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Una riforma fiscale a vantaggio delle imprese non dei lavoratori

Si sta rivelando un percorso ad ostacoli la riforma del Fisco, fortemente sponsorizzata  e suggerita dall’Unione europea.

Annunciata per la fine di luglio e poi slittata, dovrebbe approdare la prossima settimana in Consiglio dei ministri ma, causa contrasti all’interno della compagine governativa e scarsità delle risorse (circa 2,3 miliardi di euro), il provvedimento potrebbe assumere un carattere alquanto generico, rinviando le scelte vere al dibattito parlamentare e poi ai decreti attuativi.

Nel frattempo alcune misure da inserire nella manovra di bilancio potrebbero anticipare qualche obbiettivo della riforma.

Ma i contrasti all’interno delle varie forze di governo non devono trarre in inganno: le divergenze non hanno praticamente nulla a che fare con la costruzione di un sistema che abbia i caratteri dell’equità e della progressività, ma rispondono, più che altro, ai differenti interessi economici dei quali i partiti devono tenere conto: e tra questi interessi naturalmente non figurano quelli dei lavoratori, dei pensionati e in generale dei ceti meno abbienti, da tempo orfani di qualsiasi forma di rappresentanza parlamentare.

Per questo la discussione si avvita su opzioni magari anche differenti su taluni aspetti, ma che nella sostanza non scalfiscono minimamente quel carattere profondamente diseguale e classista che da tempo ha assunto il Fisco nel nostro paese.

L’esempio più eclatante di questa falsa contrapposizione riguarda la cosiddetta riforma del catasto: è un dato di fatto che le rendite catastali presentino forti sperequazioni e che vi sono case di lusso in centro storico con rendite più basse rispetto a quelle presenti nei quartieri popolari.

Ma qualcuno può ragionevolmente pensare che un governo diretta espressione delle banche e delle lobby finanziarie possa partorire una riforma del catasto orientata a principi di equità sociale?

Allo stato attuale l’unico documento ufficiale per orientarsi tra le possibili novità è il progetto di riforma del Fisco contenuto nel lavoro presentato dalla Commissione Finanze nel mese di giugno intitolato “Riforma dell’imposta sul reddito delle persone fisiche ed altri aspetti del sistema tributario” che aveva raccolto un consenso unanime.

Mai entrata nel dibattito l’opzione della patrimoniale sulle grandi ricchezze o l’abolizione dell’Iva sui beni di prima necessità o la rideterminazione in chiave omnicomprensiva dell’Irpef – al fine di ricondurre nell’ambito della progressività tutti quei redditi oggi tassati con cedolari secche ed avviare davvero un percorso redistributivo – gli interventi oggetto del dibattito si risolvono in una operazione di maquillage fiscale che si dovrebbero articolare sui seguenti punti:

  • abbassamento al 23 percento del prelievo sulle rendite finanziarie e sui redditi da capitale, realizzando così una inaccettabile equiparazione tra i guadagni finanziari e la prima aliquota Irpef applicata nei confronti di chi percepisce un reddito fino a 15.000 euro;
  • taglio del cuneo fiscale; nel mirino l’eliminazione del contributo CUAF (Cassa unica assegni familiari), ovvero di quel contributo a carico dei datori di lavoro destinato al finanziamento degli assegni familiari. Una misura fortemente richiesta da Confindustria per ridurre il costo del lavoro delle imprese giustificato dal consueto ritornello secondo il quale tale eccessivo costo inibirebbe nuove assunzioni;
  • abolizione dell’Irap, anche questa misura naturalmente assai gradita da Confindustria in ottica di riduzione del carico fiscale sulle imprese, sulla quale vi sarebbe una convergenza da parte delle forze politiche. Come è noto mentre i lavoratori contribuiscono a finanziare la spesa sanitaria attraverso la fiscalità generale (Irpef ed addizionali regionali in costante aumento), dal versante delle imprese e dei professionisti il contributo avviene tramite l’Irap con un apporto al SSN da tempo in costante decremento per effetto della riduzione delle aliquote e della esclusione di alcuni settori economici (si è quindi passati da circa 30 miliardi di euro ai 24,1 miliardi Irap dichiarati nel 2018). Ebbene l’ abolizione di questo tributo o il suo ulteriore ridimensionamento, oltre che privare il servizio sanitario nazionale di una importante voce di finanziamento (circa il 20 percento della complessiva spesa sanitaria è finanziata dall’Irap) realizzerebbe uno squilibrio importante trasferendo l’onere della spesa del servizio sanitario nazionale dal mondo datoriale a quello del lavoro: persino dinanzi ad una emergenza sanitaria ancora in corso, il diritto alla salute continua a non costituire una priorità e a cedere il passo dinanzi ai profitti delle imprese;
  • riduzione (al 34 percento?) dell’aliquota Irpef che colpisce i redditi tra i 28.000 euro e i 55.000 euro che attualmente è fissata al 38 percento; ma tale misura, propagandata a favore del “ceto medio”, non solo non ha alcuna effetto redistributivo – in quanto si estenderebbe e favorirebbe soprattutto i contribuenti degli scaglioni più alti – ma sembra infrangersi sullo scoglio rappresentato dalla mancanza di risorse necessarie per renderla applicabile;
  • riordino delle aliquote Iva con possibile riduzione dell’aliquota ordinaria attualmente applicata: tale intervento, che comunque si scontra con la scarsità delle risorse, favorirebbe ancora una volta i redditi più elevati considerato il carattere regressivo dell’imposta sui consumi.

Abbiamo denunciato sin dall’inizio che la riconfigurazione produttiva contenuta nel PNRR riproponeva un modello di interventismo statale tutto a favore dell’impresa ( in particolare di un certo tipo di impresa): il progetto di riforma del Fisco che si sta facendo avanti è esattamente all’interno di questa logica.

* Unione Sindacale di Base

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