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Rapporto carceri 2018: la popolazione carceraria immigrata è in diminuzione. Intervista a Patrizio Gonnella, di Antigone

E’ uscito qualche giorno fa il rapporto dell’associazione Antigone sulla situazione carceraria italiana per il 2018. Si tratta di un lavoro molto approfondito che fotografa la condizione delle nostre carceri sotto tutti i punti di vista.

Ad attirare l’attenzione dei media mainstream (addirittura La Repubblica ha dato spazio alla notizia, cosa abbastanza rara) la parte riguardante la presenza di immigrati nelle carceri italiane, che risulta essere in diminuzione.

Ne abbiamo parlato con il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, nell’intervista che segue.

Partiamo dalla notizia mediaticamente più rilevante emersa dal vostro rapporto sulle carceri in Italia: è diminuita la precentuale di immigrati. Una notizia che va in controtendenza rispetto la narrazione che al momento pare andare molto nel nostro paese, e cioè che immigrazione sia sinonimo di insicurezza sociale.

Si. Il nostro rapporto, che abbiamo realizzato in modo molto serio, rigoroso e approfondito e senza ideologizzare il dibattito, che deve rimanere assolutamente ancorato al dato reale, prende in considerazione un dcennio, dal 2008 al 2018. E’ una forbice temporale ampia e necessaria perchè chi fa un lavoro di tipo statistico deve ragionare su un arco di tempo ragionevole, non ha senso comparare il dato a sei mesi fa. In sei mesi basta un evento singolo, una retata ad esempio, a modificare significativamente i dati. Dieci anni sono un arco di tempo importante e che in ambito penitenziario funziona, dieci anni fa i detenuti erano più o meno – a livelo numerico – gli stessi di oggi.

In questo decennio i detenuti stranieri sono diminuti, sia in termini percentuali che in termini assoluti. Se prima erano circa 21.000, ora sono circa 19.500. E’ un dato importante perchè ovviamente nell’immaginario di ciascuno di coloro che hanno alimentato questo dibattito odioso e ovviamente con forti pulsioni identitarie e xenofobe, crea uno scenario forse inimmaginabile.

E’ chiaro che non è possibile, solo sulla base di questo dato reale, a cambiare la narrazione che in questo momento è vincente da parte di chi alimenta, da Salvini in poi, questo dibattito.

Noi però non vogliamo parlare né a Salvini né ai suoi più fedeli sostenitori, che comunque rappresentano il 30% degli italiani. Non ci interessa parlare a loro perchè partono da tesi pregiudiziali, se quacuno mi dice che l’uomo di colore appartiene ad una razza inferiore che gli posso dire? Sei cretino! Ma più di cretino non posso dirgli… Quello di cui è importante ragionare invece è della “zona grigia”. Non con chi tratta male l’immigrato in spiaggia, ma con chi nella vita quotidiana si siede in una panchina, a piazza Beltramelli qui a Roma, magari un pensionato, e si mette a parlare dei fatti del giorno, leggendo Metro, Leggo, o guardando la televisione. Bisogna offrire a queste persone uno strumento che gli spieghi in modo molto semplice che ci stanno sparando una grande quantità di cazzate, una grandissima quantità. Noi questo lo diciamo guardando ai numeri veri, alla realtà, lo abbiamo detto di fronte ai vertici del Ministero della Giustizia. Questo è importante. Non c’è visione unanime nemmeno tra gli operatori!”

Quali sono gli aspetti più importanti su cui vi siete soffermati?

Un dato interessante è quello che riguarda le singole comunità. Quando si parla di stranieri è solo all’interno di una logica di guerra, si parla di stranieri mettendoli tutti in un unico insieme. Straniero vuol dire essere americano, essere nigeriano, e la situazione ovviamente cambia.

Ieri erano in visita in un ex ospedale psichiatrico giudiziario ed ho incontrato due cittadini francesi: sono stranieri pure quelli, ma nessuno tratta mai due cittadini francesi come “stranieri”.

Noi siamo andati a guardare all’interno delle comunità, ed abbiamo scoperto alcune cose interessanti.

Ad esempio la comunità romena, che ai tempi dell’omicidio di Giovanna Reggiani (ricordiamo la strumentalizzazione di quella vicenda fatta anche a sinistra, con Di Pietro che affermava che l’Italia “non è il vespasiano d’Europa”), era considerata elemento di instabilità sociale, contenitore di criminalità. Ebbene, il numero di rumeni in carcere è diminuito di un terzo, in questi dieci anni. Un calo vistoso, continuo: sempre meno entrano in carcere, e sempre di più sono presenti nelle nostre città. I numeri della popolazione libera rumena sono in crescita, i numeri della popolazione detenuta rumena sono in calo. Cosa significa? Se qui accanto a me ci fossero un operatore di polizia criminale, un giudice, un PM, gente che capisce di cosa si sta parlando senza ammantarsi di ideologia, darebbe la stessa mia risposta. Le comunità, man mano che si insediano all’interno di un territorio vanno a far parte di quello: capiscono come ci si muove, come si può trovare un lavoro, imparano la lingua, si integrano. Le scelte di criminalità sono spesso collegate alla capacità o meno di essere parte di un contesto sociale: più c’è esclusione più c’è criminalità.

Diceva Massimo Pavarini, che noi di Antigone consideriamo un maestro, che il carcere è un grande contenitore di selezione classista. La funzione di selezione classista del carcere è indubbia. Poi c’è un pezzo di criminalità vera rispetto alla quale bisogna ragionare con altre politiche criminali, penali, quello che ci pare… Ma per una grande fetta di popolazione carceraria bisogna parlare di selezione di classe: questo è dagli anni ’50, e lo è ancora adesso. E quando c’è inclusione sociale la situazione cambia drasticamente”.

Altri esempi pratici?

Pensiamo alla comunità filippina: ha tassi di detenzione bassissimi. Come la spieghiamo? I filippini sono buoni? Nascono buoni? Hanno – come direbbe Lombroso – lineamenti adatti a non delinquere? No. E’ ovviamente il tipo di immigrazione che è stata di altra natura, perchè ad esempio ci sono le donne, che tendenzialmente, in qualunque parte del mondo, commettono meno reati. Perchè ci sono state e ci sono comunità di tipo familiare, perchè funziona come modello di integrazione. Dove ci sono delle congiunzioni di tipo familiare tendenzialmente crolla il tasso di criminalità. Ad esempio questo modello, dei ricongiungimenti familiari, funziona: se lo applicassimo anche all’immigrazione africana, quella maghrebina, calerebbe sensibilmente il tasso di criminalità”.

Partire dal carcere per raccontare il fenomeno dell’immigrazione: il problema però è che convincere anche la “zona grigia” della popolazione italiana che magari dà credito alla narrazione tossica salviniana perchè comunque è una risposta in un momento di crisi economica, mancanza di lavoro, paura sociale. Come far arrivare questa diversa e più realistica narrazione alla gente, e magari convincerla, visto che anche il centrosinistra ha cavalcato strumentalmente il tema?

Questo è un altro tema molto importante. E’ chiaro che le contronarrazioni, come quella che abbiamo proposto noi di Antigone, servono a dare strumenti interpretativi a chi la pensa come noi ma magari non sa come spiegarlo. Avremmo bisogno come il pane di prendere atto di questo “big bang” dell’area – diciamo così – progressista. Guardiamo anche quello che avviene all’estero, ad esempio l’offerta laburista in Inghilterra. Abbiamo bisogno di una alternativa politica che abbia visione, che non abbia paura di esprimerla, che si connetta con il lavoro delle associazioni, dei comitati, di chi è ha contatto con i fenomeni ed ha gli strumenti per interpretarli e spiegarli. Una classe dirigente rinnovata che abbia visione, che metta al centro l’ugualglianza e quindi contro le diseguaglianze sociali. Sopratutto una classe dirigente credibile. Al momento esiste un’area frammentata ed indignata che è priva di rappresentanza, che può arrivare a percentuali importanti di popolazione e che non è più interessata alle sigle, ma a qualcuno che la rappresenti sul serio, e che metta al centro senza paura la questione dell’uguaglianza sociale”.

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