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Il “refugees-washing” dell’Occidente nella crisi afgana

Su questi temi e sul ruolo dell’occidente e degli USA, ancora una volta in fuga dalle proprie sconfitte, si discuterà sabato 11 settembre alle ore 17 alla Casa della Pace, in Via di Monte Testaccio 22, Roma, con Giacomo Marchetti (Rete dei Comunisti – commissione internazionale), Giorgio Gattei (docente di storia del pensiero economico dell’Università di Bologna) e Sergio Cararo (redazione Contropiano), modera Mila Pernice (Rete dei Comunisti Roma). Siete tutti invitati.

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A prima vista, a giudicare dalla narrazione sulla questione dei profughi afghani a seguito della presa di Kabul da parte dei talebani, sembrerebbero in atto profondi cambiamenti.

Macron, Johnson e Draghi che richiedono corridoi umanitari e safe zone dopo la fatidica data del 31 agosto. Biden che definisce le procedure di evacuazione non come “una missione di guerra, ma una missione di misericordia”.

Tutto l’arco parlamentare italiano, da sinistra a destra, stretto nell’accogliere (almeno) le migliaia di collaboratori provenienti dal paese. L’ANCI che si affretta a dichiarare la disponibilità di 6.000 posti nei centri di accoglienza SAI, posti fino a poche settimane inesistenti per altri migranti in attesa da anni.

Gare di solidarietà per fornire generi di prima necessità agli afghani in arrivo e per accoglierli in casa propria. Il tutto, con buona pace delle migliaia di migranti dal futuro incerto sbarcati nelle ultime settimane e di quel cimitero a cielo aperto che è il mediterraneo. Evidentemente, non tutto è come sembra.

Primo, se ai profughi afghani è riservato questo trattamento è perché non sono come gli altri migranti. Gli afghani attualmente evacuati sono a tutti gli effetti per l’occidente migranti di “serie A”, in quanto collaboratori delle ambasciate e dei contingenti militari, insieme alle loro famiglie.

Sono diversi anche rispetto ai loro stessi connazionali emigrati verso l’Europa fino a pochi mesi fa, annoverati invece a pieno titolo insieme al resto dei migranti di “serie B”, che invece rappresentano un sostanziale problema per l’UE.

Fra questi, molti avrebbero anche dovuto essere rimpatriati in Afghanistan in quanto non beneficiari di protezione internazionale, perché la guerra era sostanzialmente considerata finita.

Mettendo da parte l’ipocrisia tipica occidentale e utilizzando po’ di onestà intellettuale, se si volesse parlare davvero di “profughi” si dovrebbe parlare di loro, dei milioni di migranti prodotti da 20 anni di guerra portata avanti dagli Stati Uniti e dall’occidente.

Profughi di cui i paesi dell’Unione Europea hanno visto solo una piccola percentuale, mentre la stragrande maggioranza è riuscita ad arrivare solo nei paesi limitrofi: dal 2020 Pakistan (1,5 milioni), Iran (780 mila) e Turchia (130 mila), insieme alle ex repubbliche sovietiche (Tagikistan, Uzbekistan e Turkmenistan), ospitano il maggior numero di rifugiati, mentre in UE solo la Germania ne ha accolti un numero significativo (circa 180mila).

Anche in Italia, le richieste di asilo da parte di Afghani hanno rappresentato sempre percentuali contenute (il 2% sul totale nel 2020). E se si volesse parlare realmente di profughi bisognerebbe parlare anche dei migranti che, al di là dei collaboratori (o meglio, collaborazionisti) occidentali autorizzati, probabilmente cercheranno – non si sa con quali risultati – nei prossimi mesi o anni di lasciare le loro terre con l’illusione di un futuro migliore in occidente, e che di certo non avranno lo stesso trattamento di un volo riservato.

Secondo, l’Occidente – e in primis gli Stati Uniti – ha estremamente bisogno di questo refugees-washing per riacquistare un minimo di credibilità e affidabilità. C’è parecchio da fare per scollarsi da dosso la monumentale pessima figura agli occhi degli afghani e del resto del mondo: venti anni di occupazione per scongiurare la minaccia terroristica e per esportare democrazia e diritti civili, finita con una fuga rocambolesca in elicottero e un piano di rientro last minute in tutta fretta, sotto i mitra dei talebani e sotto attacco dell’Isis.

Venti anni di promesse disattese, finite con un paese distrutto e condizioni di vita nettamente peggiorate per gli afghani, di cui secondo le Nazioni Unite più un terzo soffre la fame. Vite distrutte, tra l’altro, anche per gli stessi collaboratori internazionali che dopo essersi affidati all’occupante nella speranza di un cambiamento nel proprio paese hanno dovuto lasciare in tutta fretta la loro terra e le loro comunità.

Ma guai a rendersi conto che quelli che oggi offrono la “toppa” di aiuti e vie di fuga sono gli stessi che hanno distrutto un popolo e una terra con la loro guerra, senza essersi presi in carico per 20 anni le conseguenze: morti civili, sfollati, profughi, quelli che gli USA definiscono candidamente gli “effetti collaterali”.

Una pessima figura, questa, che tuttavia mostra il suo peso specifico soprattutto nello scacchiere internazionale, nello scontro con Russia e Cina, quelle che ormai sono ufficialmente descritti anche dalla stampa nostrana come i “nemici” dell’occidente in una riedizione di guerra fredda 2.0.

Ed è questo il vero punto della questione. Dimostrare la credibilità e affidabilità dell’occidente e tenere il punto rispetto a uno scontro di civiltà, a difesa di un sistema economico, sociale, culturale e valoriale. Uno scontro il cui favore pende sempre più a est.

Su questo viene in aiuto un “sincero” Marco Minniti che sulle pagine de Repubblica di qualche giorno fa riporta – in un articolo aperto citando Lenin (sic!) – che “la lezione afghana allude chiaramente alla necessità di un nuovo ordine mondiale. La parola chiave potrà essere coopetition. Mutuata dall’economia tiene insieme le parole competizione e cooperazione. Competizione strategica sui valori, i principi, i modelli di società. Cooperazione su grandi questioni di interesse planetario (…) Mai come adesso le democrazie sono sfidate: la loro capacità di decisione, la forza di leadership stabili, la credibilità di mantenere gli impegni presi”.

Difficile essere più chiari di così. E in questo, la difesa dei “propri” collaboratori/collaborazionisti filoccidentali, il riportare a casa tutto quello che di buono si è creato (tra l’altro, le risorse migliori in termini di istruzione e formazione professionale da reimmettere subito sul mercato, come lamentato dagli stessi talebani) e la rivendicazione dei valori di solidarietà e accoglienza – sbandierati e sistematicamente inapplicati – assumono un ruolo cruciale per l’occidente.

Un ruolo cruciale anche e soprattutto per l’Unione Europea, che deve districarsi tra la difesa di questi valori, predisponendo un piano di rientro dei collaboratori e di possibile apertura entro certi limiti dei propri confini, e la definizione di una gestione che non (ri)metta in discussione il delicato assetto europeo, tornando di nuovo nella condizione dei flussi migratori del 2015. E, magari, cercando anche di uscire dalla crisi vedendo rafforzato il proprio polo imperialista.

Come prevedibile, la risposta dell’UE sulla questione dei profughi è stata tutto fuorché coordinata. Il massimo a cui si è arrivato, nell’ultimo incontro fra i ministri dell’Interno dell’UE, è stata la linea comune dell’aiutiamoli a casa loro: le dichiarazioni riportano infatti che “dobbiamo evitare una crisi umanitaria per evitare una crisi migratoria: dobbiamo aiutare gli afghani in Afghanistan” e per farlo “l’Ue dovrebbe rafforzare il sostegno ai Paesi dell’immediato vicinato dell’Afghanistan (…)”.

In sostanza, fondi del bilancio UE messi a disposizione per tenere i profughi nei paesi limitrofi, in una sorta di riedizione dell’accordo fra UE e Turchia, magari anche proprio con la stessa Turchia di Erdogan.

Una scelta in linea con quanto definito nell’ultimo bilancio europeo, che ha stanziato più risorse per il controllo delle frontiere che per le politiche di integrazione. Nessun accordo, invece, sui corridoi umanitari gestiti dall’UE, impensabili considerando le chiusure dei paesi dell’Europa dell’est, insieme ad Austria e Danimarca, e la tiepida reazione Tedesca. Si avvicinano le elezioni anche per la Germania e gli equilibri interni non permettono troppe aperture.

Elezioni prossime che sembrano sentite anche in Francia, dove Macron ha dichiarato di voler farsi carico di una “responsabilità morale” dell’occidente (in smacco agli USA) e riaffermare così un ruolo centrale per la Francia, spingendo per un G20 straordinario sulla crisi afghana e per la definizione di corridoi umanitari, con la sponda di Boris Johnson e dello stesso Draghi.

Un Macron che proprio insieme a Draghi (al quale ha fatto eco anche Mattarella dal forum Ambrosetti) sembra aver percepito bene le opportunità di rafforzamento del polo europeo fornite dalla crisi Afghana, a partire da un’accelerazione sulla difesa comune europea – il primo semestre 2022 sarà a presidenza francese… – e dal superamento dell’ostacolo dell’unanimità sulle decisioni. Un meccanismo che, se approvato sull’onda dell’attuale crisi, potrà lasciare ampi margini per ben altre decisioni in futuro.

Nel chiudere il suo schietto articolo Minniti cita anche Sun Tzu (di nuovo, sic!) “La strategia senza tattica è la via più lunga per giungere alla vittoria. Una tattica senza strategia è il rumore di una sconfitta”, aggiungendo che “oggi il suo pensiero viene studiato nelle principali Accademie occidentali. Ma Sun Tzu era cinese. Non dimentichiamolo”.

Un monito, questo, che con tutte le difficoltà sembra essere colto in questa fase più dai leader europei che dalle reazioni scomposte di Biden e dell’apparato statunitense, ennesimo sintomo della crisi di egemonia che attanaglia gli Stati Uniti.

Alla luce di questo quadro, e come troppo spesso nella storia, le ragioni e il futuro dei profughi, dei migranti e della popolazione afghana sembrano valere ben poco, diventando solo l’ennesimo terreno di scontro di altri interessi e rappresentando al più uno strumento con cui provare a riacquistare una credibilità persa.

 * Rete dei Comunisti

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