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Le vendite alla Turchia di armi italiane 

Negli ultimi mesi la Turchia ha intensificato gli acquisti di armamenti, in modo così consistente da far supporre che i vertici militari di Ankara abbiano pianificato per tempo l’invasione del Kurdi­stan siriano e che si siano preparati a un lungo conflitto.

Abbiamo analizzato mese per mese le vendite di armi e munizioni italiane alla Turchia negli ul­timi 5 anni e mezzo, prendendo come riferimento la categoria statistica “armi e munizioni”, che comprende sia di quelle cosiddette comuni che quelle di tipo militare. Come si può constatare [vedi grafico 1], il trend delle forniture è costante, e sono pochi i picchi di invii massicci, non casualmen­te coincidenti con le fasi più acute della guerra in Siria, in cui la Turchia ha sostenuto le milizie filo-turche dell’Esercito di Liberazione Siriano (ELS).

Acquisti mensili superiori ai 10 milioni di € si registrano infatti:

– prima e dopo l’estate 2014, quando alla proclamazione del califfato dell’ISIS seguì l’intervento internazionale della coalizione guidata dagli Stati Uniti;

– nel novembre 2016, nel momento più cruento dell’assedio di Aleppo;

– nel maggio-giugno 2017, immediatamente prima che Trump annunciasse la cessazione del pro­gramma di aiuti e addestramento dei ribelli siriani, puntando di fatto sul ruolo delle milizie curde, con gran dispetto del governo di Ankara (che per ritorsione fece diffondere la mappa degli avampo­sti USA nella re­gione).

E così era stato anche in precedenza, nel giugno 2012, quando molti dei paesi coinvolti nella crisi siriana avevano prefigurato una rapida caduta del regime di Assad e appoggiato apertamente i ribel­li, riforniti per l’attacco simultaneo di Damasco e Aleppo condotto in luglio, la “madre di tutte le battaglie” che segnò di fatto la fine dell’avanzata dell’ELS.

GRAFICO 1: Export di armi/munizioni dall’Italia alla Turchia, 2013-luglio 2019, valori mensili in €. FONTE: ISTAT, Coeweb.

Consideriamo ora gli acquisti nel 2019. In soli cinque mesi, tra marzo e luglio (ultimo mese di cui disponiamo i dati, al momento in cui scriviamo), la Turchia acquista oltre 60 milioni di € di armi e munizioni italiane, con due punte in marzo e luglio che rappresentano i record assoluti di tutto il periodo considerato, dal gennaio 2013 in poi. L’esercito di Erdogan ha preparato con mesi di an­ticipo l’invasione nel Kurdistan siriano, messa poi in atto a metà ottobre, e i rifornimenti dall’Italia sono stati essenziali.

Turchia, dipendente o autosufficiente?

Questo recentissimo accumulo di armi e munizioni è in controtendenza rispetto a uno degli obiettivi storici raggiunti in questo scorcio di XXI secolo dall’economia turca, ov­vero l’autosuffi­cienza negli approv­vigionamenti di armi convenzionali a bas­sa tecnolo­gia per le proprie forze ar­mate.

I dati del commercio con l’estero del­la Turchia degli ultimi vent’anni, dal 1999 al 2018 [vedi Grafico 2], mo­strano il costante miglioramento del­la capacità produt­tiva dell’industria turca delle armi leggere, settore da cui il paese dipen­deva dalle forniture estere fino al 2006, anno in cui le esportazioni han­no superato per la prima volta le im­portazioni.

Ora, proprio nel 2018 gli acquisti di armi sono tornati a superare le vendite.

GRAFICO 2: Commercio con l’estero di armi e munizioni della Turchia, 1999-2018, codice 93, valori in US$ (fonte UN Comtrade). In blu l’export, in giallo l’import.

I grandi fornitori

Quali paesi sono stati i maggiori fornitori di armi della Turchia nel 2018? Nell’ordine Bulgaria (28%), Corea del Sud (17%), Stati Uniti (11%) e Azerbaijan (7%), quattro paesi che insieme hanno rappresentato il 63% dell’import turco nell’anno. Rispetto all’anno precedente, l’import dagli USA è diminuito del 40% (anche se gli Stati Uniti per parte loro dichiarano esportazioni alla Turchia per 97 milioni di $, a fronte dei 42 milioni dichiarati dalla Turchia come importati degli USA), quello da Bulgaria e Corea del Sud è raddoppiato, quello dall’Azerbaijan si è moltiplicato per trenta! Signifi­cativo poi che la Turchia dichiari importazioni molto consistenti dalla Bosnia Erzegovina, paese che conosce un recente boom di export militare verso i paesi del Medio Oriente (+57% tra 2017 e 2018), e rilevantissimo il dato di ben 22,6 milioni di $ acquistati in quelle che le statistiche internazionali chiamano Free Zones (zone economiche extra-doganali), un ammontare straordinario mai registrato in precedenza, la cui provenienza geografica reale non è identificabile. L’Italia è all’ottavo posto tra i fornitori, ma – come abbiamo visto – le sue esportazioni diventeranno ingenti lungo tutto il 2019.

Un’operazione preparata da tempo

Tutti i dati confermano la preparazione a tavolino dell’invasione turca in Kurdistan, che sarebbe scattata al momento del ritiro delle truppe americane dalla zona cuscinetto alla frontiera turco-siria­na. Tutt’altro che improvvisa, la decisione del presidente Trump di ritirare l’esercito USA dalla Siria (e dall’Afghanistan) è circolata sulla stampa americana almeno dall’estate 2018, ed è diventata uf­ficiale nel dicembre 2018, causando l’opposizione e quindi le dimissioni del Segretario alla difesa Jim “Mad Dog” Mattis, leggenda vivente dei marines e per due anni alla guida del Pentagono.

Dunque, i vertici militari turchi hanno avuto oltre un anno per pianificare gli acquisti di armi e mu­nizioni. Le ragioni che li hanno spinti a ritardare il più possibile queste spese sono le stesse che ispi­rano l’economia civile di mercato e in particolare l’industria, di cui anche i militari hanno adottato le tecniche di efficienza e risparmio applicate con successo da decenni, a partire dalla gestione “leg­gera” dei magazzini e dalla rotazione rapida degli stock. Oggi il procurement di armi leggere si fa “al minuto”, in tempi ridotti, con maggior pre­cisione e calcolando le scorte in base alle necessità di breve periodo, il che comporta consegne rapide da parte dei fornitori ed evita di impegnare migliaia di soldati per la gestione e la sicu­rezza di grandi magazzini militari.

Anche la Turchia verso l’esercito professionale

Non solo la difesa è il gigantesco business che conosciamo (spazio ideale per sprechi e corruzio­ne), ma lo stesso apparato militare viene ormai gestito come un’azienda, come un’industria che produce guerra, quella che politici e generali preferiscono chiamare – con arbitraria sinonimia – “sicurezza”. La professionalizzazione del “soldato” e la conseguente riduzione e scomparsa della coscrizione obbligatoria solitamente precedono questa trasformazione, ma nella storia della Turchia repubblicana, in cui l’esercito ha sempre avuto un ruolo politico di “guardiano” del kemalismo, il processo di ammodernamento gestionale e di riduzione degli effettivi è partito con grande ritardo, ed è entrato nel vivo solo dopo il tentativo di colpo di Stato del luglio 2016. In questo senso, sono novità rilevanti:

– l’aumento delle spese militari da 17,8 (2017) a 22 miliardi di $ (2018), +24% in un solo anno (la maggior crescita tra i primi 15 paesi per spesa militare) e cifra record mai toccata dopo il 1945, pari al 2,5% del PIL;

– l’alleggerimento della coscrizione obbligatoria, introdotta dalla legge varata dal governo di Erdogan nel giugno 2019, secondo cui la ferma obbligatoria maschile passerà da 12 a 6 mesi (con un sistema di surroga dei periodi mancanti mediante penali), mentre il servizio militare retribuito è diventato permanente.

Armi dalla Turchia verso il mondo

Altro fattore proattivo della politica estera di Erdogan è la vocazione all’export dell’industria turca delle armi leggere. Ogni anno le aziende turche vendono almeno mezzo milione di euro di armi e munizioni a 40-50 paesi. Abbiamo già accennato all’interscambio con gli Stati Uniti, che è dominante in entrambe le direzioni: nel 2018 35% dell’export, tra 12 e 25% dell’import (a seconda delle rispettive dichiarazioni).

Nel periodo 2014-2018, il miglior cliente sono stati gli Emirati Arabi Uniti – fortemente coinvolti nella guerra in Yemen –, con cui però la Turchia ha di fatto interrotto le relazioni commerciali dopo il tentativo di golpe del luglio 2016, secondo Ankara sostenuto dagli Emirati. Segue l’Azerbaijan, astro nascente dell’industria della difesa della regione caucasica, e “piattaforma girevole” dei traffici di armi verso tutti i conflitti dell’area mediorientale e centro-asiatica. Al quarto posto l’Italia, che precede Arabia Saudita, Francia e Turkmenistan.

Le maggiori aziende turche del settore armiero

Numerose sono le aziende turche ad aver beneficiato di questa proiezione internazionale, a partire dal MKEK (The Machinery and Chemical Industry Institution), conglomerato di stato per le forniture alle forze armate di armi convenzionali leggere e pesanti, artiglieria, bombe, missili, esplosivi ecc. Il MKEK costituisce la colonna portante dell’industria nazionale della difesa, impiega 7.400 dipendenti (2017) in 10 fabbriche affiliate e 2 società controllate, tutte concentrate nell’Anatolia cen­trale tra Ankara e Kirikkale. Dal 1975 ha operato come monopolio di fatto per la fornitura alle FF.AA. di armi nei calibri da 7.65 a 203 mm, gradualmente adottando gli standard NATO. Ha prodotto e ancora produce sotto licenza soprattutto dalla tedesca H&K (mitraglietta MP5, i fucili d’assalto G3, 33E e 416), ma ha anche realizzato in proprio il fucile semiautomatico 1919 e soprattutto i fucili d’assalto MPT, oggi armi standard per gran parte delle FF.AA. turche in sostituzione di quelle importate.

Alla fine degli anni Novanta il mercato interno si aprì ai players privati, e anche al capitale stranie­ro. Questo diede impulso a vecchie e affermate aziende come Sarsilmaz Silah Sanayi AS, oggi for­nitrice ufficiale delle FF.AA. e con un ampio catalogo di armi leggere civili e militari per l’export (mitragliette e fucili d’assalto, pistole semiautomatiche, revolver, fucili semiautomatici e a pompa). Dichiara 1.600 dipendenti nel grande complesso produttivo di Düzce. Nel 2018 ha aperto una filiale negli Stati Uniti, la SAR USA di Auborn, in Alabama. Nel 1998 fece persino una breve comparsa nel distretto bresciano delle armi, acquisendo un marchio storico come la Vincenzo Bernardelli di Gardone V.T., poi ceduta.

In generale, l’industria turca è cresciuta grazie alle commesse militari nazionali e alle “copie” a basso prezzo di modelli affermati (Beretta 92FS, Glock 17 ecc.) per l’export. È il caso di aziende come Sam­sun Yurt Savunma (SYS, anche nota come CANIK), KaleKalip, Girsan e TISAS.

L’eccezione di Beretta

Un mercato interno “protetto” non ha favorito la localizzazione in Turchia delle grandi aziende europee. Fa eccezione la italiana Beretta, che ormai ha acquisito un profilo di gruppo internazionale. Nel 2000 rilevò da un partner locale un’azienda situata nella zona industriale di Istanbul, la Vursan,  dotata dal 2003 di un nuovo moderno stabilimento (investimento: 5 milioni di €) e ribattezzata Stoeger Silah Sa­nayi AS [Fabbrica d’Armi Stoeger], per produrre i primi fucili semiautomatici di qualità made in Turkey. La Stoeger è stata la prima azienda privata a ottenere (nel 2005) la certificazione del Ministero della difesa per fornire le FF.AA. In particolare l’esercito acquistò la versione turca delle pistola Cougar, le cui linee produttive furono direttamente spedite da Gardone a Istanbul. Gli ultimi dati finanziari disponibili danno per la Stoeger un fatturato di 16,1 milioni di € (2017) e un utile netto di 3,8 milioni (24% sul fatturato!), entrambi in crescita sebbene penalizzati dal crollo della lira turca, oltre 200 dipendenti, e una produzione indirizzata innanzi tutto al mer­cato USA e anche all’Italia, in particolare di semilavorati poi assemblati negli altri impianti del gruppo Beretta.

La Turchia poco trasparente in materia di export di armi

La prospettiva di sfruttare un costo del lavoro sensibilmente più basso rispetto alla vicina Unione Europea, e anche di aggirare i controlli delle legislazioni restrittive occidentali – la Turchia non adotta normative trasparenti nei riguardi del proprio export militare – consente alle aziende basate nel paese di rivolgersi più liberamente ai promettenti mercati mediorientali ed asiatici, anche a quelli di paesi coinvolti in conflitti o in violazioni del diritto umanitario. Ne troviamo una lunga lista tra i maggiori acquirenti di armi e munizioni di fabbricazione turca: Afghanistan, Pakistan, Singapore, Filippine, Malaysia, Mali, Indonesia, Iran, Bahrein, Qatar, Arabia Saudita, Sudan, Thailandia, Ucraina, Georgia, Kazakistan. Tra i maggiori clienti storici anche “piattaforme girevoli” come Azerbaijan, Cipro, Libano, Oman, ecc., paesi noti per le facili triangolazioni dei trasferimenti di armi.

Prove della fornitura di armi e munizioni ai ribelli siriani sono state raccolte negli scorsi anni da giornali indipendenti turchi, per questo chiusi dalle autorità con conseguenti dure condanne al carcere comminate a direttori e redattori. Molti paesi aderenti alla NATO, esportatori di tecnologia militare in Turchia – tra cui l’Italia –, dovrebbero chiedersi quale destinazione finale abbiano avuto le armi vendute recentemente: citiamo soltanto il Canada (nel 2018 ha esportato per oltre 115 milioni di $CAN), la Germania (250,4 milioni di € nei primi otto mesi del 2019, la cifra più alta dal 2005), il Regno Unito (1,1 miliardi di £ dal 2014), la Francia (725 milioni di € nel 2018), la Spagna (301 milioni di € nel 2017), e gli Stati Uniti, le cui sole “vendite dirette” nell’anno fiscale 2017 ammontano a 588 milioni di $, a cui vanno aggiunti 170 milioni di “aiuti”.

*Ricerche Commissione scientifica OPAL 29 ottobre 2019

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