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Dal reddito al salario. E’ ora di alzare la testa!

Quando un sistema è davvero in crisi, succedono di queste cose. Un governo – o una parte di esso – decide di destinare un po’ di soldi pubblici (molto pochi)  in un abbozzo di “reddito sociale” che fin qui non esisteva (in altri paesi dell’Unione Europea sì). L’intento, al pari degli “80 euro” di Matteo Renzi, era quello di guadagnarsi un po’ di consensi in vista delle elezioni europee – di qui la fretta di metterlo in campo, nonostante problemi burocratico-organizzativi di un certo rilievo – e dimostrare di aver almeno in parte mantenuta almeno una delle tante promesse elettorali.

Poca roba, ripetiamo, e in una logica di workfare che lambisce seriamente l’obbligo schiavistico al lavoro, deportazione compresa (basta vedere lo scontro tra Giorgio Cremaschi e il “sciur Brambilla” su La7 per averne la prova provata).

Bene, di fronte a questa robetta che fa il solletico alla povertà crescente, soprattutto delle nuove generazioni avviate al lavoro, Confindustria se n’è uscita con una critica che supera l’incredibile e diventa suicidio: “il reddito di cittadinanza è troppo alto, potrebbe scoraggiare i giovani dal cercare lavoro”. Parola di Pierangelo Albini, direttore dell’area Lavoro e Welfare di via dell’Astronomia. A suo supporto si schierano Pd, Berlusconiani, Lega, CgilCislUil, e minutaglia varia, chiarendo definitivamente qual’è il campo della destra antipopolare in questo paese.

Perché questa sortita confindustriale è stata un suicidio? Per un motivo semplicissimo, colto immediatamente da tutti e ovviamente anche da noi: se i teorici 780 euro mensili del “reddito” (in realtà circa 500, in media) sono “troppi”, tanto da “scoraggiare la ricerca di un lavoro”, allora è chiaro che sono i salari ad essere troppo bassi.

Lasciamo da parte tutti gli argomenti etici, morali, di “giustizia sociale”, che pure sono naturalmente centrali e inaggirabili. Concentriamoci invece sul “modello economico” che sta nella testa dei padroncini italiani e degli opinion maker che impazzano nei talk show (i Cottarelli, Fornero, Giannini, Boeri, ecc).

Dal trattato di Maastricht in poi (1992), tutti i paesi dell’Eurozona hanno adottato un modello “mercantilista”, basato sulla prevalenza delle esportazioni e dunque sui bassi salari per garantire una maggiore “competitività” con le economie emergenti (Cina in primo luogo). Dappertutto, anche in Germania, il lavoro è stato reso precario, sottopagato, senza potere contrattuale, grazie alle delocalizzazioni delle produzioni, che abbassavano la domanda di lavoro e quindi creavano (e creano ancora) un “esercito salariale di riserva” di enormi dimensioni e zero peso politico.

Sembrava un colpo di genio, si sta rivelando ora un suicidio. Perché i lavoratori poveri non alimentano la domanda interna e i consumi, e dunque deprimono – involontariamente, certo – la crescita economica. E dunque la crisi, mai finita, tra rottura della “globalizzazione” e incremento della competizione tra aree continentali, riprende e si aggrava non appena le banche centrali smettono di iniettare liquidità (vedi l’illuminante analisi di Vladimiro Giacché); ossia di sostenere l’indebitamento a tasso zero come sostituto imperfetto del monte salari che non cresce.

Ma bisogna dire anche che Confindustria e gli “asini competenti” che ancora dettano il “senso comune” sono in ritardo epocale anche rispetto ai loro maestri, statunitensi o tedeschi che siano. Da quelle parti, infatti, si stanno dannando l’anima per riuscire a re-localizzare sui propri territori la produzione industriale buttata via in trent’anni.

E mentre qui si insiste stolidamente nel perseguire la privatizzazione integrale di tutti i servizi pubblici (sanità, trasporti, infrastrutture, pensioni, collocamento al lavoro, ecc), in Usa e Germania le élite progettano ormai esplicitamente un vigoroso intervento pubblico nell’economia.

Abbiamo provato a far notare, nelle scorse settimane, sia la sortita del premio Nobel Paul Krugman che l’incredibile outing di Jamie Dimon, capo assoluto di JpMorgan, prima banca d’affari del pianeta. Entrambi, infatti, chiedono che i settori industriali strategici tornino di proprietà pubblica, in modo da assicurare che il 30% almeno dell’economia sia regolato da un “interesse generale” che non coincide con la sola ricerca del profitto d’impresa. Ovviamente per meglio garantire il profitto d’impresa nei restanti comparti economici.

Oggi si aggiunge il più insospettabile dei criminali che hanno spinto l’Unione Europea intera verso la deindustrializzazione, ovviamente in modo molto differenziato (poco la Germania, quasi integralmente i paesi del Sud Europa). Peter Altmaier – primo consulente economico di Angela Merkel, ex ministro dell’ambiente, ora ministro dell’industria e dell’energia – ha elaborato un documento di ben 21 pagine in cui ammette che la Germania deve reimpostare la politica economica con l’intervento diretto dello Stato  nell’economia.

L’obiettivo minimo è portare il peso dell’industria dal 23 al 25% del Pil; in Europa andrebbe riportato dal 16 attuale al 20%. In particolare, l’intelligentissimo consigliori afferma che “è stato un errore in questi decenni deindustrializzare aree dell’Europa”.

Non sottolineeremo mai abbastanza che queste parole vengono pronunciate da uno dei massimi responsabili di quell’”errore”.

Ritorna insomma dopo decenni la necessità contemporanea di ridare centralità alla proprietà pubblica e al capitale industriale nei paesi avanzati; proprio quelli che si erano spinti più in là, nella deindustrializzazione per via di delocalizzazioni, anche come risposta all’avanzata dei movimenti operai.

Avevano registrato una vittoria così grande, ammutolendo il conflitto sociale, che ora devono fare marcia indietro.

Si potrebbe obiettare che è comunque “troppo poco, troppo tardi”. L’Asia detiene ora il 60% della produzione industriale mondiale, la Cina – da sola – il 32% e si focalizza sempre più sul capitale industriale e sul rafforzamento del mercato interno. Ci vorranno decenni per ricostruire una presenza industriale all’altezza della sfida, ma nel frattempo non si può certo sperare che Cina, India e Stati Uniti – per dire solo dei competitor principali – se ne stiano lì a guardare.

Il paese anche culturalmente più arretrato risulta appunto l’Italia, spianata a tappetino – governo gialloverde compreso – sulle indicazioni di una Unione Europea in cui, invece, i primattori stanno meditando su “riforme” quasi in controtendenza rispetto a quelle “consigliate” finora.

Che la struttura dei trattati europei, insomma, sia completamente da rivedere, è cosa su cui tutti sono già d’accordo (meno gli “europeisti” di casa nostra). Ma come sempre, ogni cambiamento comporta che il prezzo sia pagato da qualcuno. E, guardando al recente trattato di Aquisgrana, tra la Francia macroniana e la declinante Germania merkeliana, l’idea che regna in quelle capitali è che il prezzo vada ancora una volta fatto pagare a chi ha la sfortuna di dover vendere la propria forza lavoro, oltre che ai paesi meno forti dell’Eurozona.

Neanche “l’autocritico” Altmeier, infatti, menziona affatto l’attuale livello dei salari continentali come un handicap per la crescita continentale.

Alla fine di questo lungo giro, insomma, ci troviamo di fronte alla solita “eterogenesi dei fini”. Il presunto reddito di cittadinanza, con tutti i suoi cavilli e vincoli schiavistici, scoperchia involontariamente il vero problema dell’economia europea (e, sia detto sottovoce, la vera ragione della “scomparsa della sinistra”): il livello dei salari, ormai al di sotto della sopravvivenza.

Non è un caso che sia la Francia, in questo momento, il teatro del conflitto sociale più aperto, unitario, violento, di massa. Lì, infatti, le “riforme strutturali”, che in Italia sono state messe a punto nell’arco di oltre venti anni, vengono ora imposte tutte insieme. In più, sono stati (anche) i governi di centrosinistra – insieme a quelli di Berlusconi – a farle passare con la complicità fondamentale dei sindacati “classici”, CgilCislUil.

Ci sono voluti i Gilets Jaunes per scuotere la Cgt (per decenni un equivalente della Cgil) e imporre uno sciopero generale. C’è voluto un movimento che ha messo in azione unitaria le figure sociali frantumate dal neoliberismo (precari, abitanti delle aree periurbane, piccoli imprenditori di se stessi, pendolari, ecc) per far capire anche alle categorie un tempo “protette” che non ce n’è ormai più per nessuno.

E quindi per porre al centro delle rivendicazioni l’aumento del salario minimo a 1.800 euro al mese (corrisponde al nostra “salario lordo”, perché in Francia, fin qui, i contributi previdenziali vengono versati autonomamente dai lavoratori, non dalle imprese tramite “ritenuta alla fonte”).

E’ l’ora di porre la questione anche in Italia. Potere al Popolo è il soggetto che può farlo e sta iniziando a ragionarne. Bisogna accelerare, perché proprio la questione del salario – il suo livello da fame – dimostra cosa sono state fin qui le “politiche europee” votate all’austerità.

Proprio la questione del salario, dunque, insieme a quella del welfare e delle nazionalizzazioni industriali, richiede la rottura dei trattati. E’ una questione di classe, non “nazionalista”.

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