Menu

Riconquistare il collettivo, riconquistare pezzi di Stato

Pubblichiamo uno dei saggi apparsi sull’ultimo numero di «Proteo», Che ne è stato dello Stato, volume che tra qualche mese sarà al centro di un ciclo di formazione Cestes e USB.

Alla luce dei tragici fatti di Genova, la nostra analisi e la nostra proposta politica di una ripresa della centralità dello Stato assumono ancora più senso e urgenza, e richiedono uno sforzo collettivo per ridare coscienza e strumenti alle classi lavoratrici di questo Paese e del loro gramsciano “farsi Stato”.

*****

 Deve esserci stata prima questa vittoria nel senso comune, nelle idee della gente, del commerciante, del trasportatore, del taxista, della donna di casa. Non importano le idee delle élites, che sono sempre un mondo a parte. Quelle che importano sono le idee della gente in basso, i loro processi logici e morali, quelli con i quali la gente valuta il mondo, ci vive dentro. È lì che abbiamo vinto.

(Álvaro Garcìa Linera, Prima bisogna vivere nel senso comune della gente)

 

1. Destini individuali, destini generali

Se trenta o anche solo venti anni fa ad un giovane lavoratore fosse stato prospettato ciò che  si prospetta oggi ad un suo coetaneo, in termini di incertezza di vita, di lavoro, di reddito, di diritti, questi probabilmente non ci avrebbe creduto, ancora avvolto in una serie di tutele derivate da una storia in cui si combinavano in Europa le conquiste epocali del movimento dei lavoratori tradotte nelle forme della tradizione socialdemocratica e di quella cristiano-sociale, e una crisi non ancora esplosa nelle forme che conosciamo. Non solo non ci avrebbe creduto, ma avrebbe probabilmente anche reagito, individualmente e collettivamente.

Oggi del mondo di quel lavoratore, nei paesi a capitalismo maturo e a maggior ragione nel nostro, stiamo vedendo la fine. A parte alcuni sporadici casi non si vede reazione, ed anzi prevale – soprattutto nei settori di pubblico impiego – un ripiegamento su se stessi.

Come questa trasformazione sia potuta avvenire, come si sia stati privati di quel complesso di garanzie che caratterizzavano una fascia importante del lavoro dipendente è tema da sempre di questa rivista, delle analisi del Cestes, ed è naturalmente oggetto del nostro lavoro politico-sindacale per arrestare questa deriva ed individuare possibili controtendenze.

Ciò che qui tenteremo di fare è mostrare che essa non sarebbe potuta avvenire se non vi fosse corrisposta quella che con un’espressione ormai abusata venne da Pasolini definita “mutazione antropologica”, ovvero la costruzione di un’altra tipologia umana, diversa per caratteristiche di coscienza, autopercezione, desideri, aspettative, valori.

Non si vuole invertire il rapporto tra essere sociale e coscienza, in cui è sempre il primo termine  a determinare il secondo, ma neanche rimanere incastrati in una rozza e schematica lettura che non coglie quanto nell’ultimo trentennio la vittoria della società capitalistica sia passata anche attraverso il livello culturale ed ideologico, tanto da fare sparire l’idea stessa che potessero esistere quelli che Franco Fortini, in un suo splendido verso, definiva i “destini generali”.

Questo binomio fortiniano è diventato il titolo di un libro, I destini generali[1], per molti elementi di analisi alla base di questo articolo, che non intendiamo appesantire con particolari riferimenti bibliografici, ma che di questo testo può giovarsi per descrivere quel processo di passivizzazione e di annullamento della dimensione collettiva dell’esistenza che ogni giorno avvertiamo nella nostra attività politica e sindacale con i lavoratori e nella difficoltà di farli percepire come classe.

L’autore è Guido Mazzoni, critico, poeta e saggista classe ’67 che nel 2015 raccoglie per Laterza una serie di pensieri appartenenti al quindicennio precedente in un saggio che si confronta con la grande crisi che ha determinato una metamorfosi profonda nella vita psichica delle masse occidentali. Essa produce fra l’altro la sparizione dal dibattito pubblico di tre idee: quella del cambiamento, quella del collettivo e quella dell’uguaglianza.

La mutazione antropologica di cui parlava Pasolini e ripresa da Mazzoni, comincia a manifestarsi proprio negli anni in cui scoppia la crisi sistemica mondiale, alla fine del trentennio postbellico di sviluppo impetuoso dei paesi a capitalismo avanzato; passa attraverso le modifiche profonde degli strumenti della comunicazione e dell’immaginario prodotti delle televisioni commerciali e giunge fino ai mutamenti generati dalla rete, nei quali siamo ad oggi immersi: «la mutazione  […] è personale, sovrapersonale e intrapersonale, avendo cambiato i rapporti tra gli individui, i rapporti tra gli individui e le istituzioni e i passaggi psichici interiori»[2]

A detta dell’autore si tratta di un cambiamento talmente significativo che «il corpo interclassista occidentale, se non si aprono conflitti diversi da quelli odierni, non ha alcuna potenza progressiva nascosta»[3].

Il libro, apriamo un breve inciso, fu accolto con una reazione identitaria da certi ambienti della “sinistra” tradizionale (non certo la nostra area politica), dalla sua parte meno compromessa, che accusava Mazzoni di disfattismo e di accettazione dello status quo, cosa peraltro che lo scrittore non ha alcuna intenzione di occultare. Ma, come sempre in questi casi, non è la collocazione personale dell’autore a doverci interessare, bensì la profondità della sua diagnosi. Certo nel disfattismo e nel nichilismo è sempre ravvisabile un elemento di privilegio, il potersi permettere lo stare fermi. Eppure, e noi lo sappiamo molto bene, le obiezioni alla possibilità del cambiamento non si combattono a colpi di volontarismo, ed incrinare una mentalità collettiva che si è formata può essere compito – è un po’ il senso di questo intervento – di una intera fase politica.

La metamorfosi parte dal livello della vita psichica, attraversa la vita familiare, rompe la catena cronologica e il rapporto generazionale, investe i legami etico-politici. Nulla del mondo che conoscevamo rimane intatto. Mazzoni parla di allentamento dei nessi tra la parte e il tutto, tra individuo e destini generali, legando questo fenomeno allo sgretolamento evidente delle forme tradizionali dei partiti e dei sindacati, e più in generale di tutti i luoghi della aggregazione politica, culturale e sociale. Dovrebbe cominciare a chiarirsi perchè il nostro progetto di organizzazione sia così difficile: siamo una controtendenza, in parte riconosciuta, ma che si scontra con una mentalità collettiva fatta di sfiducia, rassegnazione e tutt’al più rancore. Ma vedremo alla fine come provare a rispondere.

La spinta più importante per il soggetto contemporaneo, dice ancora Mazzoni, è il conseguimento del piacere. Ma di una distorta idea del piacere si tratta, inteso come godimento da raggiungere a tutti i costi e non come desiderio; ciò rende quasi impraticabile la costruzione di un vero soggetto politico: «Perchè i soggetti politici di massa, per esistere, durare ed essere efficaci, domandano il sacrificio parziale delle identità che vi confluiscono; richiedono organizzazione, disciplina e delega»[4]. Quanto di più lontano ci sia oggi dalla “naturale” disposizione delle persone.

Mazzoni identifica questo stato in una frase comune, riportata volutamente nella sua volgare formulazione: “non me ne frega un cazzo”. È questo il compimento dell’individualismo, che tocca l’identità della classe e di conseguenza anche noi.

L’etica comunitaria, che in forme diverse aveva caratterizzato il soggetto lavorativo nell’età moderna, viene spazzata via da quella “cultura del narcisismo” che Christopher Lasch aveva diagnosticato per le società anglofone ma che oggi è estesa a tutto il mondo occidentale.

Questa nuova mentalità permea non solo la classe media, ma è ormai intrinseca e profondamente connaturata anche in quei settori di classe che in altri tempi avrebbero lottato per emanciparsi, ed oggi nella società dei consumi non riescono (non riusciamo, perchè è bene combattere anche quelle parti di noi stessi che rimandano a questa cultura) a staccarsi dal mito dell’anticonformismo di massa, altro elemento centrale della cultura di oggi, una pretesa di originalità a tutti i costi che in realtà è quanto di più conformistico possa esserci.

D’altra parte sulla base di quale sistema di valori prospettare ad un giovane oggi delle alternative diverse? Solo sulla base del fatto che quel sistema dei consumi oggi gli è sempre più irraggiungibile? Che la crisi morde? Senz’altro anche a partire da questo, ma non solo.

Il testo di Mazzoni è incentrato sulla difficoltà di opporre un controdiscorso al modello, che non sia la risposta minoritaria, mutualistico-solidale o volontaristica. Come invece creare una alternativa credibile a livello di soggettività politica e sindacale, ponendo in una maniera diversa la questione dello Stato? Per noi, tradotto all’essenziale, intorno a quali principi costruire questa nuova soggettività di classe e di massa? Ignorare il problema della involuzione della coscienza, non capire che si apre lo spazio per una battaglia culturale che passa nei posti di lavoro, nella società, nelle scuole, nei luoghi di aggregazione, significa condannarsi al fallimento. Gli spazi collettivi sono stati progressivamente distrutti, la sinistra è vista come il nemico principale, l’idea stessa dell’uomo come essere sociale svanisce, e l’unica aspirazione (legittima certo!) è avere un proprio spazio di serenità e di relativo benessere.

 

Oggi nessun occidentale si aspetta qualcosa di decisivo dalla politica, i grandi avvenimenti sono vissuti come astrazioni, meccanismi o spettacoli e tutto quello che interessa, a cominciare dai conflitti etici fra legami e piacere, si gioca nel tempo presente e nello spazio del privato.[5]

 

Questa amara diagnosi non è assunta qui minimamente come un’impasse insuperabile. Misura, ripetiamo, le difficoltà di trovare soggetti disponibili a spendere parti del proprio tempo per qualcosa che non sia il proprio personale interesse, la propria personale sopravvivenza. Certo, quando quest’ultima è messa in dubbio, non si può essere così ingenui da pensare che le persone scelgano immediatamente la militanza sindacale e politica. Tuttavia uscire dalla cultura dell’individualismo è una delle battaglie fondamentali di oggi, che anche come organizzazione sindacale dobbiamo esplicitare e su cui costruire identità e aggregazione.

 

2. La privatizzazione dei luoghi del sapere

 

Se il passaggio che abbiamo cercato di descrivere ha le caratteristiche di una invasione, per usare le parole di Alessandro Mazzone in un testo su cui ci soffermeremo dopo, che passa innanzi tutto dai luoghi della produzione della coscienza e della conoscenza, è allora evidente che le istituzioni preposte alla formazione diventino un campo di battaglia, oggi più che mai decisivo.

Non è certo un caso che i processi di privatizzazione le abbiano e le stiano ancora oggi attraversando secondo due filoni principali:

1)     la limitazione dell’accesso all’istruzione, sempre più legato alle condizioni di reddito e dunque ad una polarizzazione di classe, in spregio ai principi costituzionali e ai compiti della Repubblica;

2)     la trasformazione delle forme e degli obiettivi del lavoro svolto in queste istituzioni, finalizzato alla privatizzazione dei risultati educativi e alla formazione di soggetti educati con la “comunicazione deviante”.

Non è nostra intenzione scendere troppo nel particolare di questa trasformazione, alla quale vorremmo in un futuro non troppo lontano dedicare un quaderno della rivista «Proteo», ma quello che si può certamente anticipare in questa sede è che il diritto costituzionale all’istruzione, come tutti i diritti non esistente in astratto ma in relazione alla capacità dei soggetti di imporne l’esercizio sulla base dei rapporti di forza tra le classi, è oggi, proprio in relazione alla condizione di debolezza della classe lavoratrice, fortemente messo in discussione.

Oltre ai dati sull’abbandono scolastico, che altro non sono che la misura di una selezione di classe che espelle i soggetti più deboli dal percorso educativo, bisogna considerare i costi relativi ai libri di testo (anch’essi strumento attraverso il quale passa, magari non direttamente la comunicazione deviante, ma certo una lettura ed una concezione del mondo), i costi dei trasporti, quelli delle mense, quelli delle tasse scolastiche, oltre a  quelli del cosiddetto “contributo volontario” (comunicazione deviante, questo sì!).

Il contributo volontario inserisce nella scuola dell’obbligo una distorsione gravissima, caricando sulle famiglie i costi della ordinaria amministrazione, creando un circolo vizioso tra lo Stato che dismette e non si prende carico dei costi dell’istruzione, e le famiglie che sopperendo a questa mancanza, finiscono per legittimare il mancato finanziamento. Tutto questo mentre si riproduce la divisione classista tra scuole d’élite con contributi di diverse centinaia di euro, e scuole di massa con richieste più basse ma di conseguenza servizi meno adeguati. Il finanziamento diversificato passa naturalmente attraverso diverse altre modalità, come spiega molto bene l’articolo di Lucia Donat Cattin dedicato ai PON. Non si tratta solo e soltanto di livelli economici diversi, ma soprattutto dell’idea che non deve esistere un ente terzo, lo Stato o il Ministero, a rendere possibile l’adeguato finanziamento delle istituzioni scolastiche, ma che esse debbano entrare in concorrenza e in competizione per accaparrarsi dei fondi, che guarda caso sono spendibili solo se si accetta un determinato modello organizzativo o didattico. Quale modello? Quello aziendalista naturalmente, legato strettamente ai modelli europei che a partire dagli anni Ottanta hanno cominciato a determinare in misura via via crescente tutte le scelte in materia di istruzione compiute nel nostro paese.

Il rimando alla dimensione europea è per noi centrale e costitutivo, essendo stato oggetto fra l’altro di un numero degli Annalidi «Proteo», il 4/2015, interamente dedicato all’Unione Europea e al modo in cui essa determina le politiche economiche dei paesi membri; questo per richiamare un patrimonio di elaborazione teorica che deve diventare per noi materia viva da riversare nell’attività sindacale a contatto con i lavoratori, naturalmente nelle modalità più adatte e utili.

Il secondo aspetto del processo di privatizzazione è relativo alle finalità complessive del sistema educativo, agli obiettivi formativi (ovvero che tipo di soggetto deve venire fuori da un percorso scolastico e poi universitario), alla relazione sempre più stretta tra quelle che i documenti ministeriali chiamano “filiera formativa” e ” filiera produttiva”.

Su questo piano si apre un terreno di analisi enorme, che va dallo studio delle linee guida elaborate a livello europeo da Maastricht in poi, passando per Bologna, Lisbona ed EU2020; ad una disamina attenta dell’investimento massiccio che viene fatto sulla cosiddetta “didattica per competenze” ed alla relazione per noi evidente che la lega all’introduzione dell’obbligo all’alternanza scuola lavoro a partire dalla 107/2015.

Non si può qui non menzionare Nico Hirtt, da decenni impegnato nello studio e nella demistificazione dei nuovi modelli di insegnamento, che abbiamo avuto l’onore di ospitare come Cestes e come Usb Scuola nei mesi scorsi. Molto schematicamente, nella vasta mole di scritti dello studioso belga, si possono individuare tre filoni: privatizzazione, spinta ai mercati, metamorfosi di contenuti e metodi pedagogici.

Scrive Hirtt, rispondendo ad una intervista[6], che «una delle caratteristiche dell’economia è che gli investitori stavano cercando nuovi settori in cui investire e si sono così rivolti a quei settori che tradizionalmente erano pubblici. Hanno preteso che gli stati liberalizzassero, cioè privatizzassero, i servizi pubblici e da quel momento, dei settori che erano tradizionalmente di competenza pubblica, come il servizio sanitario e come i trasporti, vengono messi sul mercato a disposizione degli investitori privati. Ci sono 2000 miliardi di spesa pubblica nel mondo per l’istruzione che da quel momento sono visti come un settore potenzialmente molto interessante di investimento dai privati supportati da Banca Mondiale e altre organizzazioni internazionali». E aggiunge: «Il terzo aspetto riguarda la trasformazione della scuole – ed è l’aspetto di gran lunga più importante – (qui bisogna dire che siamo di fronte a una trasformazione che riguarda la scuola pubblica e non solo quella privata); si tratta della trasformazione dei contenuti, degli obiettivi e delle pratiche didattiche. La trasformazione delle pratiche pedagogiche delle scuole con lo scopo di indirizzarle sempre più al servizio del mercato del lavoro e della competizione economica. In questo terzo significato ci sono qui tutta una serie di conseguenze come la deregolamentazione, la decentralizzazione, lo slittamento dell’attenzione verso le competenze. Tutte cose che indirizzano la scuola verso lo sviluppo della competizione economica.»

Un ultimo passaggio relativo alla trasformazione dei sistemi formativi va qui fatto. Esiste un  legame, sul quale intendiamo lavorare, che è quello che unisce crisi sistemica, trasformazione dei sistemi produttivi, modifica del ruolo dello Stato, adeguamento del mondo della  formazione scolastica ed universitaria alle esigenze dei padroni, mutazione antropologica, coscienza dei lavoratori e aspettative del mondo giovanile. È chiaro infatti che questa baracca sta in piedi se riesce a tenere il sistema della “comunicazione deviante”, se questo modello continua a determinare la formazione di quelli che definiamo gorilla ammaestrati;  c’è da chiedersi se invece non possa succedere che questi, in determinate condizioni e con determinati passaggi organizzativi, rompano la campana di vetro che li copre e pongano una serie di questioni rivendicative, sindacali ma ancora di più politiche e di civiltà che riguardano il futuro stesso della nostra società. La battaglia contro l’alternanza scuola lavoro è in questo senso la madre di tutte le battaglie, perchè può davvero diventare il punto di caduta di tante questioni che abbiamo cercato di affrontare e individua un soggetto a metà tra lo studentesco e il lavorativo su cui si scarica il peso della crisi, della disoccupazione strutturale, della precarizzazione, della flessibilità ideologica, dell’incertezza del vivere.

Qui è in atto il progetto di plasmare una tipologia umana. Non è un progetto da guardare nell’immediato, ma un percorso che si è avviato e che ha a che fare con il disastro educativo che oggi si prepara nelle nostre scuole, come è evidente a chiunque alzi gli occhi dalla sua situazione personale più o meno  buona e ragioni in un’ottica di sistema. Gramsci parlava di “cimiteri della cultura” a proposito di certe istituzioni culturali. Oggi esse servono sempre di più a formare i gorilla ammaestrati di cui parlavamo prima. «È il gorilla che deve comprendere oggi le modalità in cui si attua il suo addomesticamento, per rovesciarle e liberarsi dalla subalternità e dallo sfruttamento»[7]. È su questo che come Cestes, come Usb Scuola insieme alla campagna bastalternanza[8] stiamo ragionando da mesi, per aprire una prospettiva di ripensamento del ruolo dell’istruzione e del rapporto tra saperi ed esperienze, tra scuola e mondo del lavoro, non certo nell’ottica di sfruttamento, dequalificante, precarizzante e priva di dimensione culturale della attuale alternanza.

 

 

3. Una nuova idea di Stato

 

Non crediamo che il ribaltamento di prospettiva che qui si cerca di suggerire possa davvero avvenire senza una ripresa della riflessione sullo Stato, sulla sua funzione attuale e su quella possibile. Un quaderno di formazione che affronta i nostri temi e si rivolge prima di tutto (ma non solo) ai lavoratori del Pubblico impiego non può ignorare questo passaggio.

Noi stessi abbiamo voluto descrivere, forse tra i primi, la trasformazione dello Stato avvenuta all’incirca tra fine anni Ottanta e inizi anni Novanta, vicino alla prima ondata di privatizzazioni, in una fase di passaggio storico mondiale legato alla fine del campo socialista ed alla accelerazione del progetto di integrazione europea che di lì a poco si sarebbe concretizzato nel Trattato di Maastricht. Quando Rita Martufi e Luciano Vasapollo hanno scritto nel 1999 Profit State, redistribuzione dell’accumulazione e reddito sociale minimo (Città del Sole, Napoli), hanno messo al centro dell’analisi il fatto che la trasformazione del sistema produttivo avesse travolto lo Stato sociale: «i mutamenti dovuti al ciclo postfordista dell’accumulazione flessibile che determinano la crisi fiscale dello Stato e l’aumento dei costi del Welfare non sono più compatibili in un sistema di alta competitività internazionale» (p.229); ed ancora «L’accumulazione flessibile tende sempre più a manifestarsi […] come progressivo impoverimento dei ceti tradizionali protetti, a partire dall’intera area del pubblico impiego…» (p. 230). La vicenda di cui stiamo parlando, ridotta all’osso, sta tutta qui. Il Profit State gioca un ruolo attivo nella ristrutturazione capitalistica ed è anzi la forma statuale adeguata alla fase della produzione e accumulazione flessibile. Lo Stato non era certo, prima di questa trasformazione, un soggetto neutro nello scontro fra le classi, ma la forma che esso aveva assunto nel quarantennio postbellico, dalla Costituzione Repubblicana alla Caduta del Muro di Berlino, era un terreno di scontro aperto dentro al quale era possibile strappare delle conquiste, che potevano tendenzialmente universalizzarsi se questa universalizzazione veniva imposta, sotto forma di sanità pubblica, sotto forma di accesso all’istruzione, sotto forma di pieno impiego, etc.

Non è né nelle intenzioni né nelle capacità di chi scrive aprire una riflessione sulla teoria dello Stato. Due cose sono certe però, che mai come oggi la riflessione sullo Stato è viva e produce elaborazione in tutto il mondo, e attraversa il dibattito pubblico, al punto che qualche mese fa una copertina de «L’Espresso» titolava Quel che è Stato è stato, con un approfondimento sul rapporto tra governi nazionali e poteri sovranazionali, nel caso del nostro paese ovviamente l’Unione Europea. La seconda questione è che alcune delle esperienze di transizione che oggi nel Sud America si pongono pur tra mille difficoltà il problema del superamento del capitalismo, lo abbiano fatto a partire da un ripensamento del ruolo dello Stato. Ne reca traccia l’articolo di Massimo Gabella presente in questo numero di «Proteo», ne reca traccia la straordinaria ricchezza, ad esempio, dello Stato Plurinazionale Boliviano o più in generale tutte quelle esperienze che in forme diverse ripongono il problema gramsciano del “farsi stato” delle classi popolari.

Non è naturalmente questa la sede per avviare una riflessione sull’idea marxista, leninista e gramsciana di Stato. Un punto di partenza recente può essere certamente il volume L’Ostato. Ovvero come lo Stato degli inganni sia stato sovrastato, raccolta di saggi pubblicata nel 2000 (non a caso un anno dopo l’uscita del volume di Vasapollo e Martufi sul Profit State), a cura di Gianfranco Pala, suddivisa in una parte sulla teoria dello stato, una sul concetto di Stato sociale, ed una sul perchè la forma statuale si sia “ristretta”, ma sia tutt’altro che scomparsa o necessariamente indebolita. Basta non avere una concezione rigida e semplicistica dello Stato e capire che la sua geometria è variabile, la sua esistenza coniuga sociale ed istituzionale, la sua funzione è anche di trovare una regolazione tra capitalisti in lotta per svolgere anche funzioni pubbliche o servirsi del pubblico per socializzare eventuali perdite[9].

Questo dello Stato e della riflessione sulla sua natura è oggi un terreno centrale ed imprescindibile, che nessuna soggettività politica e sindacale può sottovalutare.

 

 

4. La comunicazione deviante: come hanno fatto? Che cosa faremo!

 

Resta ancora un aspetto importante da discutere, specie per chi come noi non può permettersi di fermarsi all’analisi ma ha un compito pratico da svolgere. Come hanno fatto a portarci a questo punto nella sostanziale assenza di controforze?

Abbiamo inserito nel titolo di questo paragrafo la locuzione “comunicazione deviante”, già citata prima ma della quale sveliamo qui la fonte, ed alla quale grande centralità daremo ancora nell’analisi che segue: ci si riferisce a un volume omonimo recentemente ripubblicato da Luciano Vasapollo e  Rita Martufi[10].

Del libro parleremo dettagliatamente tra breve, non prima di avere scorto un interessante convergere della produzione saggistica a partire dalla fine degli anni ’90 e poi per il primo decennio del 2000 intorno al tema del falso eretto a sistema, della menzogna, della costruzione di una percezione distorta della realtà che invade tutti gli ambiti individuali e collettivi e sterilizza le capacità di reazione. La prima edizione di Comunicazione deviante. L’impero del capitale sulla comunicazione  è infatti del 2000, stesso anno in cui Costanzo Preve pubblica Il bombardamento etico[11] e qualche anno prima che Vladimiro Giacchè pubblichi La fabbrica del falso[12]. Questi tre esempi ci servono per individuare una caratteristica importante di quel processo di privazione collettiva degli strumenti critici e di interpretazione della realtà, che ha agito parallelamente alla controffensiva del Capitale, ne è stato anzi il braccio ideologico, ed ha ridotto le resistenze, sfaldando coscienze ed organizzazioni. La strategia del falso ha ovviamente il suo strumento principale nel linguaggio. Un linguaggio che esaspera, annulla, stravolge i significati a seconda dell’esigenza del momento.

Il fatto che ormai la menzogna non sia più occultata ma appunto evidente, significa che si è messo in moto un processo nuovo. Il potere ha certamente sempre costruito la sua legittimità su una quota di menzogna, che poteva essere a certe condizioni ed in determinati frangenti smascherata: “il Re è nudo” ne era l’espressione proverbiale. Oggi puoi anche dire la verità – e devi dirla – ma ciò non garantisce nulla, si scontra con dei recettori mentali delle persone che non sono in grado di coglierne il potenziale di rottura rispetto all’ordine esistente. I meccanismi della distorsione hanno raggiunto livelli di pervasività inimmaginabile (ma mai totale!, perchè l’utopia negativa è speculare all’ordine esistente), provocando un ottundimento collettivo che certo non si vuole qui assolutizzare, ma del quale dobbiamo prendere bene le misure per evitare la coazione a ripetere: «ci si trova allora di fronte ad una patologia culturale e sociale relativamente nuova e inedita, la generalizzata volontà di non sapere.»[13]

A questo si aggiunge quello che Preve chiama sentimento di “derealizzazione” e della “manipolazione antropologica intensiva”. Non è una gara a coniare l’espressione più difficile, ma il tentativo di descrivere l’evidente salto di qualità che il capitalismo contemporaneo ha messo in atto, per nascondere la devastante crisi di valorizzazione e lo stato di barbarie al quale è ridotto l’intero pianeta. Può essere utile ricorrere a Mazzoni, ancora una volta: «arrivato a questo punto, il discorso marxista canonico introdurrebbe l’ipotesi di un cambiamento politico. A me sembra chiaro che il cambiamento non avrà luogo, o non avrà luogo in forme che si richiamano alla tradizione progressista»[14] (corsivo nostro). Le linee di rottura possibile della nostra società non sono quelle del panorama politico novecentesco.

Riepilogando quanto detto finora: senza comunicazione deviante non sarebbe stata possibile la privatizzazione totale delle forme di vita comunitaria fin qui esistite, non sarebbe stata possibile la trasformazione dello Stato, non avrebbe in sostanza vinto e stravinto nella società questo modello.

Oggi questa egemonia costruita in Occidente sulla vittoria di un modello culturale, entra tuttavia in difficoltà per un paio di ragioni. La crisi comincia a mettere in discussione da un po’ di tempo la quota di (relativo e spesso fondato sull’indebitamento individuale) benessere consumistico, ed il grado di esclusione sociale dalla società dei consumi. Questo fatto in sè non è indice di politicizzazione, ma può in prima battuta ingenerare invidia, rancore e trasformarsi presto in razzismo, nella convinzione ingenua e distorta che il proprio personale malessere dipenda dalla eccessiva attenzione data a migranti, rifugiati etc. Ma può altresi diventare una leva per cercare di spezzare le strategie di comando della nuova catena del valore, quella che il Cestes ha iniziato ad individuare come elemento della nuova composizione di classe e dei nuovi soggetti che essa produce anche attraverso quel processo di privatizzazione dei saperi che passa dall’asservimento totale di scuola e università a questo progetto. È lì che si gioca oggi una partita decisiva.

Cosa ha spinto dunque Vasapollo e Martufi, ed il Cestes in generale, a ripubblicare quel volume del 2000? Quale è il senso di quella operazione? Che tipo di ragionamento abbiamo  voluto riattivare? Perchè crediamo vi sia un collegamento profondo tra privatizzazione della cultura, del sapere, dei luoghi della socializzazione, e quelle nuove figure dello sfruttamento che abbiamo voluto definire, richiamando una celebre espressione gramsciana, mutuata da Taylor, gorilla ammaestrati?

Per rispondere a queste domande va fatto un passo indietro, a partire dalla fase di sviluppo capitalistico intesa  come terza rivoluzione industriale, dove si generalizza l’applicazione dei  progressi scientifico tecnologici, si cambia modello di accumulazione, si massifica la sfera dei servizi e delle tecnologie dell’informazione e le comunicazioni raggiungono livelli mai conosciuti nella vita economica e sociale delle grandi nazioni capitaliste.

Collegare paradigma postfordista e nuova rivoluzione industriale – dicono gli autori – non può significare l’idea di una società interamente terziarizzata. Questa è un’assurdità.

La novità della cosiddetta “società della conoscenza” consiste nel fatto che essa accelera la velocità della sua diffusione e la sua portata globale anche attraverso cultura, scuola, formazione, realizzando una espansione globale che comporta anche, in una nuova centralità della comunicazione a tutti i livelli della società, un ambito di dominio sociale complessivo e non limitato alla sola sfera della produzione. È qui che si pone […] la questione della comunicazione come risorsa strategica nella produzione ma allo stesso tempo proiettata nella totalità del corpo sociale, per l’imposizione di un modello di conformismo funzionale alle esigenze della cultura di impresa, e quindi “deviante”.[15]

Un nuovo conformismo, dunque, proeittato nella totalità del corpo sociale, volto a produrre una forza-lavoro funzionale alla accumulazione flessibile. Questa forza-lavoro deve essere modellata sull’individualismo, sulla frammentazione del legame sociale, sulla flessibilizzazione di quella che gli autori chiamano “fabbrica sociale generalizzata”.

Quali sono i punti centrali di questo processo?

Questa tendenza alla produzione attiva del consenso tramite una “sovrabbondanza” comunicazionale, una produzione massiccia di “cultura” che in realtà assume le forme di cultura di impresa, di culto dell’individualismo, del libero mercato, ecc. rappresenta null’altro che, da un lato, il corrispettivo ideologico-culturale della nuova modalità di accumulazione che fa della conoscenza e del capitale intangibile una risorsa strategica, dall’altro il punto di arrivo di un processo secolare che è connesso ai fondamenti della società moderna, della società borghese.

Da questo deriva l’importanza del fronte culturale della lotta di classe, della formazione, delle concezioni del mondo, terreno questo su cui l’avversario ha vinto una battaglia decisiva negli ultimi decenni.

Ecco allora che la comunicazione deviante che piega l’intero vivere sociale alla cultura di impresa rappresenta una vera e propria nuova modalità dell’egemonia, coerente con una nuova fase di sviluppo capitalistico e a lei congrua su tutta la società…[16]

Una nuova modalità dell’egemonia, dunque. Nel 2000 la prima pubblicazione del volume fu preceduta da una pregevole prefazione di Alessandro Mazzone, che si è voluta mantenere anche nella nuova, perchè di grande profondità filosofica e tenuta teorica. Ecco un passo illuminante e in qualche modo definitivo rispetto alla formulazione della questione:

In una parola: lo scopo sovraordinato e irrestistibile che subordina a sé tutte le attività di una comunità umana può essere imposto non agendo sugli individui, ma essenzialmente dentro di essi. Non si tratta di semplice influenza culturale, di propaganda, indottrinamento (c’è anche questo, s’intende. Il nuovo potere si sovrappone agli altri, non li abolisce). La “comunicazione deviante”, cioè che devia: letteralmente, che fa uscire tutto un complesso di attività umane dal loro decorso consueto, e le porta a un altro traguardo, è questa azione […] Essa interviene sulle sorgenti di ogni raffigurazione di realtà e di se stessi negli individui medesimi: dunque, non solo su ogni insieme strutturato di dati in entrata (tecnicamente “informazione”), ma anche sulle modalità dell’elaborazione di informazione nelle menti e nei cuori, ossia nella rappresentazione della realtà, dunque anche di se stessi, e dunque nell’agire, nella pratica assolutamente

La comunicazione deviante non è un giochino da guru della comunicazione o da teorici della distorsione del linguaggio – anche se di essi si serve; essa è parte organica di un tutto sociale corrispondente alla nuova configurazione del modo di produzione, che oltre a scomporre il proletariato in una pluralità di figure differenti, ridefinisce il ruolo dello Stato, e dentro lo Stato di quelli che da sempre sono stati i suoi apparati ideologici – scuola e università – nei quali lo spazio per uno scontro politico-culturale si fa sempre più stretto ma al contempo più urgente e decisivo.

In uno dei saggi più densi e importanti de l‘Ostato, Alessandro Mazzone ricordava quale fosse il vero oggetto dello scontro egemonico tra le classi, in un’opposizione assoluta e molti efficace: autogoverno o tirannide[17]. La tirannide oggi passa dalla comunicazione deviante, e «può dominare, manipolare, bombardare, sterminare». Questo dovremmo averlo chiaro.

«Ma non può risolvere praticamente il problema posto da Rousseau, diversamente risolto da Hegel e da Marx, e divenuto frattanto tanto più maturo nelle cose: l’autogoverno razionale della comunità umana. Per questo mi sembra, tutto quel che è “ragione”, “dignità umana”, “cultura” e (ovviamente) “democrazia” è oggi sotto attacco, e si trova obiettivamente dalla stessa parte». Di ognuno di questi valori, perchè non restino parole vuote e distorte dalla comunicazione deviante, dobbiamo prenderci carico. Dobbiamo, come dice la citazione in epigrafe, vincere nel senso comune della gente. È un nuovo gravoso ma anche stimolante compito, per il sindacalismo conflittuale che cerca una dimensione di massa, per l’area politica che rappresentiamo, per il progetto di Eurostop del quale siamo parte integrante e importante. Se cambia la fase storico-politica, se cambia lo Stato, dobbiamo cambiare anche noi.


[1]    G. Mazzoni, I destini generali, Laterza, Roma-Bari 2015.

[2]    Ivi, p. 10.

[3]    Ibidem.

[4]    Ivi, p. 30.

[5]    Ivi, p. 64.

[6]    Autonomia  scolastica e privatizzazioni, in https://400colpi.net/2015/05/05/autonomia-scolastica-e-privatizzazioni/

[7]    L. Vasapollo, R. Martufi, Comunicazione deviante. Gorilla ammaestrati e strategie di comando nella nuova catena del valore, Edizioni Efesto, Roma 2018.

[8]    https://www.facebook.com/campagnabastalternanza/

[9]    Molto interessanti le riflessioni teoriche su questo tema di Mimmo Porcaro, https://sinistrainrete.info/sinistra-radicale/10849-mimmo-porcaro-questioni-teoriche-ii.html

[10]  L. Vasapollo, R. Martufi, Comunicazione deviante. Gorilla ammaestrati e strategie di comando nella nuova catena del valore, Edizioni Efesto, Roma 2018.

[11]  C. Preve, Il Bombardamento Etico. Saggio sull’Interventismo Umanitario, sull’Embargo Terapeutico e sulla Menzogna Evidente, C.R.T. , Pistoia 2000.

[12]  V. Giacchè, La fabbrica del falso. Strategie della menzogna nella politica contemporanea, DeriveApprodi, Roma 2008.

[13]  C. Preve, op. cit., p. 13.

[14]  G. Mazzoni, op. Cit., p. 53.

[15]  L. Vasapollo, R. Martufi, Comunicazione deviante, op. cit., p. 22.

[16]  Ibidem, p. 47.

[17]  A. Mazzone, “Idea dello Stato. Autogoverno e tirannide: per un’analisi del potere presente, e dei suoi limiti”, in L’Ostato, op. cit., pp. 97-111.

 

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *