, ma al massimo come percosse, maltrattamenti, ecc.

Al contrario, il reato di tortura potrebbe invece essere contestato a genitori, insegnanti, infermieri, ecc.

Cosa ne consegue? Che, se si ripetesse un caso identico all’irruzione nella Diaz, nemmeno in futuro gli agenti saranno accusabili di tortura. Basterebbe loro dichiarare lo “stato di fermo” solo al termine dei pestaggi, di qualsiasi gravità siano stati. Da quel momento in poi, naturalmente, non toccherebbero più con un dito le proprie vittime.

Persino la tortura inflitta a Enrico Triaca dal “dottor De Tormentis” – riconosciuta dalla sentenza con cui il tribunale di Perugia ha assolto il brigatista, prigioniero nelle mani del vicequestore Nicola Ciocia, dall’accusa di calunnia – sarebbe secondo questo testo difficile da provare. Per il waterboarding – tecnica di soffocamento-annegamento simulato, riconosciuta come tortura a livello internazionale – ci potrebbe benissimo obiettare che “non produce le “acute sof­fe­renze fisi­che o psi­chi­che” previste dal diegno di legge. E non dubitiamo affatto che qualche avvocato difensore dei torturatori solleverebbe una simile eccezione; né che qualche giudice compiacente potrebbe accoglierla.

Una volta resa improbabile o comunque molto sfuggente la fattispecie di reato nei confronti degli agenti di pubblica sicurezza o dei corpi militari dello Stato, tutto il resto perde immdiatamente senso. A che serve, per esempio, indicare una pena massima di 15 anni “Se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale nell’esercizio delle funzioni ovvero da un incaricato di un pubblico servizio nell’esercizio del servizio”? Solo a far fare titoli seriosi ai giornali di regime o dichiarazioni scandalizzate al fascioleghista di turno.

L’intento “di facciata” è poi quasi esplicito nella previsione di una scadenza di prescrizione solo raddoppiata, mentre la Corte di giustizia europea indicava esplicitamente l’imprescrittibilità per qualsiasi seria legge sulla tortura. Se il reato può insomma andare in prescrizione, sia pure in un periodo un po’ più lungo, saranno di fatto incentivate tutte le tattiche dilatorie da parte degli agenti indiziati di reato (certificati medici, impossibilità di presenziare per motivi di servizio, ecc).

Fatta la legge, previsto l’inganno. Come sottolinea Lorenzo Guadagnucci – giornalista del Resto del Carlino, pestato dalla polizia a Genova 2001 – “Questo ddl non fa altro che confondere le acque e svuotare di significato la legge in sé. Ed il tutto va nella direzione pretesa dai sindacati e vertici polizia sempre contrari a questo disegno”. “Il Parlamento si è dimostrato incapace di svolgere il ruolo che dovrebbe, adeguandosi agli standard retrogadi delle forze dell’ordine, ancora poco trasperenti e impregnate di corporativismo. Diventa difficile per un potere politico debole come il nostro formulare delle normative non gradite a chi è più forte di lui”.

Se di tutto lo Stato, svuotato e privatizzato, rimane solo la polizia, chi volete che le legiferi contro?

 

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