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Maledetto bosone, t’abbiamo visto!

In materia, ci sembra che nessuno abbia in Italia competenze superiori a quelle di Giorgio Parisi, fisico teorico cui dobbiamo insieme ad altri la “teoria delle stringhe” e che da anni è in lizza per il premio Nobel. Che stavolta andrà certamente a Higgs, che ha potuto “vedere” la sua creatura fotografata al Cern di Ginevra. Il fatto che Parisi sia anche un compagno di antica data non può che essere un valore aggiunto. Così non sentiremo parlare di “dio” mentre si ragiona di scienza.
Apriamo con il suo commento, apparso oggi su “il manifesto”.


Maledetto bosone t’abbiamo visto
Giorgio Parisi e Antonello Polosa
Immaginate di dover attraversare una grande stanza affollatissima da persone accalcate tra loro. Troverete molto faticoso passarci attraverso, dovendo spingere per farvi largo nei pochi interstizi disponibili, faticoso più o meno come se aveste dovuto attraversare la stessa stanza, vuota ma portando addosso una pesante zavorra. Bene, si pensa che l’Universo sia pervaso da un campo forze che, come una stanza affollata, rallenta le persone, ovvero, fuori dalla metafora, assegna a ciascuna particella elementare una zavorra, quella che chiamiamo massa.
Le particelle elementari (protoni, neutroni, elettroni, neutrini etc…) sono i mattoni fondamentali dell’Universo che conosciamo e, come mattoni, hanno ciascuno una massa che possiamo misurare. Schematicamente, i fisici immaginano così il meccanismo da cui deriva la massa delle particelle. Ma possiamo provare l’esistenza di questo campo?
Torniamo all’esempio della stanza affollata. Le persone che la popolano chiacchierano molto ed interagiscono fra loro. Supponete di essere ad un capo della stanza e di comunicare, alla persona più vicina a voi, una qualche scabrosa notizia, a bassa voce. Il vostro vicino tenderà a riferirla a un gruppetto di suoi vicini raccogliendoli stretti intorno a sé. E questi faranno qualcosa di simile a loro volta. Nessuno si sposta dalla sua posizione, ma la notizia circola, agglomerando in sequenza piccoli gruppi d’interessati che la riferiscono in sordina.
Se guardaste la scena dall’alto vedreste qualcosa come un addensamento di teste vicine propagarsi attraverso il mare di persone. Da questa prospettiva risulterà chiaro che il grappolo stesso fatica a farsi strada nella stanza, come se fosse appesantito anch’esso da una zavorra, la sua massa.
Al Large Hadron Collider (Lhc) di Ginevra si lavora per cercare la prova dell’esistenza del «campo di Higgs», dal nome di uno dei fisici che ha proposto nel lontano 1964 il suddetto meccanismo che conferisce la massa alle particelle elementari. Questa prova è data dalla presenza della particella (o bosone) di Higgs (l’addensamento che si propaga nel campo) lasciando traccia della sua effimera esistenza nei grandi apparati di misura che scrutano nei prodotti delle collisioni frontali di protoni.
Oggi, dopo una lunghissima attesa durata tutti gli anni che sono serviti per costruire Lhc e i suoi complicatissimi «occhi» (Atlas e Cms), Fabiola Gianotti e Joseph Incandela, i portavoce di questi due esperimenti, hanno annunciato la scoperta di una particella, con una massa circa 125 volte quella del protone, che sembra essere un formidabile candidato al ruolo di particella di Higgs. Questa scoperta corona un percorso durato una cinquantina d’anni che aveva lo scopo di capire l’origine delle forze tra le particelle elementari e la loro massa.
Molti fisici erano pronti a scommettere che la particella di Higgs dovesse esistere: la teoria aveva avuto molte altre conferme sperimentali che sfortunatamente erano tutte indirette. Tuttavia c’è una differenza fondamentale tra credere nell’esistenza di una particella e nel dimostrarne sperimentalmente l’esistenza.
Fino ad oggi era sempre aperta la possibilità che l’accordo della teoria con gli esperimenti fosse stato solo casuale e che la scoperta della «non esistenza» del bosone di Higgs avrebbe fatto cascare questa costruzione come un castello di carta.
Così non è stato: con la scoperta del bosone di Higgs si chiude un lungo capitolo della fisica: rimane da dimostrare sperimentalmente se l’attuale teoria descriva accuratamente tutti i fenomeni osservabili a Lhc o, se al contrario, la teoria debba essere modificata o arricchita. Staremo a vedere!
 
da “il manifesto” anche una descrizione più dettagliata della scoperta. Perché la fisica, come la filosofia, è orientata alla ricerca della verità. Quindi è “di sinistra” per costituzione.
 
Peter Higgs, ieri festeggiato al Cern.
 

La sostanza dell’universo

Due diversi esperimenti del Cern di Ginevra fotografano la particella elementare «maledetta», prevista dal ’64 ma mai rilevata direttamente. I fisici acclamano una scoperta fondamentale. Ma è davvero come se l’aspettavano?

Tommaso Dorigo
Eccolo là. Ipotizzato quasi sottovoce 48 anni fa per risolvere con elegante matematica uno spinoso enigma, e poi poco a poco assurto al ruolo di pietra di volta della nostra attuale comprensione del mondo fisico subnucleare, il bosone di Higgs è finalmente stato fotografato dalle collisioni di altissima energia fra i fasci di protoni del Large Hadron Collider, il gioiello del Cern di Ginevra, la «macchina dei sogni» della fisica delle particelle. E la fotografia è sorprendentemente ben definita.
Gli istogrammi che i portavoce delle collaborazioni Cms e Atlas Joe Incandela e Fabiola Gianotti si alternano a proiettare di fronte al gremitissimo auditorium del Cern parlano chiaro. I dati sperimentali sono impossibili da interpretare se non si ammette che là in mezzo, a una massa di 125 GeV (pari al peso di un intero atomo di Iodio), gli istogrammi contengono un significativo mucchietto di eventi dovuti al decadimento di una particella nuova, che ha tutte le caratteristiche previste. Quanto significativo sia il segnale lo dicono i numeri: la probabilità di ottenere i dati osservati, in assenza della nuova particella, è inferiore a una parte su tre milioni; in altri termini, è più rischioso montare su un aereo che scommettere la propria vita sull’esistenza della particella osservata al Cern. Piuttosto che fare riferimento ai voli di linea, i fisici sperimentali descrivono solitamente questi effetti in numero di «deviazioni standard», unità di misura che quantificano la dispersione di una misura dal valore atteso: ebbene, sia i dati di Cms che quelli di Atlas sono incompatibili con l’assenza di un segnale al livello di cinque deviazioni standard.
Ciascuna di queste osservazioni, da sola, basterebbe a dichiarare la scoperta; il fatto di avere due esperimenti che si confermano a vicenda è pleonastico a questo punto.
L’evidenza sperimentale è forte, e contrariamente alle previsioni della vigilia, il management del Cern non prova nemmeno a smorzare l’entusiasmo. Forse il direttore generale Rolf Heuer, memore dei problemi dello scorso autunno con l’annuncio poi ritratto di neutrini superluminali, avrebbe voluto che si aspettasse ancora; ma la linea del Cern non è più di massima cautela: oggi Heuer, al termine del seminario con cui Incandela e Gianotti descrivono i loro rispettivi risultati, si rivolge alla platea e dice «I think we have it, do you agree?», e la platea applaude entusiasta.
Questa è scienza in tempo reale: la decisione se un risultato vale una scoperta avviene per acclamazione, come dovrebbe essere. La comunità scientifica è convinta, e queste doppie 5 deviazioni standard contano quindi molto di più delle illusorie 6 deviazioni standard dei neutrini superluminali, che non avevano convinto nessuno.
Ne parliamo con Guido Tonelli, precedente portavoce dell’esperimento Cms, che il 13 dicembre scorso calcava lo stesso palcoscenico e mostrava una versione più sfuocata della fotografia. Sei mesi fa non c’era consenso unanime sulla scoperta, e infatti si parlava solo di «evidenza»: l’intensità del segnale era minore ma Tonelli, e lo scrivente con lui, era fra quelli già convinti che proprio del bosone di Higgs si trattasse, e non di una effimera fluttuazione.
«Quando due esperimenti mostrano eccessi statisticamente così significativi nella stessa regione di massa è molto difficile tenere una linea di eccessiva prudenza. Non svelo nessun segreto se dico che anche i colleghi più scettici sono venuti in processione in questi giorni nel mio ufficio a confessarmi di essere ormai convinti che ci siamo», spiega Guido.
A dirla proprio tutta, vi sono ancora delle perplessità fra gli addetti ai lavori. Ma non sulla scoperta: che si tratti di una nuova particella non v’è alcun dubbio, e che sia proprio un bosone di Higgs sembra altrettanto assodato. Il dubbio – o meglio, l’interesse – si concentra ora sull’interpretazione: il modello standard, la collezione di teorie che spiega la fenomenologia delle particelle subatomiche, dètta con quale frequenza i bosoni di Higgs si debbano osservare in ciascuno degli «stati finali» che si sono studiati, e qui adesso sta il punto.
Lo stato finale è la collezione di tutte le particelle che si osservano nel rivelatore: queste sono particelle o stabili (protoni, elettroni, fotoni) o instabili ma che vivono un tempo sufficiente ad attraversare i componenti sensibili dell’apparato sperimentale (muoni o adroni leggeri), dove rilasciano un segnale identificabile. È con le particelle osservate nel rivelatore che i fisici sperimentali ricostruiscono all’indietro la catena di processi fisici che ha avuto luogo nella collisione, arrivando infine alla prima particella prodotta, che si è disintegrata in un tempo fantasticamente breve, un tempo che sta a un secondo come un secondo sta a un migliaio di volte la vita dell’universo. Il bosone di Higgs è così stato osservato sia nei suoi decadimenti in coppie di fotoni (singoli quanti di luce), che in coppie di bosoni Z, che in altri stati finali, come previsto dal modello standard.
Tuttavia, se si confronta quanto osservato con le aspettative della vigilia, si vede che sia Atlas che Cms osservano un modesto eccesso di decadimenti del bosone di Higgs in due fotoni rispetto alle previsioni del modello, e un altrettanto modesto deficit di decadimenti negli altri stati finali.
Intendiamoci: queste leggere anomalie sono ben interpretabili come fluttuazioni statistiche. E tuttavia sono già abbastanza per fomentare interessanti speculazioni su quello che si vorrà studiare in maggior dettaglio nel prossimo futuro. Perché esistono estensioni del modello standard che prevedono un diverso schema dei modi di decadimento del bosone di Higgs o addirittura l’esistenza di repliche della fantomatica particella. Ad esempio nelle teorie «supersimmetriche» che estendono il modello standard e ne riparano alcune apparenti inconsistenze, esistono non uno ma almeno 5 bosoni di Higgs, e ciascuno di questi ha caratteristiche diverse.
Già, la supersimmetria. “Venduta” fin dagli ’80 come cosa certa da un crescente manipolo di entusiastici fisici teorici, la «supersimmetria» offre automatica soluzione ad alcuni enigmi irrisolti nella fisica fondamentale, oltre a dare una possibile spiegazione al problema della materia oscura nell’universo. Nelle teorie «supersimmetriche» si ipotizza che per ogni particella elementare descritta dal modello standard (quark, leptoni, bosoni vettori) vi sia una replica «supersimmetrica» di simili caratteristiche. Ciascuna di queste nuove particelle deve però per forza avere massa molto elevata, altrimenti sarebbe già stata scoperta: bisogna quindi ipotizzare che questa simmetria fra materia ordinaria e supersimmetrica sia rotta da qualche meccanismo esterno.
Il raddoppio in un colpo solo del numero di particelle subatomiche risolve un paio di problemi teorici del modello standard; in più il «neutralino», la più leggera delle particelle «supersimmetriche», costretta a vita eterna dall’assenza di super-particelle più leggere in cui disintegrarsi, è un naturale candidato a spiegare di cosa è fatto l’80% della materia nell’universo, che sappiamo esistere da una moltitudine di indizi gravitazionali ma che non forma stelle ed è quindi oscura. Nonostante queste attraenti caratteristiche, la necessità di introdurre un grande numero di nuovi parametri liberi -nuove particelle, nuove caratteristiche, una considerevole complicazione della realtà fisica- rende la realizzazione della teoria meno elegante della sua formulazione teorica. Il rasoio di Occam viene impugnato dagli scettici per «tagliare» questa non necessaria moltiplicazione di enti: entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem, come ammoniva il frate francescano Guglielmo settecento anni fa.
Sarà un regolare bosone di Higgs quello scoperto oggi? O è forse supersimmetrico? Domanda intrigante e legittima, che potrebbe tenerci impegnati ancora per parecchio tempo. Indubbiamente un quesito di grande importanza per la fisica, anche se forse non sufficiente a giustificare la costruzione di un nuovo super-acceleratore che faccia scontrare muoni invece di protoni, un «muon collider», una sorta di «fabbrica» di bosoni di Higgs: un progetto già in stato avanzato, ma che rappresenta uno sforzo titanico e una sfida tecnologica paurosa.
In ogni caso, la scoperta di ieri garantisce ai fisici delle particelle anni di interessantissimi studi per eviscerare le proprietà della nuova particella, e ai fisici teorici un fertile e solido terreno per coltivare possibili alternative all’ormai noiosamente preciso e predittivo modello standard. In fondo, il collider Lhc del Cern è stato costruito per scoprire il bosone di Higgs ma ormai tutti sperano che ci porti per mano in terra incognita, verso nuove particelle, nuove dimensioni dello spazio-tempo, o magari, perché no, verso la scoperta di cose finora nemmeno immaginate dalla mente umana.
Perché a pensarci bene la Natura si è dimostrata finora fin troppo prevedibile; vorrei dire obbediente, come forse sentirà nelle ossa l’83enne Peter Higgs, oggi applaudito con standing ovation dagli scopritori del «suo» bosone nell’auditorium del Cern.
* Ricercatore Infn – sezione di Padova


 

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