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10 appunti sulla UE

Piccolo breviario per replicare pacatamente ai tanti “sinistri” incapaci di uscire dalla narrazione del potere. Quella per cui se sei contro l’Unione Europea, persegui la sua rottura (euro e Nato compresi), allora sei un “sovranista”, “nazionalista”, tendenzialmente di destra o rossobruno.

Abituati a polemizzare sulle parole, senza mai curarsi della realtà (specie internazionale), i “sinistri” nostrani si sono ridotti a fare i tifosi in partite che li vedono come puri spettatori di uno sport con regole incomprensibili.

Questo breviario può aiutare a disperdere qualche nebbia e far tornare la luce anche negli intelletti più spenti. Se non basta, potete rileggervi la discussione tra Mélenchon e la delegazione di Potere al Popolo. Infine segnaliamo l’appuntamento di Roma di sabato 3 febbraio con la giornata di discussione dedicata a “Rottura dell’Unione Europea e sovranità economica” convocata da Eurostop per confrontarsi insieme a tutte le componenti di Potere al Popolo.

Se non basta nemmeno questo, rivolgetevi a padre pio….

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1. Europa e Unione Europea: due cose molto diverse

Essere contro la UE significa esserne contro le istituzioni e contro i Trattati, non certo contro l’idea popolare (o addirittura geografica!) di Europa. I Trattati sono proprio quelli che impongono ai popoli europei un’austerità perenne: dal Trattato di Maastricht, a quello di Lisbona, al 6-Pack e 2-Pack al Semestre Europeo, sono tutti pezzi dell’istituzionalizzazione dell’austerità, basata su criteri economici arbitrari e che conducono al “pilota automatico” in caso di sforamento, ovvero al totale esautoramento delle istituzioni democratiche. Le istituzioni sono una Banca Centrale Europea il cui unico obiettivo è quello del contenimento dell’inflazione e non dell’aumento dell’occupazione, la Commissione Europea non è eletta democraticamente dai popoli europei ma riflette i rapporti di forza fra i vari Paesi, perfino il Parlamento Europeo che dovrebbe essere il luogo per definizione dove si attua la sovranità popolare non ha niente di democratico: non esprime né può controllare la Commissione, non ha diritto di proporre leggi, non è realmente responsabile di fronte agli elettori; in pratica la sua unifca funzione è ratificare le decisioni della Commissione dandogli una patina di finta democraticità. Se quindi vogliamo trarre delle conclusioni, UE dei trattati e Europa dei popoli sono in aperta contraddizione!

2. Rompere o riformare i Trattati

Ma se il problema della UE sono i Trattati e le istituzioni, perché “romperli” quando possono essere “cambiati”, ovvero riformati democraticamente? Semplicemente, perché il meccanismo istituzionale interno alle UE rende la modifica dei Trattati impossibile. I Trattati (che generano anche le istituzioni) sono deggli accordi internazionali fra governi, e possono essere cambiati solo all’unanimità dei Paesi membri. Non possono essere cambiati dal Parlamento, né dalla Commissione, né da una maggioranza di paesi all’interno del Consiglio d’Europa. Vuol dire convincere tutti ma proprio tutti i governi di tutti i Paesi membri che i Trattati sono sbagliati e le istituzioni antidemocratiche. La Germania, ovvero il blocco politico-industriale tedesco, potrebbe mai cedere su una posizione che le concede un controllo sugli altri paesi europei quasi incontrastato? Evidentemente no. Anche per questo non ha nessun senso l’indicazione di spingere verso una “maggiore integrazione europea” o alla scrittura di una “Costituzione Europea”: anche qua, l’unica possibilità di sviluppare una maggiore integrazione-cooperazione sotto una Costituzione Europea portatrice di istanze sociali quale quella italiana vuol dire prima di tutto rompere con i Trattati attuali, ovvero con la UE stessa.

3. Il “blocco mediterraneo” per cambiare i rapporti di forza

Se non ci può essere un cambiamento democratico-istituzionale, si potrebbe provare una lotta che parta da un ribaltamento all’interno dei rapporti di forza fra i paesi UE: un blocco compatto dei paesi mediterranei in senso anti-austerità potrebbe imporre alla Germania la modifica dei Trattati. Il problema è di coordinamento! Quanto bisognerebbe aspettare affinché in quattro-cinque dei paesi mediterranei si esprimessero contemporaneamente dei governi fortemente progressisti e in aperta rottura con le politiche della UE? 1 anno, 5 anni, 50 anni? I governi vanno e vengono, non è realistico pensare che una volta che un governo progressista prenda il potere in un Paese, non potendo cambiare reali le condizioni di vita della popolazione in quanto costretto dalle politiche di austerità, possa resistere elettoralmente finché anche gli altri Paesi del mediterraneo aderiranno alla sua linea! E se anche per magia questo coordinamento si riuscisse a ottenere in breve tempo, come potrebbe reagirebbe questo blocco di fronte a un veto della Germania, se non uscendo appunto in blocco? Allora tanto valeva uscire prima, anche singolarmente, e “dare il buon esempio” agli altri. Certo, le organizzazioni politiche e sindacali di sinistra progressista e di classe devono lottare insieme e lavorare sempre di più per portare avanti un progetto politico comune, ma questo non vuol dire stare fermi finché non ci si riesce a muovere tutti insieme!

4. Una questione economica: uscire dall’Euro senza uscire dalla UE?

Se i problemi sono prevalentemente di carattere economico, non basterebbe uscire dall’Euro e però mantenersi dentro l’Unione insieme agli altri Paesi? No per diversi motivi: i Paesi membri sono inseriti in un percorso che porta all’adozione dell’Euro, quei Paesi che non l’hanno ancora adottato sono “in deroga temporanea”; i caratteri economici non riguardano soltanto la moneta, ma anche i parametri dei vari vincoli di bilancio, quindi sono di tipo fiscale; una riconquista della sovranità monetaria (la possibilità di svalutazione ecc.) non comporterebbe un miglioramento dell’economia senza un intervento sulle altre questioni, a partire proprio dai nodi dei vincoli di bilancio; infine, i problemi non sono unicamente di carattere economico, ma anche politico, per la natura antidemocratica delle istituzioni UE. Non basta uscire dall’Euro, bisogna anche uscire dalla UE. Questo non vuol dire annullare tutte le forme di cooperazione economica (a partire dal commercio di beni) fra i Paesi europei, ma vuol dire che i popoli europei possano tornare a essere democraticamente sovrani della gestione economica dei loro Paesi.

5. Guerra e pace, UE e NATO

È vero, economicamente la UE è un disastro, ma ha garantito la pace in Europa per settant’anni”. Serve davvero un’istituzione che opprime e saccheggia i popoli europei per garantirne la pace? E siamo sicuri che viviamo “in pace”? Per quanto vogliano farci credere che sia la UE a mantenere la pace, questa Unione fortemente di carattere economico-liberale si costituisce soltanto nel 1994 col Trattato di Maastricht, mentre fino al ’94 “questa pace” è stata garantita da una forma stabile di cooperazione, prevalentmente economica, fra i Paesi membri, senza però le imposizioni di un’istituzione sovranazionale che ne svuotasse i luoghi decisionali democratici. E poi di quale pace stiamo parlando? Diversi studi quantificano gli effetti economici e sociali dell’austerità per Paesi quali la Grecia e l’Italia più devastanti di quelli della Seconda Guerra Mondiale; nel 1991 i governi europei dopo avere favorito la destabilizzazione della Jugoslavia intervengo in un fronte compatto sotto l’egida della NATO con pesanti bombardamenti; intervengono ancora in Libia nel 2011 destituendo e di fatto condannando a morte Gheddafi aprendo la strada alle milizie jihadiste; nel 2013 supportano il movimento europeista ucraino di piazza Maidan a forte trazione fascista, favorendo una guerra civile e supportando il governo di Kiev con componenti dichiaratamente naziste. Per non parlare degli interventi diretti nello scenario siriano, la vendita di armi a paesi in guerra o riconosciuti come sponsor del terrorismo internazionale (in particolar modo l’Arabia Saudita). E ancora, l’importanza della proiezione militare della UE è dimostrata dalla forte spinta per l’unificazione di un esercito comune europeo (la Germania si è già messa avanti unficiando sotto il suo comando gli eserciti di diversi Paesi dell’est Europa), e dalle spese militari che sono l’unica parte dei conti pubblici non soggetti alle restrizioni dei vincoli di bilancio: non si può fare debito per l’istruzione, la sanità o il lavoro, ma soltanto per rafforzare l’esercito. Anche per tutti questi punti, per la questione della pace e del non-interventismo militare non basta rompere con la UE, ma bisogna anche rompere con la NATO, che ci impone di spendere 80 milioni al giorno per le spese militare e che è la prima responsabile della nuova strategia espansionistica verso est, rafforzando una pericolosissima tensione con la Russia di cui i paesi europei sono i primi a rimetterci.

6. Fortezza Europa: migranti e diritti umani

Insieme alla falsa retorica della pace, spesso si disegna la UE come unico argine al devastamento dei diritti umani, costruendo un balzano dualismo nazionalismo-razzismo vs. europeismo-accoglienza. La falsità di questa visione è sotto gli occhi di tutti: negli ultimi anni sono morti nel Mediterraneo decina di migliaia di migranti a causa delle politiche di chiusura delle frontiere esterne di quella che si è chiamata la Fortezza Europa. La UE ha stretto degli accordi terribili per il contenimento dei flussi migratori, quali quello con la Turchia e con le milizie libiche, entrambi ampiamente riconosciuti assassini e torturatori: la UE paga degli aguzzini per tenere lontano i migranti. Per quelli che riescono ad arrivare il trattamento non è migliore: chiusi in centri di detenzione senza alcuna legittimità giuridica, sovraffollati e senza la possibilità di curarsi, né di lavorare per migliorare la propria condizione. Il Trattato di Dublino li umilia ulteriormente, privandoli della libertà di movimento. Servono da una parte delle politiche sul piano internazionale che annullino le ragioni dell’emigrazione, a partire dalla fine delle guerre occidentali e dalla destabilizzazione di intere regioni dell’Africa e del Medioriente e dello sfruttamento delle loro risorse economiche, e che pongango fine agli accordi internazionali criminali, dall’altra delle politiche interne ragionevoli di accoglienza che sottraggano i migranti dalla violenza dei trafficanti di uomini, dal business spesso mafioso dell’accoglienza, e dallo sfruttamento lavorativo del caporalato. Politiche che la UE non dimostra nessuna intenzione di volere realizzare.

7. La posizione anti-UE è di destra.

La UE è un’istituzione sovranazionale che svuota i lugohi di decisione democratica, è basata su Trattati fortemente neoliberali che impongono un’austerità cieca, si sta dotando di strumenti militari sempre più avanzati per portare avanti la sua proiezione imperialista, firma accordi criminali per il flusso di migranti che non si fa scrupoli di lasciare morire nel Mediterraneo. E sarebbero le posizioni anti-UE quelle di destra? L’euroscetticismo di destra ha avuto una parabola molto breve che dimostra un opportunisimo di questi partiti sul tema, che però non vuole andare a risolvere realmente: i movimenti di destra radicale quali la Lega Nord o il Front National in Francia hanno sventolato per brevi periodi la lotta contro l’Euro, ma mai quella contro la UE, e ora hanno smesso di fare anche quello. Le loro posizioni razziste e xenofobe di chiusura delle frontiere non sono solo compatibili con la UE, ma sono state addirittura superate proprio dalle politiche di cui sopra. A oggi non c’è nessuna credibile proposta di uscita dalla UE “da destra”, mentre è una battaglia assunta sempre di puù dalle sinistre radicali di tutta Europa.

8. Uscire dalla UE sarebbe un disastro economico

Ovviamente questo punto richiederebbe un trattamento tecnico specifico e lunghissimo, per cui si può solo consigliare un approfondito numero de Il Ponte sulla questione, dal titolo Un’Altra Europa. Una nota però va fatta: l’uscita dalla UE permetterebbe a un Paese il recupero di quegli strumenti di politica economica “classici” che gli Stati hanno usato per decenni nella gestione della loro economia, e che in questo momento sono appunto preclusi dalla UE. Si parla ovviamente della sovranità monetaria (la possibilità di svalutare avrebbe degli effetti generalmente positivi se acocmpagnata da una seria politica industriale) ma non solo, del controllo politico sulla Banca Nazionale, sulla possibilità di ricontrattare il debito (soprattutto nella sua parte di tassi di interesse), lo strumento inflazionistico per creare lavoro, sul controllo dei capitali e la nazionalizzazione dei settori strategici… Insomma, lo Stato potrebbe e dovrebbe mettere in campo tutti quegli strumenti normali di politica economica che ora gli sono impediti. Ribadiamo inoltre che l’uscita dalla UE non vuol dire la totale chiusura di collaborazione economica o commercio con gli altri Paesi europei, ma uscire dall’oppressione dei Trattati. E poi c’è un elemento controfattuale: la Grecia di oggi in cui i bambini muoiono di fame sarebbe potuta stare addirittura peggio di così se nel 2015 avesse attuato la Grexit? Tutti gli studi economici prevedono per l’Italia un recupero economico che potrebbe durare decenni, non siamo già in un disastro economico?

9. Sovranismo e internazionalismo

Il ritorno al sovranismo è l’antitesi dell’internazionalismo, dicono. Niente di più falso. L’internazionalismo ha a che fare con i rapporti fra le organizzazioni di classe di tutti i Paesi al di fuori delle istituzioni statali-borghesi. L’internazionalismo è fra i lavoratori, fra i sindacati e fra i partiti comunisti, non fra i Paesi in sé (a meno che non siano Paesi socialisti!) né fra i governi borghesi. La UE invece è proprio questo, un’unione fra Paesi e governi capitalisti. Che c’entrano i lavoratori e le classi subalterne in questo processo? Niente! Al di fuori della retorica dell’Erasmus, la UE non sta in nessuna maniera avvicinando nemmeno sentimentalmente i popoli europei, anzi li sta allontanando, alimentando la competizione fra essi e la lotta fra poveri: una forte campagna di disinformazione ha portato i lavoratori tedeschi a vedere i lavoratori mediterranei (in particolare greci) come quelli a cui devono pagare i debiti, alimentandone l’odio, e i mediterranei ricambiano vedendo i lavoratori tedeschi, con un tenore di vita solo relativamente migliore, come quelli che hanno tratto vantaggio dalla crisi. Nella differenza e nella miseria è più facile che covi rancore e divisione che non unità e solidarietà. D’altra parte, non possiamo sacrificare la realtà di miseria dei popoli europei sull’altare di una fantomatica solidarietà transnazionale che non esiste. I lavoratori mediterranei e i lavoratori del nord Europa hanno lo stesso nemico, che è quello del capitale europeo a trazione tedesca, e per questo devono certo condurre una battaglia comune, ma colpendo ogni qualvolta gli è possibile. Per questo bisogna ribaltare un vecchio motto: marciare uniti, colpire separati!

10. Lotta alla UE e lotta al capitalismo

Infine, forse il nodo più spinoso per i comunisti: se bisogna combattere il capitalismo, la lotta contro la UE non è che una distrazione dannosa. Ma che cosa è la UE se non il progetto del capitale europeo di rafforzarsi? La storia stessa della creazione della Comunità Europea che poi ha portato alla UE ce lo conferma: l’unificazione non è stata mossa dai popoli europei, ma dai governanti, dagli industriali, dai banchieri. Da chi è controllata in questo momento la UE, dai popoli e dalle classi subalterne o dai capitalisti? Ma soprattutto, guardando in avanti, chi sta portando avanti il processo di un’ulteriore stretta di unificazione europea, i lavoratori o i capitalisti? E quindi chi avrà più a beneficiarne se questo processo avanzerà e funzionerà? Essendo queste risposte eccessivamente scontate, come si può dire che la lotta contro la UE sia diversa dalla lotta contro il capitalismo? Certo, l’uscita dalla UE non significa automaticamente l’instaurazione del socialismo, ma significherebbe un cambiamento talmente epocale da aprire uno scenario totalmente contendibile dalle organizzazioni di classe. Ma soprattutto vorrebbe dire infliggere una sconfitta durissima al progetto capitalista pari soltanto a quella imposta dalle lotte operaie negli anni ’60-’70, o della sconfitta degli USA dal Vietnam. Nè si potrebbe pensare materialisticamente di combattere contro un capitalismo inteso in forma astratta, o contro il concetto di multinazionali o di finanza: bisogna combattere contro le istituzioni capitaliste, siano esse aziende multinazionali, governi o organizzazioni sovranazionali. Il capitale europeo sta accelerando sul processo di unificazione per garantire al tempo stesso una impostazione economica totalmente neoliberale e una struttura istituzionale antidemocratica (svuotamento dei luoghi della democrazia rappresentativa classica per spostare il livello decisionale in organismi al di fuori di qualunque controllo popolare) tale da mettere la governance di tale economia al riparo dalla decisione dei cittadini-elettori: se infatti lo scopo è quello di attuare appieno il neoliberismo, è evidente che una forma istituzionale democratica lo metterebbe a rischio, in quanto la maggioranza della popolazione sarebbe contraria. Questa accelerazione è necessaria al capitale europeo per la sua sopravvivenza, ma al tempo stesso la espone tantissimo, in quanto essendo questi processi appunto velocizzati la UE non ha fisicamente il tempo per accompagnare questa feroce guerra di classe dall’alto con strumenti ideologici e propagandistici (che siano la retorica dell’Erasmus o piccole elargizioni di denaro a questa o quella parte sociale) sufficienti a poterne contenere e controllare un dissenso che si fa ogni giorno più forte. Nel momento di sua massima espansione, il capitalismo europeo mostra la sua enorme vulnerabilità: abbiamo un’occasione storica per dargli una mazzata colossale, una di quelle occasioni che si presentano una volta sola ogni centinaio di anni.

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