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“Non una di meno”. Sabato 25 novembre, Giornata mondiale contro la violenza sulle donne

Un anno esatto è passato dalla marea umana che ha invaso le strade di Roma. Un anno intenso in cui migliaia di donne hanno continuato ad incontrarsi per prendere parola pubblica e denunciare che la violenza contro le donne è un dato strutturale e sistemico, non emergenziale, non razziale come la narrazione mainstream tenta di propagandare a fanfare spiegate.
Abbiamo creduto sin da subito alla nascita di questa Rete femminista internazionale. Siamo state dal primo momento nei tavoli tematici e nelle assemblee nazionali e territoriali, abbiamo innestato i temi del lavoro e della difesa dello Stato Sociale nelle piattaforme di rivendicazione, abbiamo scelto di proclamare lo sciopero generale dell’8 marzo scorso e di costruirlo con assemblee pubbliche nei posti di lavoro. Uno sciopero globale che ha visto coinvolti 60 Paesi nel mondo.
NON UNA DI MENO aveva un progetto ambizioso: scrivere un Piano Femminista dal basso contro la violenza. Un controcanto al DPO Governativo elaborato nelle segrete stanze, senza interlocuzione con le attrici sociali e su cui tuttora c’è il silenzio tombale.
Ci siamo riuscite: il Piano Femminista contro la violenza, frutto di una straordinaria quanto inedita elaborazione politica collettiva, è realtà. Un punto di partenza, un cantiere aperto, non un punto d’arrivo. Uno strumento di mobilitazione e di lotta.
In questo percorso la nostra organizzazione sindacale non ha perso di vista mai la congiunzione imprescindibile tra i diritti civili che nutrono la libertà di autodeterminazione delle donne e i diritti sociali in cui la libertà trova espressione concreta: il welfare pubblico e accessibile, un reddito di base incondizionato e universale, il diritto all’abitare, la parità salariale, la formazione, la tutela contro i ricatti sul posto di lavoro, le misure di sostegno per la fuoriuscita dalla violenza, la denuncia delle molestie, il rifiuto di qualsiasi forma di welfare aziendale e la critica alle politiche di conciliazione.
C’è ancora molta strada da fare, affinché quel Piano divenga realtà, e quel milione e 403 mila donne che hanno subito abusi per entrare o mantenere un posto di lavoro ci forniscono il peso della violenza di genere che si perpetua sui luoghi di lavoro.

Essere più istruite degli uomini non basta a garantire un accesso e una permanenza nel lavoro, alle medesime condizioni della componente maschile, perché nel migliore dei casi, è alle donne che sono maggiormente riservati impieghi in professioni che richiedono competenze inferiori a quelle di cui dispongono.

La precarietà, i bassi salari, la bassa intensità lavorativa, le peggiori statistiche sono sempre riservate al genere femminile: la mancata partecipazione delle donne al lavoro arriva al 25,9% contro il 18,2% degli uomini; Il part-time involontario è tutto al femminile: 19,1% donne contro il 6,5% uomini. Non è dunque un caso che il reddito guadagnato dalle donne sia in media del 24% inferiore. Questi differenziali condannano le donne ad un destino di povertà: l’85% delle famiglie monoparentali in povertà assoluta ha come riferimento una donna e nella vecchiaia quasi la metà delle pensionate percepisce pensioni inferiori a mille euro e per il 16% di anziane non vi è alcuna pensione.
Le risposte messe in campo dai governi, quando ci sono, sono completamente inadeguate ad arginare il fenomeno ed anzi, negandone il dato strutturale, finiscono per riproporre la stessa visione culturale che è alla base delle discriminazioni di genere.
Interventi di stampo familistico/assistenziale o emergenziale/repressivo, col ricorso sempre più frequente ad una decretazione d’emergenza finalizzata al controllo e alla repressione di tutte le forme di conflitto destinato a crescere con l’approfondirsi delle disuguaglianze sociali.
Saremo, dunque, in piazza a Roma il prossimo 25 novembre per affermare una volta di più che se la violenza di genere è un fenomeno che attraversa tutti gli ambiti dell’esistenza delle donne, allora bisogna mettere in campo risposte capaci di pensare una trasformazione radicale della società e delle relazioni, come anche delle condizioni di vita e lavoro.

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