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Genova: una seconda battaglia vinta

Con uno scarno comunicato, l’Agenzia Marittima DELTA Srl, raccomandataria della Bahri Jazan, in arrivo nella mattina del 20 giugno nel porto di Genova, ha comunicato all’Autorità Portuale “dietro precise istruzioni” della Teknel che “a seguito delle note proteste […] non provvederà ad ordinare l’imbarco sulla m/n Bahri Jazan di nr 8 generatori destinati al porto di Jeddah”.

Per la seconda volta, nel giro di poche settimane, i portuali genovesi e gli attivisti mobilitatisi in loro sostegno hanno vinto una difficile battaglia.

La nave è parte della flotta della compagnia nazionale saudita ed è un vettore del traffico d’armi; in questo caso di una tipologia d’armamento prodotta dall’italiana Teknel destinata alla Guardia Saudita, un corpo militare impegnato con tre brigate sul fronte yemenita, come rivelano i documenti dei servizi segreti francesi resi pubblici da due giornalisti di Disclose.

Questa inchiesta, che ha rivelato senza ombra di dubbio la chiara responsabilità dei sistemi d’arma francese nel conflitto yemenita, è costata ai due autori una indagine giudiziaria in corso condotta dai servizi segreti stessi!

Le Havre, Genova, Marsiglia ed ancora il capoluogo ligure sono stati teatro dell’azione dei portuali che si sono rifiutati di caricare armi da guerra per “la più grande crisi umanitaria del pianeta”, come l’ha definita l’ONU

Una vittoria importante all’interno di un contesto difficile, dove la spinta dei lavoratori ha di fatto imposto alla FILT-CGIL per la seconda volta di proclamare lo sciopero per i lavoratori che avrebbero dovuto maneggiare il materiale. I lavoratori del CSM – il magazzino doganale dentro l’area portuale, in cui erano stati parcheggiati i generatori dopo essere stati spostati dalla banchina il giorno in cui non erano stati caricati,  della GMT, concessionario della banchina cui attracca la nave – ed i lavoratori della compagnia unica (la Culmv), che sarebbero stati “chiamati” ad operare in supporto.

Bisogna ricordare che l’USB e il SiCobas, organici alla protesta, avevano dato disponibilità a dare “copertura” all’azione dei lavoratori – qualora la FILT si fosse sfilata – all’interno di un percorso unitario teso a praticare un obiettivo chiaro e dentro la prospettiva di una battaglia di lunga durata.

Il motore della protesta è stato il Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali, che da anni è il principale soggetto politico-sindacale dello scalo genovese, protagonista di importanti lotte contro l’auto-produzione, per la sicurezza, contro la precarietà, e che aveva puntualmente denunciato il traffico d’armi sulle banchine già da molto tempo, nel sostanziale silenzio della politica e dei media (tranne rare eccezioni) .

Alla battaglia del CALP, di cui fanno parte delegati di importanti realtà portuali, si è affiancato un nutrito insieme che va dall’associazionismo alle organizzazioni politiche, producendo materiale informativo dettagliato e facendo una puntuale denuncia di ciò che stava accadendo, consci che in una fase difficile la determinazione ad agire ed a praticare l’obiettivo sono il faro attraverso cui coagulare un tessuto di militanti che vuole lasciarsi definitivamente alle spalle le macerie di pratiche politiche che definire infruttuose è eufemistico.

Per questo era stato organizzato “al volo” un presidio, questo martedì, come momento di denuncia pubblica di fronte al palazzo dell’autorità portuale e affinché una delegazione potesse incontrare i rappresentanti dell’autorità, in previsione del picchetto convocato per le 5 di mattina al varco principale del porto in Lungo Mare Canepa, in una situazione di monitoraggio permanente.

La delegazione che venerdì nel tardo pomeriggio si è recata a Palazzo San Giorgio, durante il presidio, ha ribadito con forza che nessuno avrebbe dovuto agitare lo spettro della perdita di lavoro rispetto al mancato carico della nave (un chiaro riferimento alla governatore della regione Liguria) in una situazione in cui, ad alcuni km di distanza, la costruzione della “piattaforma Maersk” a Vado Savona rischia di sottrarre importanti quote di traffico al porto di Genova e di essere utilizzata come vettore dell’abbassamento delle garanzie generali dei lavoratori portali di Genova: una sorta di investimento “green field”, portatore di un avanzato processo di privatizzazione con una mano d’opera che verrà impiegata al “grado zero” dei diritti…

È chiaro che l’azione dei portuali genovesi ha riposto nel dibattito pubblico alcune questioni rimosse: la guerra in Yemen, il traffico d’armi, l’efficacia dell’azione collettiva dei lavoratori anche su questioni non prettamente sindacali ma “politiche”, la possibilità di uno scontro aperto con l’esecutivo grigio-verde con le parole d’ordine “porti chiusi alle armi e aperti alle persone”.

Non è un caso che l’arrivo di una nave con a bordo dei migranti ha ricevuto alcune settimane fa la calda accoglienza di una parte della Genova solidale, e la Lanterna simbolo della città abbia visto uno striscione ben visibile con scritto “benvenuti”, per rimarcare l’antagonismo rispetto alla guerra dei “penultimi contro gli ultimi” promossa da Salvini.

Naturalmente, queste parole d’ordine ed una pratica conseguente non possono stare solo sulle spalle – per quanto larghe – dei camalli e degli attivisti che si sono mobilitati, ma deve essere replicata in modi diversi su tutto il territorio raccogliendo il testimone e coordinandosi per segnalare tutti i “nervi scoperti” della tendenza alla guerra nel nostro paese: dalle fabbriche d’armi, alle basi militari, dai centri di ricerca alle istituzioni che fanno della guerra la loro ragione, oltre alla forze politiche complici…

Certamente la strada da percorrere è lunga ed in salita, e non sarà il mancato carico di Genova a risolvere la situazione; ma un segnale è stato dato e deve essere raccolto da coloro in un momento in cui i venti di guerra sembrano essere impetuosi perché: chi fa la guerra non va lasciato in pace.

Le sconfitte costringono a ragionare, mentre sulle vittorie si riesce a costruire e si rimpara ad osare…

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