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Cambio all’Inps, chi lavora per la demolizione

Quando i giornali padronali iniziano a parlare di conti della previdenza, di bilancio dell’Inps, di dissesto dell’Inpdap, è bene prepararsi a un nuovo attacco devastante al sistema pensionistico. Il ragionamento che fanno è semplice: c’è un divario incolmabile tra contributi versati e prestazioni assicurate, ergo il sistema non tiene e non può tenere. A meno che, come avviene ogni anno, lo sbilancio non venga coperto dalla fiscalità generale, ovvero con una quota delle tasse dei cittadini.

Anche l’obiettivo è semplice: bisogna perciò ridurre le prestazioni, ovvero numero ed entità degli assegni pensionistici emessi.

Per semplificare, però, bisogna dimenticare molte cose (il “taglio” alla memoria è quello che costa meno; il singolo giornalista ci può persino guadagnare qualcosa). Specie se, dall’altro lato, Confindustria e la politica al suo servizio continuano a lavorare su una “riduzione del cuneo fiscale” dal lato delle imprese. Ovvero: a ridurre ulteriormente le entrate contributive dell’Inps. Ovvero ancora: ad aprire altre voragini nei conti previdenziali. Qui la logica viene velocemente messa in soffitta. Se si vogliono ridurre le entrate mentre si chiede già di ridurre le uscite, il risultato è chiaro: si prefigura un sistema futuro in cui le pensioni – quelle “pubbliche”, per cui sia noi lavoratori che le imprese versiamo mensilmente dei contributi – dovranno essere poco più di una mancia.

Sul piano della propaganda l’occasione è ghiotta: le dimissioni del “mutlipoltrone” Mastrapasqua consente di mettere insieme “il rosso” dei conti e le “furbizie” del presidente uscito, come se le prime fossero spiegabili con le seconde. Naturalmente, bisogna dimenticare che Mastrapasqua è stato per alcuni anni “l’eroe” per antonomasia di quanti pretendevano la demolizione della previdenza pubblica. I tagli avvenuti sotto la sua gestione, aggravata dal blocco del turnover e da un uso smodato della precarietà contrattuale, sono di dimensioni bibliche.

Altre dimenticanze? Beh, c’è il caso scandaloso della “Cassa di previdenza dei dirigenti di azienda”, un ente privato fallito a causa degli assegni pensionistici principeschi che i dirigenti di azienda si erano assegnati – diventati poi “diritto acquisito” – e anche dei “contibuti minimi” che avevano versato mentre erano al lavoro. Questo ente privato, dopo il fallimento, è stato accorpato all’Inps, naturalmente con tutti i suoi debiti e senza diminuire di un centesimo gli assegni per i manager finiti a riposo (sappiamo però che i manager amano il “lavoro multiplo”, e anche quando sono in pensione continuano ad occupare poltrone nei consigli di amministrazione, sia privati che pubblici). In pratica, alla fine della fiera: siamo noi che paghiamo la pensione d’oro a manager incapaci di gestirsi da soli la propria previdenza, ma ancora pienamenti occupati a far danni.

Altra dimenticanza-chiave. Il dissesto dell’Inpdap, ex ente che curava la previdenza dei dipendenti pubblici, è un classico caso di “contabilità di giro”. Mentre le società private (e i relativi dipendenti) versano mensilmente i contributi previdenziali e il Tfr all’Inps, lo Stato non faceva altrettanto né per i contributi né per il “trattamento di fine servizio” (la “liquidazione”). Il motivo era anche logico: era lo stato a battere moneta, quindi sarebbe stato lo Stato stesso a regolarizzare la posizione al momento dell’uscita dal lavoro. Inutile star lì tutti i mesi a metter denaro in una cassa “virtuale”, tanto valeva fare i conti alla fine.

Con “l’accorpamento” dell’Inpdap all’Inps, però, c’è stato un trasferimento delle sole competenze (e del personale), ma non una copertura delle risorse mancanti. Ergo: l’Inps – che aveva i conti a posto – si è ritrovata a dover calcolare “perdite” per trasferimenti non effettuati da quello stesso Stato che poi, ogni anno, deve ripianarle. Potremmo anche dire che è “un buco” inesistente, se non fosse che nel frattempo – con l’adozione dell’euro e dei suoi molti vincoli – lo Stato non batte più moneta e deve invece chiedere prestiti “sui mercati”. Pagandoci anche gli interessi. Miracoli del neoliberismo imperante…

Ma la propaganda ha bisogno di nascondere la realtà inventandosene una di comodo. E qui arriva il titolista de IlSole24Ore, che indica i due soggetti che pagheranno il conto per tutti: “i ggiovani” (e ci mancherebbe) e “lo Stato”. Evidente pure l’obiettivo: giocare l’ennesima contrapposizione “generazionale” per fregare contemporanemente i giovani veri, i loro padri al lavoro e i nonni in pensione.

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L’Inps perde 10 miliardi all’anno. I giovani e lo Stato copriranno il buco per pagare le pensioni. Ecco come

di Fabio Pavesi

Le dimissioni di Antonio Mastrapasqua e le perdite che per il secondo anno consecutivo toccheranno i 10 miliardi nei conti dell’Inps mettono in allarme gli italiani. Sia i lavoratori in attività che gli attuali pensionati. Se l’Inps, come stimano le previsioni del Civ, il Comitato di indirizzo e vigilanza dell’ente pubblico, produrrà perdite miliardiarie anche quest’anno e nel 2015, che fine faranno i pagamenti delle pensioni? Domanda legittima, che impone qualche risposta.

Le pensioni non sono a rischio per il semplice fatto che le perdite di bilancio e i buchi provocati dal divario sempre più aperto tra i contributi versati (le entrate) e le prestazioni erogate (le uscite) verranno coperte dall’aumento dei trasferimenti da parte dello Stato. L’Inps, per capirci, non può fallire. E lo sbilancio nei suoi conti verrà pagato dalla fiscalità generale, cioè dai contribuenti italiani. In realtà è già accaduto. Nel 2013 infatti i trasferimenti dello Stato all’Inps hanno toccato i 112,5 miliardi. Sette miliardi secchi in più (+6,6%) rispetto ai 105,6 miliardi che è costata la bolletta pubblica per coprire lo squilibrio tra entrate contributive e prestazioni erogate dall’ente pensionistico italiano.

39 miliardi in più dal 2008
Un’escalation inarrestabile, da tempo. Basti pensare che nel 2008, prima della “Grande crisi”, erano sufficienti 73 miliardi di trasferimenti dal bilancio dello Stato per coprire i disavanzi. Negli ultimi 5 anni, dal 2008 al 2013, l’esborso è aumentato di ben 39 miliardi cioè il 53% in più. Un aumento monstre, pari all’8% cumulato annuo. E questo in tempi di inflazione ai minimi storici e di profonda flessione del Pil.

Il dramma è che, secondo le stime del ministero dell’Economia (Mef) , la spesa non conoscerà soste neanche nei prossimi anni.

 

Altri 10 miliardi al 2016
La nota tecnica del Mef prevede una mole di trasferimenti pubblici (dallo Stato) alla previdenza che non smetterà di salire. Per il 2014 le stime parlano di 119 miliardi che saliranno a 122 miliardi a fine 2016. Rallenta il passo di marcia, rispetto agli ultimi 5 anni, ma non c’è capitolo di spesa pubblica che aumenti a questi ritmi.

Il tema di fondo è che non si attenua il forte disavanzo tra le entrate (cioè i contributi versati da imprese e lavoratori) e le uscite per pensioni e assistenza dalle casse dell’Inps, ora che ha incorporato anche l’Inpdap (il dissestato ente dei dipendenti pubblici). E dato che le pensioni vanno pagate e che l’Inps non può fallire, il buco tra entrate e uscite lo deve sanare per forza lo Stato. Basti pensare che nel 2012 le entrate da contributi si sono fermate a 208 miliardi, mentre le uscite per le prestazioni sono state di 295 miliardi.

Ecco qui il profondo divario che non consente oggi al sistema della previdenza di autofinanziarsi. Certo, gran parte di questo buco deriva dall’assistenza. Sono le pensioni sociali, le indennità varie, le reversibilità ai superstiti. Ma anche le invalidità civili, che da sole costano allo Stato oltre 17 miliardi. Tutte prestazioni che non hanno alle spalle contribuzioni versate e quindi del tutto a carico del bilancio pubblico.

I contributi non bastano a fronteggiare le spese
L’assistenza costa da sola 72 miliardi. Ma la verità è che anche le gestioni previdenziali soffrono disavanzi strutturali. L’ex Inpdap da sola perde ogni anno, da tempi lontani, quasi 9 miliardi. È lo sbilancio tra contributi, erosi oggi dal blocco del turn over, e pensioni che tendono a salire. Rispetto alle pensioni dei lavoratori privati, poi, la media dei trattamenti pubblici è più alta di un 30%. Ovvio che in queste condizioni lo squilibrio si aggraverà. L’ex Inpdap non è un caso isolato. Quasi tutte le gestioni previdenziali sono infatti in pesante squilibrio sull’autofinanziamento.

I contributi versati non bastano a fronteggiare le spese (crescenti) per le pensioni. Sono gli effetti che dureranno a lungo, non solo della crisi, ma anche dell’onerosissimo sistema di calcolo retributivo. Che avvantaggia chiè andato in pensione negli anni scorsi e che incassa prestazioni previdenziali ben più alte rispetto ai contributi versati durante la vita lavorativa.

Divari tra contributi e prestazioni strutturali in quasi tutte le gestioni
L’Inpdap, l’ex gestione dei dipendenti pubblici, da sola porta nel 2013 nei conti dell’Inps una perdita per 8,85 miliardi e un deficit patrimoniale monstre di 26 miliardi. L’ex Inpdap è solo la punta dell’iceberg. Tutte le gestioni previdenziali sono in profondo rosso da tempo con l’unica esclusione dei parasubordinati. Partite Iva, professionisti e co.co.co versano solo contributi senza uscite previdenziali. L’utile di 8,5 miliardi della gestione dei giovani viene del tutto eroso dal profondo rosso delle altre gestioni.

Ecco le gestioni in rosso
Gli agricoltori vantano, per così dire, una perdita per 5,4 miliardi; gli artigiani per 5,9 miliardi; i dirigenti d’azienda (ex Inpdai) sono in rosso per 3,8 miliardi. Così come in perdita cronica per più di un miliardo ciascuno sono il fondo trasporti e il fondo telefonici, mentre il fondo elettrici chiuderà il 2013 con perdite per 1,9 miliardi. Il dato drammatico è che le perdite non sono episodiche. Il trend negativo è in atto da anni.

Pesa la crisi che erode i contributi, ma pesa soprattutto nello sbilancio entrate/uscite l’aumento costante delle nuove pensioni e il calcolo retributivo che tiene alta la forbice, e lo farà ancora per anni, tra contributi effettivamente versati e pensioni pari al 70-80% degli ultimi stipendi. Per gli effetti calmieranti della riforma Fornero c’è da aspettare ancora molto tempo.

Ed ecco chi paga
E alla fine tocca a due soggetti coprire i disavanzi. Lo Stato che dovrà aumentare ogni anno di circa 10 miliardi i suoi trasferimenti e i giovani delle gestioni parasubordinate. Loro stanno solo versando senza o con poche uscite previdenziali e la loro gestione è in attivo per oltre 8 miliardi. E’ quell’attivo che copre i deficit delle altre gestioni.

Il problema riguarda il futuro. Se oggi i giovani pagano per gli anziani che succederà agli ex giovani quando toccherà a loro andare in pensione.

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