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Napoli. Presentazione del libro “Morire di pena”

Venerdì 11 ottobre, ore 18:30, al Civico 7 Liberato di Napoli, presentazione del libro “Morire di pena”.

Di seguito l’introduzione del libro.

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Nel maggio del 2022 il detenuto anarchico Alfredo Cospito, in carcere da già oltre dieci anni per aver ferito l’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare Roberto Adinolfi, e successivamente condannato a ulteriori venti per aver depositato due ordigni all’esterno di una caserma dei carabinieri (un’azione dimostrativa che non provocò danni rilevanti a cose e alcuno a persone) viene trasferito nel carcere di Sassari in 41-bis.

Il 41-bis è un regime detentivo erede delle norme nate per arginare le rivolte in carcere negli anni Settanta, e dal 1992 utilizzato “in deroga alle disposizioni dell’ordinamento penitenziario” per combattere le associazioni mafiose, prescrivendo una serie di restrizioni durissime con il fine dichiarato di impedire i collegamenti tra il detenuto e l’associazione criminale a cui appartiene.

Nel 2002 il governo Berlusconi, dopo che i precedenti governi di centro-sinistra avevano più volte prorogato la scadenza della norma, cancella il carattere temporaneo del 41-bis estendendo la sua possibile applicazione ai detenuti condannati per reati di matrice eversiva e terroristica.

Mentre Cospito è al 41-bis, il reato per cui è stato condannato viene riqualificato dalla Corte di Cassazione in “strage politica contro la sicurezza dello Stato”, un reato che prevede l’applicazione dell’ergastolo ostativo (quello per il quale non è possibile accedere ai benefici di legge) anche in assenza di vittime, a cui non si era fatto ricorso nemmeno nei casi degli attentati ai giudici Falcone e 8 MORIRE DI PENA PER L’ELIMINAZIONE DI ERGASTOLO E 41BIS Borsellino.

Il 20 ottobre 2022 Cospito inizia uno sciopero della fame per protestare non solo contro l’assurdità del caso che lo riguarda, ma contro l’esistenza dei regimi del 41-bis e dell’ergastolo ostativo. “Preferisco morire che continuare una non-vita come è quella al 41-bis”, le sue parole. Le istanze di Cospito rimangono inascoltate dai decisori politici e giudiziari.

Il suo corpo resta senza nutrirsi per cento ottantuno giorni, sei lunghissimi mesi in cui il detenuto assume solo, occasionalmente, sali minerali e multivitaminici. Il suo peso diminuisce di oltre cinquanta chili (sui centodiciotto registrati al momento dell’inizio dello sciopero) e i rischi per la sua vita sono costanti fin dal secondo mese di digiuno.

La protesta di Cospito si interromperà ad aprile 2023, dopo la dichiarazione di ricevibilità del ricorso presentato dai suoi legali alla Corte europea dei diritti dell’uomo e dopo la decisione della Corte Costituzionale sul divieto di prevalenza delle attenuanti rispetto alla recidiva reiterata per i reati in cui la pena contempli l’ergastolo (su questa questione si tornerà con più precisione a breve).

Il 28 giugno successivo la Corte d’appello di Torino ridetermina la pena per Alfredo Cospito a ventitré anni, nonostante la Procura insistesse nella sua richiesta per una condanna fino alla morte. Al momento della scrittura di questo testo Alfredo Cospito è ancora detenuto al regime di 41-bis.

La protesta di Cospito ha avuto la forza di far emergere una serie di contraddizioni, tanto sul piano giuridico che su quello politico. La prima, soltanto apparentemente “tecnica”, era legata fin dall’inizio alla possibile illegittimità costituzionale di una norma, l’articolo 69 comma 4 del codice penale, che regola il bilanciamento tra le circostanze aggravanti e attenuanti di un reato. Come detto in precedenza, era stata una sentenza della Cassazione a riqualificare il reato per il quale era stato condannato Cospito da “strage contro l’incolumità pubblica” a “strage contro la sicurezza dello Stato”.

Tuttavia, la Corte d’Assise di appello, che doveva riquantificare la pena, ha chiesto alla Corte Costituzionale di esprimersi sulla legittimità della norma di cui sopra; l’articolo 69, infatti, vieta, in caso di imputazione per strage, di far prevalere l’attenuante della lieve entità del danno sull’aggravante di “recidiva reiterata”, contestata nel caso specifico a Cospito. Dal momento che la Corte d’Assise d’appello, invece, riteneva di dover riconoscere all’imputato quest’attenuante, ha chiesto alla Corte Costituzionale di esprimersi sulla fondatezza della norma, che è stata poi in effetti ritenuta illegittima.

Se la messa in discussione dell’articolo 69 è quasi un effetto collaterale del caso Cospito, la protesta del detenuto anarchico è riuscita ad aprire differenti fronti di lotta contro i due istituti più inumani dell’ordinamento italiano: l’ergastolo e il regime di 41-bis; fronti differenti, che hanno avuto e hanno come obiettivo comune l’eliminazione di norme le cui fondamenta appaiono oggi estremamente fragili.

Il primo fronte è stato quello di piazza, che ha visto in tutta Italia, per mesi, presidi, cortei, occupazioni simboliche, come quella davanti al ministero di giustizia a Roma, dove per una settimana si sono susseguiti momenti di informazione e protesta, e quelle di numerose università.

Una novità di queste manifestazioni è stata la presenza, al fianco dei militanti anarchici (l’area politica di riferimento di Alfredo Cospito), di diverse aree della sinistra extra-istituzionale, sulla base di un dialogo non sempre facile in nome di una battaglia comune, anzi due: la revoca del 41-bis di Cospito e la conseguente messa in discussione di ergastolo e del cosiddetto “carcere duro”.

La fermezza e l’ottusità con cui i poteri statali hanno ignorato la crescita di questo movimento e le sue rivendicazioni ha, alla lunga, inevitabilmente ridotto la spinta propulsiva che lo aveva tenuto in piazza per mesi, con una cadenza praticamente quotidiana. Allo stesso tempo, con l’obiettivo di interagire con un fronte sociale più ampio ed eterogeneo, era nata nel gennaio 2023 la piattaforma Morire di pena.

Per l’eliminazione dell’ergastolo e del 41- bis, un’iniziativa promossa da organizzazioni e individui che operano nel mondo dell’editoria indipendente, della politica di base, della tutela dei diritti dei detenuti, dell’associazionismo. Dopo un paio di riunioni operative, il coordinamento della piattaforma ha diffuso un documento programmatico (lo trovate in appendice a questo volume) che in due mesi è stato sottoscritto da circa cinquecento persone e oltre trecento realtà collettive.

Il documento spiega come lo sciopero della fame di Cospito avesse le potenzialità per aprire strade inedite, incluso un lavoro di pressione verso differenti aree sociali, nonché per radicalizzare l’impegno di settori e personalità che, per esempio, in quei mesi si erano espresse sulla “sproporzione” della pena inflitta a Cospito, mantenendo però una certa prudenza rispetto all’abolizione di ergastolo e 41-bis. Il coordinamento ha organizzato negli ultimi sedici mesi iniziative nelle principali città italiane, riuscendo a coinvolgere personalità che era difficile, fino a poco tempo prima, immaginare ingaggiabili su queste battaglie.

Lo ha fatto attraverso parole d’ordine e rivendicazioni chiare: l’eliminazione delle assurde restrizioni a cui sono sottoposti i detenuti al 41-bis, che nulla hanno a che vedere con il dichiarato intento di impedirne le comunicazioni con l’esterno; l’inumanità di un regime che anche istituzioni internazionali hanno assimilato a pratiche di tortura, e che quindi è illegittimo per tutti (sì, anche per i mafiosi!); l’inefficacia del 41-bis come strumento di lotta alla mafia, che è viva e vegeta, ma si è decisamente trasformata nel trentennio seguito alla stagione delle stragi.

Dalla fine del 2023, la rete di attivisti e militanti che si era compattata durante i mesi dello sciopero della fame di Cospito ha dato vita a un coordinamento nazionale contro le istituzioni totali e la repressione, mentre il gruppo di Morire di pena ha deciso di proseguire il proprio lavoro di ricerca, sensibilizzazione e attivazione politica sui temi dell’ergastolo e del 41-bis, con l’insindacabile obiettivo della loro eliminazione.

Al contrario della vulgata corrente, l’ergastolo in Italia esiste eccome: la differenza numerica tra i detenuti che una volta condannati all’ergastolo ci rimangono fino alla morte e quelli che ottengono i benefici per uscirne è incommensurabile (sulla base di questo dato Morire di pena rifiuta la differenziazione tra ergastolo ostativo e non ostativo, rivendicando l’eliminazione dell’istituto in toto e il diritto, per qualsiasi essere umano, di poter conoscere, al momento della propria condanna, il momento in cui potrà essere liberato).

Nonostante il gran lavoro, le manifestazioni partecipate e i riscontri ottenuti in questi mesi di lavoro, appare evidente che al momento il paese è tutt’altro che pronto ad accogliere questo tipo di spinte. Le politiche securitarie, l’uso strumentale delle paure sociali e del tema “sicurezza”, il blocco di potere che ruota intorno al mondo dell’antimafia e la stragrande maggioranza della classe politica che si guarderà bene dall’inimicarselo, sono assai più forti non solo delle istanze che arrivano dal basso, ma anche delle aperture verso la società civile e delle alleanze che si provano a stringere anche con avvocati, giudici (pochi) e istituzioni (pochissime).

Qualche spiraglio arriva però dalla nostra storia recente. La battaglia per l’eliminazione del 41-bis, naturalmente, non può prescindere da una presa d’atto rispetto alle evoluzioni del fenomeno mafioso (che appare oggi estremamente complessa, considerando gli attori e gli interessi in campo nello scivoloso mondo dell’antimafia), da un’analisi delle sue caratteristiche attuali, dalla forza politica necessaria per considerare chiusa la stagione emergenziale iniziata negli anni Novanta.

È altrettanto vero, però, che questa battaglia può avvantaggiarsi di una serie di spinte provenienti dall’esterno, come quelle delle istituzioni internazionali, che sembrano più ricettive rispetto alla gravità di quanto sta accadendo nel nostro paese. Sull’ergastolo, invece, basta semplicemente guardarsi indietro. Tornare al 1981, per esempio, quando con un referendum promosso dal partito Radicale più di sette milioni di italiani si espressero per l’abolizione del “fine pena mai”.

O agli anni successivi, quando il movimento “Liberarsi dalla necessità del carcere” nacque tra Parma e Trieste e crebbe rapidamente in tutta Italia, fondato sulla lucidità di operatori con grande sensibilità sociale, legati perlopiù al movimento per l’abolizione dei manicomi, ma anche sull’alleanza con battaglieri amministratori locali.

O ancora, per citare epoche più recenti, al 1998 quando centosette senatori (contro cinquantuno contrari e otto astenuti) votarono a favore dell’abolizione dell’ergastolo partendo da un testo promosso dalla senatrice comunista Ersilia Salvato, prima che la legge si arenasse alla Camera e poi venisse per sempre archiviata con la caduta del governo Prodi, pochi mesi dopo.

Da quell’ultimo tentativo sono passati vent’anni, non cento. Abbiamo oggi, trasversalmente, una classe politica più rozza e opportunista, e il bombardamento mediatico che propone le prigioni come il più efficace strumento di gestione dell’ordine sociale e come anestetico alle paure della popolazione ha raggiunto i suoi scopi.

Tuttavia – lo spiega bene Sergio Segio in un testo pubblicato qualche tempo fa sulla rivista Vita – anche nelle esperienze appena citate si poteva percepire l’esistenza di “un paese comunque più civile e avanzato dei suoi rappresentanti politici, in maggioranza schierati per la permanenza dell’ergastolo, tentennanti o silenti”.

Allo stesso modo, dal basso, “dalla capacità di proporre riflessione, confronto, sensibilizzazione e iniziativa, sia all’interno delle carceri che della società libera”, partirono in quegli anni le spinte che poi sono state all’origine delle innovazioni più avanzate della riforma Gozzini (1986).

Perché, allora, questo non può accadere oggi? La battaglia politica per l’abolizione dell’ergastolo e del 41-bis può essere portata avanti da ognuno di noi nelle forme e nelle modalità che gli sono più consone, mantenendo ferma all’orizzonte l’idea del necessario superamento della più antistorica delle nostre istituzioni: il carcere. Un obiettivo di civiltà e progresso, che oggi non può e non deve più essere considerato utopia.

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