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Un giovane catanese in Bolivia prima del golpe fascista

Quello che leggerete è una testimonianza di un giovane catanese, Giuseppe Pecora, che ha attraversato il continente latinoamericano non da turista ma “per conoscere”.

“Qualche mese fa realizzavo il mio sogno di viaggiare per il Sud America, assieme al mio zaino e al libro di Eduardo Galeano ‘Le vene aperte dell’America latina’”.

In questo viaggio, che riporta alla mente un altro viaggio, quello in motocicletta realizzato da un altro giovane, Ernesto Guevara – allora non era ancora El Che – Giuseppe ha vissuto in sintonia con i luoghi che ha attraversato. Non una integrazione, ben altro. Ha condiviso i luoghi con chi ha incontrato.
È stato anche nella Bolivia di Evo Morales, il legittimo presidente che in questi giorni è stato abbattuto da un colpo di stato militare messo in atto dalla destra fascista e filo USA che rappresenta la minoranza bianca.

GIUSEPPE IN BOLIVIA, E INCONTRA LA CUGINA DI EVO MORALES (nella foto)
“Conobbi anche la Bolivia, entrando in contatto con la sua cultura andina e millenaria, i suoi paesaggi mozzafiato e, soprattutto, il suo popolo, la sua storia, la sua voce: ciò che il turismo di massa ignora (e spesso danneggia gravemente), per me è sempre motivo di curiosità, ricerca, partecipazione.
Vi giunsi il primo maggio, percorrendo il paese per 20 ore su un autobus malandato per partecipare alla grande manifestazione dei lavoratori di Cochabamba. Al loro fianco e al fianco del presidente Evo Morales. Sull’autobus ebbi subito conferma dell’abissale differenza tra quel paese e tanti altri, il nostro compreso, per quanto riguarda il rapporto tra società e politica.

Accanto a me si sedette la dolce vecchietta che vedete in foto, anche lei diretta verso la manifestazione. Agostina Morales, contadina aymara. Rivendicava allegramente di essere la cugina di Evo Morales e celebrava il processo politico che da 14 anni ha permesso, per la prima volta dopo due secoli, “la presa del potere da parte degli indios, dei neri, dei poveri del paese”.

Fino ad allora governi retti dalla ricca minoranza bianca, erede diretta dei primi colonizzatori spagnoli (Eduardo Galeano racconta meravigliosamente le sue glorie dal 1492 ad oggi) avevano controllato il paese, godendo dei loro eccessi, lasciandolo nel sottosviluppo inalterato per secoli e relegando la maggioranza india ad uno schiavismo legalizzato.

Non l’ho solo letto sui libri o sui giornali di parte, ma era la gente del posto a confermarmelo, da Cochabamba a Oruro a Santa Cruz: “qui prima del 2006 ci consideravano come asini, ora non siamo nel benessere totale ma stiamo molto meglio di prima”, mi hanno ripetuto in tanti. Salari quintuplicati, povertà estrema ridotta di molto, nazionalizzazioni, condizione generale migliorata e si poteva anche far di più sotto diversi aspetti ma, per esempio, nessun governo europeo degli ultimi decenni si avvicina nemmeno lontanamente ai risultati della Bolivia di Morales.

Non saprò mai, né mi importa, se la signora fosse davvero la cugina del presidente: il dato di fatto è che in Bolivia ti capita di incontrare una contadina di estrazione povera e sentirla rivendicare allegramente la sua “cuginanza” con il capo di Stato, mentre da noi la risposta più normale sarebbe “a chi mi cunti!”, “è ncunnutu”,”cu la vistu mai”,”su tutti i stissi”.

Qui in Italia si percepiscono diffusamente disprezzo e distanza nei confronti della classe politica considerata antipopolare e mai coerente (fanno più o meno eccezione quei poveri che dicono di ammirare Salvini, uno dei tanti politici al servizio dei ricchi e mai del popolo, bravo nella sua propaganda fetida). In Bolivia dal 2006 è facile imbattersi in affermazioni del genere:”Il presidente è me cucinu e ne vado fiera!”.
La signora Morales assicurava che lì in Bolivia la destra razzista e filostatunitense non sarebbe ritornata al potere: “Aquì no pasaran, nunca mas!”.

COME I VECCHI COLONIZZATORI
– La Bolivia che aveva attraversato Giuseppe Pecora è ormai un altro paese. L’analisi di Giuseppe sul golpe in Bolivia è un altro “viaggio” nel Sud America, cortile di casa degli USA. Una analisi attenta, amara, ma mai rinunciataria:
Un colpo di Stato militare, sostenuto apertamente da Washington, ha consegnato il potere alle forze armate e costretto Evo Morales all’esilio. Questi non saranno di certo “cugini” del popolo, del bene comune, del diritto collettivo alla dignità.

Utilizzano la bibbia come vessillo, proprio come i vecchi colonizzatori spagnoli che giungevano nel continente torturando, massacrando e schiavizzando i popoli originari in nome di Dio. Bruciano la Wiphala per le strade delle città, la bandiera multicolore simbolo dei 36 popoli indios della Bolivia, che dal 2006 era diventata simbolo nazionale. Hanno sequestrato e umiliato decine tra coloro che si oppongono al golpe, incendiato la casa della sorella di Evo Morales e di altri appartenenti al Movimento al Socialismo, e tanto altro.

Uno dei loro leader si chiama Camacho, un nazista dichiarato. Tra i sostenitori “interni” (tanti sono quelli “esterni”) vi sono la minoranza bianca che rivuole potere ed espansione del privilegio, le forze armate e la polizia, quell’imprenditoria parassitaria che vuole arricchirsi sulle spalle degli altri, gli studenti delle università private, gruppi di medici, la chiesa evangelica, molti giovani delle grandi città attratti dalla propaganda delle destre, parte della popolazione delusa per qualche ragione dal governo e caduta nelle mani dei golpisti., magari in cambio di qualche promessa personale.

La storia dei colpi di Stato in America latina è chiara, lineare, ripetitiva. Gli Stati Uniti non sopportano il fatto che possano esservi dei governi e dei territori (con risorse naturali annesse, ovviamente…in questo caso tantissimo Litio, per esempio…) fuori dal loro controllo, proprio a qualche centinaio di chilometri a Sud del loro paese. Le èlite, le multinazionali speculatrici, i teorici delle privatizzazioni dei beni comuni, non lo sopportano.

I ricchi boliviani, quasi sempre bianchi e provenienti da un’educazione privata e onerosa, non riescono a tollerare che gli indios, i neri e i poveri possano avere gli strumenti per ambire ad una vita migliore senza essere considerati come degli asini. Non lo tollerano, gli si fa il sangue amaro. Dunque agiscono e riprendono il potere nel silenzio dei media internazionali, espressione degli interessi statunitensi. Compresi, ovviamente, quelli italiani, puntuali come sempre nella loro pochezza e nel loro squallore che viene purtroppo trasmesso nelle case dei nostri connazionali.

Squallido e di parte (dalla parte sbagliata, come sempre) il Parlamento italiano, così come quello europeo. Silenti sulla sanguinosa repressione del governo Pinera in Chile, silenti sulle violenze dell’ennesimo golpe militare in Sud America, sponda Bolivia.

E’ triste, ma non è la fine della Storia. Questa continua a fluire e continua, comunque, la costruzione di una coscienza globale sulla necessità di una giustizia sociale umanitaria ed ecologica. Un bisogno collettivo che ha bisogno di forme organizzative creative, cooperative, innovative, con attenzione amorevole per l’individuo e senso della collettività. Todo cambia.

Al processo politico boliviano vanno rimproverati diversi errori (sul piano economico, organizzativo, culturale, spirituale) già visti e rivisti dappertutto, tra tutti la personalizzazione simbolica e reiterata del processo rivoluzionario sotto il nome di una sola persona. Ma in questo momento è giusto e, soprattutto, prioritario, difenderlo. Anche per non cadere nelle analisi che ci propongono due fazioni (Morales vs opposizione) in conflitto tra di loro con stesse responsabilità e nessuna sostanziale differenza morale (come ci propone la Rai): è in atto, invece, un premeditato e sanguinolento colpo di Stato dei difensori del privilegio di pochi contro un governo che in 14 anni ha oggettivamente migliorato le condizioni di vita degli indios, dei poveri, del popolo.

Vi sono, dunque, un “oppresso” e un “oppressore”, non semplicemente due fazioni in lotta tra loro e questo va evidenziato. Come nel 1973, quando fecero fuori Allende per rimpiazzarlo con Pinochet. Io scelgo di stare e lottare con l’oppresso, nella speranza insegnatami dal maestro Paulo Freire che anche l’oppressore un giorno possa riumanizzarsi. “Hermanas y hermanos bolivianos: siamo con voi! Tornerò!”.

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