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Note sul Donbass e la resistenza antimperialista

A due mesi dalla Carvana antifascista in Donbass: intervista a due militanti che vi hanno preso parte, sulla guerra in Ucraina, la resistenza della Repubbliche popolari, il ruolo delle potenze imperialiste occidentali e della Russia di Putin nel conflitto, sull’impegno internazionalista e la militanza antimperialista dentro l’acuirsi dello scontro tra potenze e le accelerazioni della tendenza alla guerra a livello globale

1.Tu hai partecipato in prima persona alla “Carovana antifascista” organizzata dalla gruppo musicale Banda Bassotti in Novorossija. Qual era il suo obiettivo e come si è svolta la visita?

Anzitutto va detto che la Carovana non è iniziata con la partenza per Mosca, ma è cominciata ben cinque mesi prima, quando la Banda Bassotti e altri compagni, la maggior parte dei quali romani, hanno cominciato a organizzare serate benefit che potessero servire sia ad ammortizzare il costo del viaggio sia a contribuire praticamente alla Resistenza del Donbass con un aiuto economico e di beni. Concerti, iniziative e quant’altro. I compagni della Banda hanno, infatti, tenuto a ribadire alle Milizie stesse, che tutto era stato finanziato con soldi raccolti con grande fatica da proletari per altri proletari. L’obiettivo della Carovana era molto semplice: rompere il silenzio in cui in Occidente è precipitata la “questione ucraina” dopo mesi e mesi di menzogne e mistificazioni. Obiettivo condiviso anche da compagni greci, spagnoli e baschi, cosa che ha permesso che la Carovana fosse realmente un’esperienza internazionalista.

Ma ovviamente non c’era solo questo: prendere contatti, rendersi conto coi propri occhi, riportare informazioni di prima mano in occidente, capire insieme alle Milizie come e perché costruire la solidarietà intorno alla Novorossjia. Come annunciato il tutto doveva concludersi con un concerto a Lugansk, ma purtroppo questo non è stato possibile (rimando al punto sugli accordi di Minsk) a causa della situazione internazionale venutasi a creare intorno alla Novorossjia. Siamo partiti da Mosca in pullman facendo sosta svariate volte nel corso del lunghissimo viaggio (circa 15 ore) da Mosca a Donetsk russa al seguito di un convoglio di aiuti umanitari organizzato dal Partito Comunista della Federazione Russa. Ad ogni sosta siamo stati accolti da piccole delegazioni di abitanti e membri dei partiti comunisti, di fronte i quali la Banda ha improvvisato piccoli concerti. Il resto purtroppo è più noto: nonostante le continue pressioni dei governi di Lugansk e Donetsk, nonostante tutti i nostri tentativi non c’è stato modo di garantire l’accesso della carovana, quindi il concerto a Lugansk è stato annullato. Accettare di non poter entrare in Novorossjia, dopo tutti gli sforzi fatti per giungervi così vicini, è diventato ancor più difficile una volta saputo dai miliziani, incontrati l’ultima sera trascorsa dalla Carovana a Donetsk russa, che il palco era già stato allestito, e cibo e bevande già preparate. Tutto questo nel mezzo di un conflitto armato. In parte, comunque, l’obiettivo è stato raggiunto: la televisione satellitare russa, Russian Today, e quella latinoamericana dell’Alba, Telesur, hanno fornito una costante copertura alla Carovana. In occidente le cose sono andate in modo diverso. Il silenzio dei media main stream (che invece furono ben prodighi di articoli quando arrivarono in Novorossjia i rossobruni di Millennium) e di una parte stessa del movimento antagonista è stato pressoché totale. Qui l’informazione sulle vicissitudini della Carovana si è affidata unicamente a canali militanti come radio e siti di movimento e social networ

2.      Gli accordi di Minsk hanno cambiato qualcosa della situazione sul campo?

Gli accordi di Minsk sono stati firmati il 7 settembre nella capitale bielorussa da rappresentanti del governo di Kiev e di Mosca sotto la supervisione dell’Ocse (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa). Tra i 12 punti dell’accordo, quelli che hanno avuto maggiori conseguenze concrete sono stati il punto 1 con cui si dichiarava il cessate il fuoco tra le due parti e il punto 4 con cui si ristabiliva un controllo effettivo dei confini nazionali tra Russia e Ucraina sotto la supervisione di osservatori dell’Ocse. Gli accordi sono stati firmati nel bel bezzo della controffensiva lanciata a fine agosto dalle milizie delle repubbliche popolari che ha costretto a una rapida ritirata le truppe di Kiev presenti nel Donbass. I rappresentanti delle repubbliche hanno perciò accettato di sedersi al tavolo delle trattative a denti stretti, nonostante lo stessero facendo da una posizione di forza rispetto al governo di Kiev. La loro presenza a Minsk è stata, dunque, più il frutto degli sforzi della Russia di giungere a una soluzione diplomatica del conflitto, che una chiara volontà delle repubbliche di interrompere una controffensiva fin lì dimostratasi sorprendentemente vittoriosa. Questo equilibrio delle forze in campo si è poi cristallizzato almeno formalmente nel testo degli accordi riconoscendo, per esempio, una forte autonomia del Donbass dal governo di Kiev (punto 3). Se per Poroshenko, dunque, gli accordi hanno rappresentato una grossa concessione alle repubbliche (provocando in questo modo grossi malumori tra i battaglioni di volontari nazisti attivi nel fronte di guerra), nel Donbass gli accordi sono stati visti fin da subito come una sorta di vittoria mutilata, in quanto non traducevano in termini diplomatici i reali equilibri militari conquistati dai miliziani armi in pugno. Per questa ragione, gran parte dei punti degli accordi sono rimasti carta straccia, non producendo nessun effetto reale. A ben vedere, l’unico che ha veramente voluto gli accordi e ha cantato vittoria dopo la loro firma, è stato il governo di Putin, il cui interesse – è bene ricordarlo – è quello di tornare presto a una situazione di stabilità che possa far ripartire i traffici commerciali con l’Europa (e magari alzare il prezzo internazionale del gas, oggi artificiosamente tenuto basso anche per danneggiare l’economia russa) e allo stesso tempo garantirsi una sfera d’influenza in un’Ucraina uscita indebolita dal conflitto (cosa che gli sarebbe garantita da una soluzione simile a quella a cui si è giunti tra Ossezia e Georgia dopo il conflitto del 2008, ovvero la trasformazione del Donbass in uno stato non-stato che possa godere di una forte autonomia all’interno del territorio ucraino e su cui i russi possano esercitare la loro influenza grazie alla loro posizione strategica sia in ambito economico che diplomatico). Data questa situazione, la Russia aveva tutto l’interesse a provare a far funzionare gli accordi e, dunque, almeno nelle prime settimane ha fatto pressione perché i punti degli accordi fossero rispettati. Non stupisce, dunque, se in un primo momento gli unici punti effettivamente implementati (almeno da parte delle repubbliche) siano stati quelli su cui la Russia poteva esercitare le pressioni più forti, quindi il cessato il fuoco, e il controllo dei confini tra Russia e repubbliche popolari.

La carovana ha avuto la sfortuna di giungere a Donetsk russa proprio nei giorni in cui la Russia stava verificando se ci potessero essere le condizioni per giungere a una più definitiva stabilizzazione della situazione sulla base degli accordi di Minsk. È, soprattutto ma non unicamente, per questo motivo che le frontiere con il Donbass sono rimaste chiuse per la carovana e a nulla sono servite le forti pressioni che giungevano dai governi di Donetsk e Lugansk in favore alla nostra visita in Donbass. La Russia in quei giorni era impegnata a mostrarsi una controparte affidabile e la possibilità che cinquanta internazionalisti provenienti dal sud Europa passassero indisturbati il confine russo consegnando aiuti umanitari, materiale logistico e denaro alle milizie delle repubbliche era una eventualità che non poteva e voleva rendere concreta.

Nonostante ciò, nei giorni stessi in cui ci trovavamo a Donetsk russa in attesa che la situazione si sbloccasse, diventava sempre più chiaro che il cessate il fuoco non sarebbe potuto durare a lungo. Fin dai giorni immediatamente successivi alla firma del cessato il fuoco, la reazione delle milizie impegnate nella controffensiva fu molto negativa. Il modo in cui il cessate il fuoco fu imposto e i suoi termini, provocarono un’aperta protesta da parte delle brigate che più erano impegnate sul fronte, fino al punto che diversi comandanti dichiararono apertamente che non avrebbero rispettato i termini degli accordi di Minsk. L’imposizione degli accordi di Minsk fu vista, da una parte come la volontà delle potenze internazionali, Russia inclusa, di fermare l’avanzata delle milizie popolari nella loro controffensiva, dall’altra come la capitolazione dei vertici delle repubbliche alla volontà straniera. Nei fatti, i combattimenti e le operazioni militari non sono mai cessate. L’esercito ucraino e i battaglioni nazisti hanno utilizzato le settimane di relativa calma per riorganizzarsi, armarsi e e addestrarsi, e oggi sono schierati lungo tutto il fronte in un numero di gran lunga maggiore di quello presente alcune settimane fa e sicuramente meglio armati, pronti per un’operazione in grande scala contro le repubbliche. Contemporaneamente sono continuati i bombardamenti dei quartieri residenziali di Donetsk e di altre aree lungo il fronte da parte dell’esercito ucraino. Secondo le Nazioni Unite, dall’inizio del cessate il fuoco fino all’8 ottobre, i morti a causa di operazioni militari di Kiev nel Donbass erano stati 331. L’esercito popolare, da parte sua, ha continuato le operazioni per riconquistare l’area strategica dell’aereoporto di Donetsk riuscendo a concluderle con successo. Mentre scrivo (metà novembre), il cessate il fuoco è ormai un lontano ricordo. I combattimenti sono ripresi lungo tutta la linea del fronte. Scambi di mortaio continuano interrottamente a Luhansk. Combattimenti sono in corso a Mariupol e nei quartieri a nord di Donetsk.

3.      Una delle accuse rivolte più frequentemente agli organizzatori della carovana riguarda la sua natura “antifascista”. Data la complessità della situazione e degli interessi in gioco, con personalità di destra e gruppi fascisti schieratisi da ambo i lati e una condizione oggettiva di scontri tra blocchi sullo sfondo, non è fuorviante e semplicistico riproporre uno schema analitico “fascismo vs antifascismo”?

Per rispondere a questa domanda è necessario distinguere e trattare individualmente da una parte il variegato spettro di forze politiche che appoggiano la Resistenza del Donbass, e dall’altro, la composizione stessa di questo movimento di resistenza. Con il riferimento al primo contesto, è vero i fascisti europei si sono spaccati in due filoni di pensiero (e di alleanze) rispetto alla questione Ucraina. Un filone anti-atlantista, quindi pro-Novorossjia, e un filone anti-russo, quindi pro-Kiev. In Italia, Casapound ha assunto una posizione pro-Kiev (anche se si dichiara anti-Ue in patria), e Forza Nuova insieme al piccolo microcosmo delle realtà rossobrune a favore di Putin. Molte sono state le polemiche riguardo al convegno organizzato in Crimea dalla Russia sulla situazione in Ucraina a cui ha partecipato “il meglio” del fronte fascista europeo anti-atlantista: polemiche che hanno colpito la Russia e la Novorossjia. Io ho condiviso in parte la critica che puntava il dito verso quelle componenti nazionaliste e conservatrici della Resistenza nel Donbass che parteciparono a quel convegno. Putin ha necessità di trovare alleati anti Usa e anti Ue per legittimare all’interno dei blocchi imperialisti a cui è contrapposto la sua politica di influenza nell’area e penso che sia ormai chiaro a tutti che ha scelto di stringere i rapporti con la parte (del resto minoritaria) della galassia fascista russa schierata apertamente a favore della Novorossjia e dei suoi alleati europei. Questo dovrebbe essere un chiaro monito tra chi nel movimento antimperialista e contro la guerra vede nel governo di Putin un alleato, e allo stesso tempo manda un chiaro monito su quanto la richiesta di cambiamento sociale nelle Repubbliche popolari (anti oligarchi, anti Ue e anti Usa, per la nazionalizzazione di settori strategici, per una maggiore giustizia sociale, per la proprietà statale delle risorse, riduzione e controllo della proprietà privata) non riscontri il favore del governo russo.

In tutto questo che c’entrano le Repubbliche popolari? Assolutamente nulla. Ormai troppi nel movimento antimperialista e contro la guerra, a partire da chi si schiera nel fronte non posizionista, pensano alla Novorossjia come appendice della Russia. Ebbene penso che questo sia uno sbaglio: come dimostrano gli accordi di Minsk, come dimostra la Costituzione (provvisoria) stessa della Novorossjia, le spinte neoliberiste di Putin e i suoi amici oligarchi non hanno nulla a che vedere con la volontà popolare della Novorossjia. Allora penso che, a prescindere da chi si è schierato a favore della resistenza in Donbass, l’unico spazio di giudizio per analizzare la questione antifascista riguardo alla Novorossjia sia quello che si delimita entro i confini delle Repubbliche popolari. Pavel Gubarev è stato uno dei dirigenti delle milizie, autoproclamatosi Governatore del Popolo, e su di lui si sa apertamente che ha simpatie fasciste (anzi più dettagliatamente è un seguace di Dugin, che potremmo definire uno degli alfieri del pensiero rossobruno russo). Ebbene Gubarev è stato allontanato dalla sua carica e non ha più ricoperto incarichi ufficiali per la Novorossjia. Il suo partito è stato perfino escluso dalla corsa nelle ultime elezioni, apparentemente per irregolarità procedurali. Altri invece sono nazionalisti. Ma qui si apre una questione specifica riguardo a cosa si può intendere per nazionalismo. Proveniamo da una cultura politica in cui il nazionalismo è diventato sempre più sinonimo di fascismo (a riguardo si veda l’ultimo articolo di Samir Amin in Monthly Review). Negli stati dell’Ex Urss tutti potrebbero dichiararsi “nazionalisti”: non esiste nessuna differenza tra nazionalismo e patriottismo. In Novorossjia il nazionalismo rimanda ad un forte attaccamento alle tradizioni, ma anche ad una specie di “socialismo di pancia” che parla di giustizia sociale e di solidarietà tra i popoli. Non voglio descrivere la situazione in Novorossjia come un momento pre-rivoluzionario: sarebbe sbagliato e mistificatorio. Come tutte le situazioni in cui si esplicano più contraddizioni, anche gli schieramenti interni sono contraddittori e di varia natura: non potremmo aspettarci, in nessuna situazione, pre rivoluzionaria o rivoluzionaria, una composizione univoca e unicamente progressista. Alcuni dei vertici delle Repubbliche sono nazionalisti e hanno una provenienza tendenzialmente di destra. Però non si può nemmeno ignorare il gran valore che la popolazione dà all’antifascismo praticato oggi, visto in continuità con la lotta contro il fascismo nella seconda guerra mondiale e contro l’ennesimo tentativo di ingerenza occidentale. Nella memoria di tutti, anche dei più giovani, vive il ricordo della Grande Guerra Patriottica contro il Nazifascismo e non è un caso che il simbolo della solidarietà con la Novorossjia sia il nastro arancio-nero di San Giorgio, un’antica onorificenza militare con cui molti (dei pochi) sopravvissuti alla guerra contro il nazifascismo furono premiati per il proprio servizio sotto le armi. Dal 2005 è ufficialmente, in Russia, il simbolo della vittoria contro il Nazifascismo. Alle Milizie è venuto gioco facile usare il nastro di San Giorgio come simbolo, perché si sono trovati a combattere contro battaglioni come l’Aidar, l’Azov e altri che si richiamano apertamente alla tradizione banderista e nazista. Quindi penso che non ci sia nessun dubbio rispetto alla definizione “antifascista” della Carovana: la Novorossjia è antifascista, isola i fascisti interni e combatte armi in pugno quelli ben più pericolosi (perché ben armati e finanziati dalle forze imperialiste occidentali) che vengono da Kiev. Concludo con una informazione interessante: la stragrande maggioranza dei fascisti russi sono schierati a fianco di Kiev.

4.      La bandiera della repubblica della Novorossjia è molto simile a quella dei confederati statunitensi durante la guerra di secessione …

Una bandiera ufficiale della Novorossjia non è ancora stata adottata, anche se tutte le principali in uso sono state riconosciute dai governi delle repubbliche. La più diffusa è quella appunto che ricorda quella dei confederati statunitensi, anche se l’affinità tra le due bandiere non va oltre l’estetica. È risaputo che la funzione principale di una bandiera è quella di rappresentare valori e ideali che accomunano il territorio su cui sventola e gli uomini e le donne che la stringono nelle loro mani. La Novorossia si sta costruendo attorno ai valori di libertà e lavoro, che in quella bandiera sono rappresentati dallo sfondo rosso che ricorda la bandiera sovietica e dalla croce di Sant’Andrea, blu su sfondo bianco, che ricorda la bandiera della marina russa che nel XVIII secolo liberò i territori del Donbass dalla presenza ottomana. Niente da spartire, quindi, con quella dei confederati spesso associata al passato schiavista e al razzismo imperante negli stati del sud degli Stati Uniti.

5.      Un timore diffuso fra i simpatizzanti delle repubbliche popolari è che le parti più progressiste di queste possano essere usate come “carne da macello” da parte del governo russo. Cosa farà Putin dei ribelli?

Mi trovo un po’ in difficoltà nel rispondere a questa domanda. Le ragioni sono due. La prima è di ordine generale. La lettura che applico all’evolversi degli eventi storici è materialista in senso marxiano, quindi mi riesce difficile utilizzare unicamente o in modo preponderante una dimensione geopolitica per leggere ciò che sta accadendo in Ucraina. In altre parole e più semplicemente, nella mia lettura alla base del divenire storico c’è lo scontro tra classi sociali e non la volontà e l’azione di “re e regine”, per parafrasare una felice espressione di Marc Bloch. Tradotto nel contesto specifico della Novorossjia , non credo che l’unico soggetto capace di determinare il futuro delle forze progressiste e in particolare dei comunisti nelle repubbliche sia la volontà di Putin e del gruppo di potere che rappresenta, ma si debba necessariamente includere anche le forze comuniste stesse e le masse popolari del Donbass. La seconda difficoltà che presenta la tua domanda è il fatto che è molto difficile poter prevedere in che modo il conflitto in Donbass potrà terminare. Ad ogni modo, ciò che è sicuro è che il governo di Putin ha sempre dimostrato un sostanziale antagonismo verso le forze comuniste, a meno che queste non smettessero di essere comuniste nei fatti e non diventassero subalterne ai sui interessi, come nel caso del Partito Comunista della Federazione Russa di Zyuganov. La situazione in Novorossjia è, però, diversa. Lì i comunisti godono di una forte legittimazione popolare conquistata sul campo di battaglia e grazie al supporto che il movimento antimperialista e internazionalista è riuscito a garantire fin da subito alle repubbliche. Soprattutto, il patrimonio ideale del movimento comunista internazionale, nel Donbass particolarmente legato al passato sovietico, riassunto da parole d’ordine come uguaglianza, giustizia sociale e collettivizzazione, è riconosciuto e fatto proprio da larghe fasce della popolazione. Questo appoggio popolare e il fatto che lì i comunisti sono armati e integrati in strutture militari, rende qualsiasi velleità di sbarazzarsi delle forze comuniste e antimperialiste da parte del governo di Putin e delle forze a lui più vicine in Novorossjia, rischioso e ricco di incognite. In questo momento, forse il più annoso problema per i comunisti è darsi una forma organizzativa e dare rappresentazione concreta a quel sentimento diffuso di giustizia sociale in modo che possa diventare programma politico e incidere nella vita politica e sociale delle repubbliche. Il fatto che il partito comunista di Donetsk sia stato il primo partito politico ufficialmente creato nelle repubbliche è un primo segnale incoraggiante. Ma probabilmente, ancora più significativa è la crescente presenza di posizioni “socialisteggianti” nei comandanti più carismatici delle milizie. Il caso più emblematico è forse quello di Mozgovoy, comandante della brigata fantasma, tra i capi militari più apprezzati dell’esercito popolare, che in una recente apparizione in occasione dell’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre ha ribadito di fronte ai cittadini di un quartiere di Lugansk che: “La Novorossjia sarà costruita, e sarà popolare e socialista”. I segnali incoraggianti per le forze progressiste delle repubbliche, dunque, non mancano.

6.      Da militante comunista e omosessuale … legge contro l’omosessualità, contraddizioni secondarie?

La Russia, come si sa, non è di certo la punta avanzata riguardo alle politiche sui diritti civili. In generale possiamo dire che né in Russia né in Novorossjia si respira aria di casa se sei donna, la forte influenza della Chiesa ortodossa è visibile, figurarsi donna e omosessuale. Inizialmente, provavo contrastanti sentimenti riguardo alla questione Ucraina: da una parte un potente istinto antifascista e internazionalista, dall’altra non potevo che provare rabbia rispetto alle dichiarazioni contro i matrimoni gay di varie aree politiche novorosse. Allo stesso tempo, nella mia testa il contorno della vicenda era chiaro: gli Usa da anni tentano di strappare l’Ucraina dall’area di influenza della Russia. Ci hanno provato prima con la rivoluzione arancione, pacifica e ben finanziata. Di fronte al fallimento di questa esperienza hanno optato senza nessuna remora per il golpe e lo scontro aperto. Siamo chiaramente davanti ad un attacco imperialista contro la classe lavoratrice ucraina e novorossa, in cui gli alfieri della “democrazia occidentale”, Usa e Ue, non si sono fatti problemi a sguinzagliare nostalgici nazisti con volontà genocide antirusse. L’ingresso dell’Ucraina nell’Ue sta già portando i primi frutti: tagli, privatizzazioni, future riduzioni di stipendi e pensioni. E la guerra, la strage di Odessa, le fosse comuni, i bombardamenti.

Mi ci sono arrovellata per giorni fin quando ho capito che occorre fare una gerarchia dei problemi. È necessario dunque porre come contraddizione centrale quella che informa e condiziona l’emergere e lo sviluppo del resto delle contraddizioni in una data situazione. Sono fortemente convinta che l’attacco imperialista, fascista e genocida in corso contro la Novorossjia sia la contraddizione primaria, mentre ritengo una contraddizione secondaria (non perché neghi il problema ovviamente, anzi lo rimarco) la questione sui diritti civili. Sarà possibile ampliare le libertà individuali solo in una Novorossjia libera dal giogo imperialista, nel caso contrario sarà possibile nell’ipotesi migliore instaurare meccanismi di formale rappresentanza delle istanze liberali senza una reale soluzioni dei problemi che affliggono le libertà personali sia in Ucraina che in Novorossjia. Una più o meno velata omofobia è diventata ricorrente nelle dichiarazioni di vari miliziani anche a causa dello svilupparsi di una specie di scontro di civiltà costruito dagli Usa a suon di Pussy Riot e Femen. Sono sempre stata fredda rispetto alle performance delle Pussy Riot e delle Femen: sulle Femen la realtà si è capita piano piano, quando alcune di loro hanno deciso di manifestare in difesa di Israele o di fotografarsi a braccio teso davanti alla Casa dei Sindacati in fiamme ad Odessa. Sulle Pussy Riot permagono aree di movimento che danno loro credito, rafforzato dalla repressione subita. Mi limito a condividere questo dossier su di loro: http://www.militant-blog.org/?p=7514.

L’intento diffamatorio verso il governo di Putin di questi fenomeni da baraccone si è riversato direttamente contro le Repubbliche popolari, favorendo la radicalizzazione di certi valori di rottura con l’Occidente, compreso un certo ostracismo verso i diritti civili liberali in generale e in particolare di quelli rivendicati dagli omossessuali. Di per sé, come ha giustamente fatto notare Borotba in un articolo in cui si commentava la FALSA notizia dell’approvazione di una legge anti-gay a Lugansk, in una situazione in cui è a rischio la sopravvivenza di un intero popolo suona quasi ridicolo pensare che il governo possa occuparsi di tali questioni, poiché appunto, del tutto secondarie. Da questo punto di vista ci tengo a ribadire che si, sono omosessuale, ma sono anche comunista. Non affronto la questione dei diritti dei gay in forma “occidentalista”, ovvero tramite la mera rivendicazione di diritti individuali e scissi da rivendicazioni di classe: consiglio questo testo che inquadra perfettamente il mio pensiero su questa tematicahttps://www.facebook.com/redguard/posts/10203790112067760

Solo questo mi ha permesso di avere la mente fredda e di capire che, nonostante la difficoltà che mi creava una certa omofobia diffusa, era importante che partissi per la Novorossjia in quanto militante internazionalista, antifascista e antiimperialista. In sintesi, il fatto che sia omosessuale non mi spinge a schierarmi con gli Usa, ma a lottare affinché le nostre rivendicazioni diventino patrimonio del movimento antimperialista e anticapitalista: mi rifiuto di fare l’utile idiota per l’imperialismo. Spiace dover constatare comunque, e forse in parte dipende dal fatto che una certa propaganda occidentalista è penetrata fin dentro il movimento italiano, che mi sono trovata ad essere l’unica donna nei 46 membri della Carovana antifascista. Le donne e l’internazionalismo sono un binomio che nella storia ha sempre funzionato benissimo e penso sia il caso di proseguire su questa strada.

7.      Strage di Odessa?

Il 2 maggio gruppi di ultras neonazisti e nazionalisti e organizzazioni neonaziste come Settore destro, organizzarono manifestazioni per l’unità dell’Ucraina in tutto il paese. In diverse città si registrano aggressioni di neonazisti contro chiunque potesse essere identificato come un simpatizzante di sinistra e della resistenza nel Donbass. Ciò che accadde ad Odessa fu, però, qualitativamente diverso. Circa due mila ultras e militanti neonazisti giunsero dal resto del paese e parteciparono alla manifestazione. In molti erano armati di mazze e catene, alcuni di loro avevano pistole, mentre una persona stringeva in bella mostra un’arma semiautomatica. A un certo punto il corteo fu attaccato con colpi di arma da fuoco sparati da persone con nastri rossi alle braccia posizionati dietro i cordoni di polizia antisommossa. Nonostante fosse chiaro da dove provenissero i colpi, la polizia rimase inerme e non fece nulla per fermare l’aggressione e bloccare i responsabile. La possibilità di trovarsi di fronte a una provocazione che coinvolgeva direttamente la locale polizia e i gruppi neonazisti, diventò certezza nelle ore successive. Dopo essere stati attaccati, i manifestanti si diressero direttamente verso la casa del sindacato al grido di “Gloria all’Ucraina, morte al nemico!” Nell’area adiacente alla sede sindacale si stava svolgendo un presidio di attivisti e cittadini contro il governo di Kiev e il Maidan che non è stato possibile in nessun modo collegare al precedente attacco. Una volta giunto al presidio, il corteo di nazionalisti e neonazisti iniziò ad attaccare i manifestanti alcuni dei quali trovarono rifugio all’interno dei locali della casa del sindacato. Uno dei responsabili dei gruppi di autodifesa del Maidan è stato immortalato sparare alle finestre dell’edificio dove si vede chiaramente si trovavano manifestanti antigovernativi nel tentativo di sfuggire alla furia neonazista. Intanto, parte dei camerati erano impegnati a pestare a morte i militanti anti-Maidan rimasti bloccati all’esterno, mentre il resto stava dando alle fiamme l’intera struttura con bombe molotov. Morirono in tutto 42 militanti anti-Maidan (la cifra non è stata confermata e secondo alcuni attivisti in realtà supera le 50 unità). Quelli che morirono all’interno della casa del sindacato, sono morti soffocati dai fumi dell’incendio provocato dai neonazisti o bruciati vivi dalle fiamme. Altri, nonostante fossero riusciti a scappare dall’incendio gettandosi dalle finestre, furono poi uccisi a bastonate dai neonazisti che circondavano l’edificio. Secondo l’organizzazione marxista Borotba, questo è il modo in cui è stato ucciso un loro militante, Andrei Brazhevskogo. La polizia non è stata in grado di fornire alcuna prova che i militanti uccisi erano armati. Chi sopravvisse fu immediatamente fermato e portato via dalla polizia. Nessuno dei responsabili dell’attacco ai manifestanti anti-Maidan è stato arrestato o incriminato, nonostante le molte testimonianze oculari e le foto e i filmati che provano la loro responsabilità.

Questa strage è stata uno spartiacque per il movimento di resistenza nel Donbass e ha rappresentato il definitivo passaggio alla lotta armata. Inoltre, rappresenta bene l’attuale situazione in Ucraina. Gruppi di neonazisti sono mobilitati e usati, in collaborazione con le forze di polizia, per difendere il governo di Kiev sorto dal Maidan reprimendo senza nessuno scrupolo gli oppositori politici. È necessario ricordare che molte dei personaggi più noti dei gruppi neonazisti presenti nel Maidan e a Odessa, oggi ricoprono alti incarichi all’interno delle forze di sicurezza. L’ultimo di una lunga serie di esempi è la nomina a capo della polizia di Kiev di Vadim Troyan, comandante del battaglione neonazista Azov e membro dell’organizzazione neonazista Patriota di Ucraina (che è ritenuto essere il braccio militare dell’Assemblea Nazional-socialista).

8.      Può esistere una geopolitica dei movimenti sociali e delle organizzazioni politiche di base? Come si decide se una protesta è da supportare o no? Hong Kong? Brasile?

Inutile dire che non basterebbero decine di pagine scritte per poter rispondere in modo esauriente a questa domanda. Ad ogni modo provo a farlo in modo sintetico, scusandomi fin da ora per le semplificazioni a cui necessariamente dovrò ricorrere. Partiamo da alcune constatazioni e dal delineare alcune categorie interpretative. Il sistema capitalista globale continua a vivere la sua fase imperialista. Le borghesie dei paesi a capitalismo avanzato, a causa delle difficoltà che incontrano nella valorizzazione dei loro capitali all’interno dei confini nazionali, cercano di accrescere il loro saggio di profitto a scapito delle periferie del mondo, portando avanti contro di loro guerre d’aggressione, imponendo trattati politico-commerciali penalizzanti (in particolare in riferimento alla gestione delle risorse naturali), e influenzandone le dinamiche politiche interne. Questo rappresenta il fronte esterno della lotta tra borghesia e proletariato mondiale che ruota attorno alla contraddizione imperialismo/popoli oppressi. A questo fronte esterno corrisponde un fronte interno in cui lo scontro tra borghesia e proletariato assume varie forme, ma che in particolare è informata attorno alla contraddizione tra capitale e lavoro, o più semplicemente tra padroni e lavoratori. Credo che ogni rivoluzionario dovrebbe sempre trovarsi dalla parte dei popoli oppressi da un lato, e del proletariato dall’altro.

Queste due contraddizioni imperialismo/popoli oppressi e borghesia/proletariato, sono quindi utili per orientarsi e interpretare i moltissimi movimenti sociali che negli ultimi anni si sono resi protagonisti di lotte anche molte dure. Ciononostante, è necessario evitare di applicare queste categorie in modo rigido per non piegare una realtà complessa alle semplificazioni della nostra struttura analitica. La complessità della realtà con cui dobbiamo confrontarci è data in particolare dal fatto che le forze imperialiste non sono solo antagoniste ai popoli che di volta in volta entrano nelle loro mire, ma sono anche in perenne lotta tra loro per l’accaparramento di maggiori risorse, maggiori mercati, maggiore profitto. Così, per calare questo discorso astratto al caso concreto qui in oggetto, nella fase iniziale delle proteste del Maidan le due contraddizioni non erano ben chiare. Da una parte c’erano alcune giuste rivendicazioni della popolazione ucraina che chiedeva la fine del sistema degli oligarchi e della corruzione imperante nel paese, dall’altra c’era l’ingerenza dell’imperialismo americano e della borghesia ucraina filooccidentale, appoggiata dai gruppi neonazisti, che cercava di cavalcare la protesta e deporre il governo democraticamente eletto di Yanukovic (un governo che come si è detto sopra era certamente corrotto e antipopolare, ma manteneva comunque una certa indipendenza dalle ingerenze imperialiste). Dopo una prima fase in cui queste due tendenze contrastanti si sono bilanciate all’interno del Maidan, i gruppi neonazisti e quelli neoliberisti hanno preso il controllo delle proteste e il movimento del Maidan si è trasformato da un fenomeno politico caratterizzato da alcune spinte progressiste, a un movimento reazionario e filo-imperialista. Una volta instaurato il governo golpista, americani, europei e FMI hanno iniziato a finanziarlo, armarlo e addestrarlo. In seguito, il conflitto si è esteso all’est del paese dove la popolazione in maggioranza russofona e contraria al golpe, si è ribellata all’attacco frontale che il governo di Kiev gli ha scagliato contro nei mesi immediatamente successivi alla sua instaurazione, attraverso la nomina di locali oligarchi legati alla galassia neonazista e russofobica a governatori locali, una nuova tassazione che penalizzava le regioni dell’est, restrizione nell’uso della lingua russa, e – forse l’aspetto più simbolico di questo attacco – la distruzione delle statue di Lenin e dei monumenti che ricordavano il passato sovietico. In questo contesto, sembra evidente il delinearsi di una situazione che rientra nello scontro tra imperialismo e popoli oppressi di cui si diceva sopra, visto il cruciale sostegno degli imperialismi occidentali al governo golpista di Kiev. All’interno di questo scontro esiste certamente anche un conflitto tra gli imperialismi occidentali e la Russia che sta cercando di utilizzare la legittima rivolta del popolo del Donbass per perseguire i propri interessi strategici nell’area. Questo aspetto, però, non può offuscare il carattere antimperialista della resistenza nel Donbass, non solo perché si tratta di un popolo aggredito da una forza capitalista e appoggiata dagli imperialismi oggi egemonici a livello mondiale, ma anche perché al proprio interno le forze proletarie e progressiste stanno guadagnando una crescente influenza all’interno del fronte di resistenza, evidenziando come, anche seguendo la contraddizione tra borghesia e proletariato, la resistenza del Donbass si collochi tendenzialmente dalla parte “giusta” della barricata, quella cioè degli oppressi e sfruttati.

Guardando oltre il caso del Donbass, le cosiddette rivoluzioni colorate e in parte anche la primavera araba si sono concluse, dove vittoriose, in tutti i casi con un avvicinamento dei paesi coinvolti alla sfera di influenza occidentale. Ciò non significa certo negare il protagonismo che in diversi casi (pensiamo ad esempio all’Egitto e alla Tunisia) le classi subalterne sono riuscite ad esprimere. Dovendo però tirare le fila di quella stagione di proteste e delle proteste che recentemente hanno avuto luogo, ad esempio a Hong Kong, è possibile constatare come laddove le rivendicazioni sui diritti civili ispirati al pensiero liberale occidentale hanno avuto una netta centralità sulle rivendicazioni sociali, ciò sia stato spesso il segnale che la composizione di classe e la guida politica di quelle proteste fosse in mano a settori di borghesia legata in modo più o meno diretto all’occidente, rendendo il supporto a quelle proteste molto problematico, se non addirittura, incompatibile con la pratica antimperialista. In ogni caso, anche in presenza di questo tipo di movimenti sociali, come comunisti e più in generale come antimperialisti, credo sia sempre necessario cercare di legarsi a gruppi e organizzazioni che all’interno del movimento specifico, rappresentano la sinistra, quella parte cioè genuinamente impegnata a far crescere e organizzare la coscienza di classe nel proletariato per un cambiamento radicale dei rapporti sociali esistenti verso la costruzione di una società che, riprendendo una vecchia formula, sia libera “da classi, guerra e sfruttamento”.

http://www.noisaremotutto.org/2014/12/11/note-sul-donbass-e-la-resistenza-antimperialista

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