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Il mito degli “italiani brava gente”

Nel Sergente della neve, Mario Rigoni Stern descrive la disastrosa ritirata dell’Armir dell’inverno 1942-43 come una tragica epopea umana dove non c’è odio ma rispetto per i nemici, dove i soldati italiani fraternizzano con i contadini delle pianure del Don.

Nel racconto traspare la consapevolezza per la condizione comune vissuta dagli uomini contro che bivaccavano nelle trincee scavate sulle linee opposte del fronte.

Pubblicato nel 1953, il racconto di Rigoni Stern è divenuto una sorta di libro di testo per generazioni di scolari, una pedagogia pacificata piuttosto che pacifista della nostra memoria.

Le avventure coloniali e le guerre d’aggressione del regio esercito e delle milizie fasciste scolorano fino a cancellarsi in una narrazione addolcita, nostalgica, senza rivalse e rancori, ma anche senza gli orrori della guerra di conquista, gli eccidi, gli sterminii dei civili, la pulizia etnica, le politiche di snazionalizzazione delle popolazioni autoctone condotte da Mussolini in Africa, nei Balcani e in Russia.

Il conflitto bellico sembra seguire le regole non scritte d’un galateo cavalleresco d’altri tempi.

Il «generale inverno», la fame, i topi e le «cordate di pidocchi» che risalgono il collo dei nostri alpini appaiono i soli veri nemici da combattere. Questo libro ci ha aiutato a odiare la guerra sui banchi di scuola, a capirne tutta la sua insensatezza, ma ha anche riassunto e divulgato il mito del “bravo italiano”, del nostro «colonialismo straccione» e quindi dal volto umano, privo di ferocia, esente da crimini bestiali.

Un’epica degli ultimi che troviamo anche in Italiani brava gente, film di Giuseppe De Santis uscito nel 1964.

L’internazionalismo, la divisione per classi e non per nazionalità, l’antieroismo, la solidarietà tra russi e italiani poveri, la critica feroce degli stati maggiori fino a rappresentare i soldati italiani come vittime inconsapevoli delle loro gerarchie, nutrono un racconto didascalico che nel tentativo di educare al rifiuto della guerra, all’antimilitarismo e ai valori della fratellanza tra i popoli, getta un velo ideologico sulla condotta reale delle nostre truppe.

È singolare che la cultura di sinistra, sia pur giustificata da intenti lodevoli, abbia contribuito con la sua narrazione nazionalpopolare alla rimozione delle responsabilità italiane nella seconda guerra mondiale, facilitando quel rovesciamento di paradigma storiografico che l’attuale egemonia culturale della destra erede del fascismo sta portando a termine con successo.

Paolo Persichetti

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E’ singolare, in effetti, ma non troppo sorprendente. Ogni sforzo intellettuale degno di questo nome fa i conti con la situazione “storicamente determinata”, si pone come soluzione in avanti rispetto all’ordine dei problemi che si trova ad affrontare.

E dunque, nel dopoguerra, la volontà “progressiva” (non rivoluzionaria) di superare le divisioni della guerra civile come parte della più generale guerra di liberazione partorì narrazioni che erano depistanti, anche se non certo assolutamente false quanto quelle di altro segno (filoamericane o esplicitamente fasciste).

Il tentativo di costruire un “nuovo popolo italiano”, liberandolo dall’eredità oscena dell’adesione di massa al fascismo, anche al prezzo di ridurne le responsabilità storiche, aveva una sua nobiltà. Ma cozzava contro limiti oggettivi insuperati.

Il primo, e più ovvio, è che l’egemonia culturale – praticabile e praticata attraverso letteratura, cinema, e persino la televisione di Stato – non poggiava su una altrettanto solida egemonia economica e politica. Anzi… E dunque era destinata ad esaurirsi con la fantasia creatrice di una generazione per molti versi eccezionale di talenti creativi.

Il secondo, altrettanto ovvio ma meno evidente, perché si gioca sui tempi lunghi della Storia, è che ogni prodotto culturale, anche di alto livello, una volta espletate le funzioni “pedagogiche” implicite od esplicite nell’intenzione degli autori, diventa “materiale a disposizione” per successive operazioni culturali.

Purtroppo, di qualsiasi segno.

I fascisti, in particolare, privi come sono di figure intellettuali rilevanti, provano spesso ad impadronirsi – “rileggendoli” a loro modo – persino di icone del movimento rivoluzionario mondiale (ci hanno provato in alcuni casi, fallendo ridicolmente, persino con Che Guevara o lo stesso Marx, tramite i “buoni servigi” di tal Diego Fusaro).

Ma con la storia (il lavoro di Angelo Del Boca è in questo caso illuminante) o la scienza è più difficile portare a termine con successo operazioni di di “bricolage meticciato”. Con le narrazioni, com’è evidente, non ci vuole un genio. Basta la faccia come il culo…

Dante Barontini

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2 Commenti


  • giorgino

    Davvero ottimo articolo, e meno male, tra l’esercito europeo tanto caro ai ministri del partito democratico,, e i monumenti ai milite ignoto che il parlamento italiano sembra volere lautamente finanziare ( dando chissa come er scontatop che quel milite fosse felice della propria morte) , certe demistificazioni del togliattismo sono urgenti piu che mai.

    in effetti, posizioni come quelle di rigoni stern, prescindono da un punto di vista di classe. A rifiutare la guerra, non riuscendo a vedere i russi davvero come nemici, è l’esercito italiano in quanto tale, Non si specifica che il disfattismo rivoluzionario, cui narrazioni come quelle di Stern alludono, implica il riconoscersi, nonostante si stia in campi opposti, in quanto appartenento ad una stessa classe senza nazione ne patria, ovvero quella proletaria.

    La mancanza di tale elemeto di classe , era necessaria al pci togliattiano, che voleva allearsi con la borghesia democratica, riprendendone la funzione storica secondo una non meglio identificata democrazia progressiva, ecco dunque saltare l’elemento di classe. A mia memoria , racconti di contadini od operai che non avevano determinazione a combattere per un<a patria che giammai aveva dato loro niente, assolutamentwe mancano ( soprattutto i primi ci saranno stati in russia, hitler pretese il raddoppio dei combattenti inizialmente offerti da Mussolini)

    il punto di vista di classe permette di non fare sconti agli italiani invasori, ma anche di individuare e descrivere la tendnza dei proletari a distaccarsi dalla ideologia e dal militarismo borghese, magari dopo esserne stati financo condizionati, non per generico "bravagentismo" ma intravvedendo che la guerra tra nazioni deve divenire guerra di classe, pena il ritorno di. imperialismi e guerre


  • giorgino

    C’e poi un nesso molto evidente anche sul piano strettamente empirico, i politici più sostenitori del bravagentismo degli italiani, tanto in ambito coloniale quanto nelle operazioni belliche contro stati evoluti, sono gli stessi politici che mai vorrebbero una soluzione politica allo scontro che si ebbe in italia negli anni 70. (che ebbe inizio, è bene ricordarlo, con le stragi ed i progetti di colpi di stato). Bravagentismo a senso unico, ad una generazione intera non si riconosce alcuna contestualizzazione storica e politica, manco fossero diavoli fatti persona

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