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Tra rischio e pericolo, la fine del collettivo

Come tutte le credenze non si basa su alcun dato ma serve a tranquillizzare. Tante volte mi è capitato di sentire dire che durante la guerra c’era povertà ma ci si aiutava, se però investigavi bene capivi che la principale attività era sopravvivere anche a costo di schiacciare il tuo vicino. Cosa ancora più vera in un Paese come l’Italia.

Alla fine della seconda guerra mondiale gli USA sguinzagliarono sociologi per tutti i Paesi sconfitti per studiarne il carattere. In Italia sbarcò Edward C. Banfield e ne trasse un libro dal titolo eloquente: “Familismo amorale”. Si tratterebbe di un comportamento per cui le persone, pur di far sopravvivere o dare vantaggio alla propria famiglia, sono disposte a muoversi a discapito della comunità in cui vivono. Questo concetto è stato più volte criticato in Italia ma tanto sta che gli USA negli anni hanno sempre monitorato questo italico atteggiamento e, dove questo era più forte, hanno aperto le loro basi militari più importanti.

Ne risulta una popolazione tutt’altro che avvezza alla solidarietà ma che si difende dietro il falso mito di italiani brava gente. D’altro canto anche il mito della famiglia è falso e più che un focolare richiama un focolaio di violenze e soprusi. Già Cesare Pavese ne La luna e i falò ben descriveva la scala gerarchica della mitica famiglia contadina, tanto cara ai nostalgici: prima l’uomo, poi le bestie, poi le donne e in fondo i bambini.

Queste false credenze sulla spontaneità della solidarietà sono, soprattutto in questo momento, dannose e nascondono ad hoc la necessità di un’organizzazione, autorganizzazione, dal basso, popolare, per reagire allo tsunami che ci sta per colpire.

Dannose e pericolose perché invece il potere non si alimenta di false credenze ma di studi scientifici e di sperimentazioni reali. Così la teoria su cui si basa l’egemonia della classe dominante ha una lunga tradizione e nelle ultime decadi si è di molto affinata. Il banco di prova, di sperimentazione, di gestione della popolazione durante le crisi sono le emergenze. Esiste una vasta letteratura in merito, soprattutto anglosassone, che analizza tutti gli aspetti che il decisore politico deve valutare e controllare per gestire la situazione, gestirla in modo da ridurre al minimo le rivendicazioni da parte della popolazione colpita. In Italia la sperimentazione maggiore degli ultimi anni è stato senza dubbio il terremoto de L’Aquila.

Non si tratta esclusivamente di shock economy, come l’ha ben definita Naomy Klein, si tratta di un complesso sistema di gestione indirizzato a rompere i legami sociali di base così da impedire alla popolazione di autorganizzarsi rendendola completamente succube dei decisori.

È un sistema complesso perché comprende diversi attori il cui comportamento dovrà essere previsto e prevedibile perché l’azione di annientamento delle capacità di rivendicazioni vada a buon fine. A dar man forte a questo modello di intervento corrono in aiuto diverse discipline: dall’organizzazione dell’esercito, alla comunicazione, alla gestione delle procedure.

L’organizzazione dell’esercito corre in soccorso di un grave problema che i decisori devono affrontare: a contatto con la popolazione (il front-office) non ci saranno loro ma i volontari e questi volontari non devono sentirsi troppo vicini alla popolazione altrimenti potrebbero aiutarla a formarsi una coscienza propria, questi devono sentirsi vicini ai decisori, condividerne i principi guida. Lo stesso problema che l’esercito, almeno in Italia, si trovò a dover affrontare con la leva obbligatoria. In un’organizzazione tale vi è un forte rischio di conflitto ai livelli più bassi (intendendo con questo i militari di leva obbligatoria, ormai scomparsi) e quelli con l’esterno. Il conflitto dei livelli più bassi viene ricondotto al fatto che il militare di leva, nel nostro caso il volontario, viene a contatto con i livelli più bassi dell’organizzazione, caratterizzati da:

• monofunzionalità; ogni organismo provvede a una funzione specifica (distribuzione pasti, cure mediche, supporto psicologico,…)

• struttura gerarchica; vi è una precisa gerarchia

• stile di conduzione autoritario; le decisioni vengono comunicate e devono essere eseguite.

La soluzione adottata prevede che il militare di leva sia reso partecipe della forma dell’organizzazione mostrando come le decisioni, ai livelli più alti, siano in realtà collegiali e dovute a esigenze strettamente tecniche, se non si fa così sarebbe il caos! A L’Aquila questo è stato evidente quando, a pochi giorni dal sisma, fu vietato di intervenire ai cittadini che non fossero parte della Protezione Civile o di associazioni a questa iscritte. Questi volontari seguono ormai corsi di formazione su diversi aspetti dell’intervento in emergenza, compreso un forte indottrinamento sul sistema di gestione della popolazione. Un sistema che svela le sue basi militaristiche sin dal nome, si chiama infatti Augustus, dal nome del noto condottiero e imperatore romano. In questo modo i decisori si mettono al riparo dalla possibilità che la popolazione colpita si possa autorganizzare con l’aiuto dei soccorritori.

Il secondo nodo centrale nella gestione delle emergenze è l’informazione. Anche in questo caso il modello è quello militare, si tratta di un’informazione embedded, ingroppata dai decisori. Le informazioni devono tutte provenire dalla stessa fonte e i giornalisti vengono invitati a utilizzare solo quella fonte con la scusa di non correre il rischio di diffondere il panico o dare informazioni sbagliate. A L’Aquila questo ha funzionato alla perfezione e i giornalisti, per esperienza personale, non si sono posti alcun dubbio su questa procedura, dopotutto è la tecnica di gestione dell’emergenza. Le informazioni arrivavano direttamente dalla Protezione Civile che adottò in brevissimo tempo anche una diffusione sulla rete attraverso una pubblicazione sistematica di tutti i provvedimenti e le notizie sul proprio sito che così non appariva censurare ma addirittura totalmente trasparente. Come per i volontari, anche per l’informazione, le strategie non appaiono ideologiche ma guidate da una sana professionalità, esperta nella gestione del rischio, efficiente e tecnica.

Ultimo, ma non meno importante tassello, risulta la popolazione coinvolta, colpita. Per questo punto è utile riprendere il sociologo Niklas Lhumann che pone un’interessante distinzione tra rischio e pericolo. Si tratta di una distinzione che si basa sul riconoscimento di due diversi punti di vista: chi prende le decisioni e chi le subisce. Chi prende le decisioni percepisce una situazione di rischio, ossia una situazione di crisi o emergenza in cui le sue decisioni avranno delle conseguenze, la percezione di un rischio contiene in sé la percezione di un potere, burocratico/politico, con cui affrontarlo. Chi invece le decisioni le subisce, il cittadino, invece percepisce un pericolo derivante da questa situazione di crisi o emergenza. Pericolo in quanto non ha controllo, dipende dai decisori, e questo comporta un sentimento di completa estraneità dei cittadini verso la gestione del proprio presente e una impossibilità di progettare, vedere, un futuro, anche prossimo, che non può in

alcun modo essere prevedibile. Il risultato è la costituzione di un “diritto soggettivo” (Luhmann

N., 1996), che astrae da ogni reciprocità dei diritti e dei doveri e si accontenta della semplice

complementarietà. Il tutto, anche in questo caso, giustificato da un modello efficentista, tecnico: i cittadini vengono invitati a riempire moduli su moduli dicendogli che il loro futuro dipende da come li compileranno. Ovviamente dietro non c’è un diritto ma, da un lato, l’interpretazione che di quei moduli darà chi li riceve, dall’altra un continuo rinvio a procedimenti amministrativi e politici che dovranno, in continuazione, provvedere a trovare nuove coperture finanziarie sino a inserire nuove procedure più efficienti, facendo compilare altri moduli perché quelli precedenti non erano adatti. In questo modo il cittadino assume una posizione completamente prona e la sua tensione non sarà quella di costruire autorganizzazione ma quella di sperare di compilare bene i moduli, di pregare che i decisori non facciano cene troppo pesanti e cambino le carte in tavola, si trova solo difronte a questa macchina di aiuti.

I tre elementi delineati, la gestione dell’informazione, la gestione del front-office (le persone con cui i cittadini si trovano direttamente in contatto) e la burocratizzazione degli interventi, sono visibili nella gestione della presente crisi economica. Come nell’emergenza anche qui la scusa è l’efficientismo, la tecnica ma diversi studiosi hanno ben spiegato come l’egemonia culturale della classe dominante si nasconda spesso dietro pretese tecnicistiche, specializzazioni professionali, che servono da copertura alla sottomissione delle masse.

Non è vero che la popolazione se si trova in situazioni critiche tende spontaneamente ad aiutarsi e questo è ancora meno vero quando esiste un apparato che agisce proprio per impedire questo. Niente nasce come i funghi, l’organizzazione, l’autorganizzazione, è una procedura complessa e scientifica ma non per questo impossibile.

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